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Spender tempo: il turismo come esperienza di leisure

TURISMO COME CONSUMO E COME ESPERIENZA

1. Spender tempo: il turismo come esperienza di leisure

Se lo studio dell’attività di consumo diventa, nella tarda modernità, oggetto pressoché obbligato per la sociologia - tanto da arriva a definire le società contemporanee come “società dei consumi” – lo studio dell’attività turistica entra a pieno titolo nell’alveo della ricerca sociologica sui consumi in quanto, questo particolare comportamento di consumo, essenzialmente legata al tempo libero e alla disponibilità di denaro, non si sarebbe mai potuta sviluppare senza l’avvento di una “società dei consumi”, una società opulenta soggettivamente e strutturalmente sempre più organizzata attorno alla pratica di consumo.

Come sottolinea Urry (1995), infatti, l’attività turistica di massa si poté sviluppare solo quando una varietà di mutamenti economici, urbani, infrastrutturali ed attitudinali trasformarono le esperienze sociali di grandi settori della popolazione delle società europee durante il corso del XIX secolo.

Tali mutamenti non furono quelli della “prima modernità”, schiacciata sulla produzione industriale sul lavoro, bensì, più propriamente, quelli legati alla “tarda modernità”, cioè alla fase embrionale della società dei consumi, il cui inizio è segnato dalla progressiva saturazione dei mercati e dal prevalere della strategia industriale basata sulla riduzione del tempo di lavoro e sul concomitante innalzamento dei salari88 .

Abbiamo già avuto modo di notare, infatti, come la società affluente dei consumi si sviluppi a partire dalla progressiva liberazione degli istinti edonistici di grandi masse di lavoratori, una strategia atta ad alimentare la crescente possibilità di offerta dei mercati e rivelatasi, quasi immediatamente, talmente efficace da venire successivamente in ogni modo alimentata dalla nascita di una vera e propria industria culturale atta a promuovere bisogni e stili di vita “consumistici” (Cfr. Cross 1998).

Come scrive Lo Verde in merito allo sviluppo delle pratiche del leisure già a partire dalla fine dell’800 (l’inizio della cosiddetta “belle Epoque”), la capilate francese giungerà «in poco tempo [...] a costituire la rapresentazione vivente di uno spirito del loisir che diventerà non solo la caratteristica della città, ma anche della svolta di un’epoca» (2009, p. 39).

É l’inizio non solo della prosperità generalizzata e della rincorsa al consumo ma anche del “consumo” di tempo libero nel divertimento, in un atteggiamento collettivo di dissolutezza nel quale molti commentatori moraleggianti ravvidero, soprattutto col senno di poi, i prodromi di un’inevitabile disastro sociale quale sarebbe stato effettivamente di lì a poco lo scoppio della Grande Guerra. In realtà, la Grande Guerra aveva poco o nulla a che fare con la crescente dissolutezza dei costumi e ben di più con i cambiamenti geopolitici che certamente la svolta di un epoca poneva sul piatto. La verità era che all’interno di questa rivoluzione dei ritmi della città si innestava «la nascita di una concezione del leisure time come tempo in cui costruire una redditività e un’efficienza monetizzabile, a tal punto da generare un’industria a tutti gli effetti» (ivi), l’industria del divertissement, che, oltre a produrre essa stessa un discreto indotto, risultava ampiamente funzionale allo stimolo dei consumi, una politica di liberazione degli istinti edonistici contrastata solo dal perdurare di una radicata etica del lavoro, la stessa che guidava i giudizi di coloro che vedevano nel loisir generalizzato solo una forma di decadenza che non avrebbe potuto portare a null’altro che al disastro. In realtà, tale politica fu ampiamente adottata tra le due Guerre e soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, periodo durante il quale i cui fruitori dell’industria dell’entertainment negli Stati Uniti e del divertissement in Europa, vennero ad allargarsi dal ceto medio fino alla classe operaia, sviluppando un effetto regolativo e apparentemente perequativo tipicamente moderno.

E mentre i critici francofortesi denunciavano l’appiattimento della società ad una dimensione dominata dal mero soddisfacimento di bisogni materiali perennemente alimentati dalle logiche produttive, Baudrillard (1976) parlerà di una diffusa fun

morality che trasforma le attività del tempo libero in attività perfettamente integrate

all’interno dell’orizzonte sistemico delle società capitalistiche funzionalmente organizzate. Cioè, detto altrimenti, attività funzionali alla razionalizzazione crescente degli ambiti della vita i quali, pur nella crescente differenziazione, devono conformarsi in qualche modo alle esigenze funzionali della produzione. Quest’ultima, d’altronde, ampiamente dematerializzata, assume sempre più la forma del servizio al consumo e, all’estremo, del consumo di esperienza, attività da svolgersi primariamente nel tempo libero (Cfr. Rifkin 2000, da p. 183 a 248).

Appare infatti quantomeno pertinente definire le società occidentali contemporanee come “società del tempo libero” (Ferraresi e Brunelli 2003) all’interno del quale l’attività turistica riveste un rilievo non certo indifferente e, anzi, può essere definita in qualche modo come una sottocategoria o una particolare specificazione del senso dato proprio al nostro tempo libero.

In effetti, più in generale, appare opportuno parlare di leisure time, termine più ampio in realtà rispetto al mero free time, quest’ultimo molto spesso schiacciato sulla sola dimensione del tempo “liberato dal lavoro e dagli impegni”. La dimensione del leisure, infatti, sta ad indicare, come afferma Lo Verde (2009), una vera e propria «provincia finita di significato».

Il leisure time, come i leisure spaces, rappresentano cioè «“ambienti” il cui senso è definito sia da colui che vuole attribuire ad essi un significato specifico, sia dal processo di istituzionalizzazione dei medesimi, il quale rende tempi, spazi e pratiche riconoscibili

come “situazioni” dello svago, evidenziando come siano sempre il risultato di una costruzione sociale, ma anche delle diverse condizioni societarie che connotano, in un dato momento storico, le diverse società» (ibidem. p. 9).

Allo stesso modo, il “tempo turistico” si staglia all’interno del leisure time come una modalità che in parte può riproporre il senso e le pratiche usuali del tempo libero ma che più spesso assume invece un significato del tutto peculiare rispetto al quotidiano, diventa, cioè, sinonimo di “inusuale”, “alternativo”, tempo e luogo “altro”. In questo modo, il significato e il senso dato al fare turismo può cambiare e modificarsi proporzionalmente proprio in relazione al modificarsi delle attività (e del senso dato alle attività) che solitamente pratichiamo nel tempo libero.

Ciò che dovrebbe quindi caratterizzare lo studio sociologico dell’attività turistica riguarda, innanzitutto, il senso, sociale e soggettivo, dato dal turista al fare vacanza, cercando di determinare i moventi ideali che spingono gli individui a viaggiare, a spostarsi dalla propria residenza abituale al solo fine di vedere qualcosa o di vivere un’esperienza diversa dall’ordinario, per poi fare ritorno a quello stesso “ordinario” o quotidiano che avevano lasciato.

Se compito della sociologia, in quanto scienza “comprendente”89, appare allora quello di stabilire innanzitutto i legami strutturali che determinano, vincolano o permettono determinati comportamenti, nonché di studiare, catalogare, capire, le relazioni sociali cui tali comportamenti possono alternativamente dare vita o cui possono essere subordinati, dal punto di vista della sociologia del consumo lo studio turistico pare caratterizzarsi anche dallo studio di quelle circostanze che determinano e caratterizzano l’attività turistica come consumo.

In questo senso, mano a mano che gli studi sul consumo definiscono quest’ultimo sempre più come «area esperienziale» complessa (Di Nallo 2004), densa di significati sociali e culturali, l’esperienza stessa diventa la chiave di volta per l’osservazione e la comprensione dei consumi. Come non manca di sottolineare Jeremy Rifkin (2000) a partire dalle note tesi dei consulenti di marketing B. Joseph Pine e James Gilmore: «nell’emergente economia dell’esperienza, non si producono beni, ma ricordi» (2000, p. 194). Dalla mercificazione dello spazio (prima risorsa del proto-capitalismo) si è mano a mano a mano passati alla mercificazione totale dell’esperienza: «il cibo che mangiamo, i beni che produciamo, i servizi che dispensiamo, le esperienze culturali che condividiamo» (ivi).

E l’espressione più potente e visibile della nuova economia dell’esperienza è, per l’appunto, il turismo globale: «una forma di produzione culturale emersa, ai margini della vita economica, appena mezzo secolo fa, per diventare rapidamente una delle più importanti industrie del mondo. Il turismo non è altro che la mercificazione di un’esperienza culturale» (ibidem, p. 195).

Ripercorrendo le tappe di questo sviluppo, sappiamo bene che, tradizionalmente, proprio la disponibilità di tempo significativo connotava la classe cosiddetta “agiata”,

89 La definizione della sociologia come scienza “comprendente” è da attribuire a Max Weber, il quale spiega come sia peculiare compito di questa (allora) nuova scienza quello il “comprendere” e rendere intellegibile il comportamento umano socialmente determinato.

ovvero la leisure class, definita da Veblen proprio a partire dall’esibizione innanzitutto di tempo ozioso, improduttivo (conspicuous leisure), fondamentalmente dedicato allo spendere in maniera cospicua (conspicuous consumption) al fine di distinguersi nella “lotta” sociale per lo status.

All’interno di questo contesto, la vacanza e il luogo della vacanza divennero anch’essi determinanti per la definizione dello status. Infatti, una maggiore democratizzazione di tempo e denaro furono esattamente le componenti necessarie (ma non sufficienti) affinché si sviluppasse una fiorente economia del turismo, le cui prassi e assetti fondamentali sono, almeno inizialmente determinati proprio a partire dalla differente strutturazione del tempo libero rispetto al tempo di lavoro e, in tal senso, si vennero, almeno inizialmente, a saldare con la strutturazione di classe delle società industriali e mercantili moderne.

Il Gran Tour, l’antesignano del turismo moderno dal quale deriva lo stesso termine “turismo”, riguardava una pratica eminentemente aristocratica e rimase a lungo prerogativa della cosiddetta leisure class anche la “villeggiatura”, intesa come la possibilità di lasciare la residenza abituale al fine di soggiornare per un breve periodo in località ritenute più salubri e tranquille come la campagna90, la montagna o, più tardi, il mare.

Il turismo, quindi, nasce come attività elitaria e, come tale, non adatta a caratterizzare l’intero contesto societario, come si fa, ad esempio, quando si definisce la società contemporanea come “società dei consumi”.

Tuttavia, oggigiorno, possiamo essere più o meno tutti persuasi della correttezza dell’iperbolica affermazione che il sociologo americano Dean MacCannell attribuisce ad uno studente iraniano il quale, durante una lezione, affermò in maniera perentoria: “rendiamocene conto, siamo tutti turisti!”.

D’altronde, la storia stessa del viaggio e del turismo ci parla di una sua progressiva universalizzazione: «Ciò che inizia come l’attività specifica di un eroe (Alessandro il Grande), si trasforma nella meta di un gruppo socialmente organizzato (i Crociati), nell’indice di status di una classe sociale (il Grand Tour dei «gentlemen» britannici), diventando in fine esperienza universale (il turista)» (MacCannell 2005, p. 9).

Tanto più che l’attività economica e il giro d’affari che ruota attorno al turismo ha finito, oramai, per fare del turismo stesso un’attività sempre più “desiderabile” - spesso addirittura indispensabile - per l’economia di certe località o addirittura di interi Paesi, i quali possono arrivare a ridefinire l’intero assetto urbanistico e architettonico, nonché abitudini, tradizioni, storia, in virtù dell’andamento del settore turistico91.

Sulla rilevanza economica dell’attività turistica, d’altronde, le cifre parlano chiaro: le stime dell’Organizzazione Mondiale del Turismo (OMT) relative ai dati dei flussi

90 Il termine “villeggiatura” o “villeggiare”, deriva infatti dal latino villicare, che significa letteralmente “stare in villa”, cioè nella residenza di campagna.

91 Urry (1995) oltre a descrivere l’evoluzione delle stazioni balneari inglesi più in voga e la loro differenziazione per “tono sociale” in merito alle scelte e ai vincoli urbanistici e proprietari vigenti, fa l’esempio più recente dell’evoluzione dell’intera “Old England” verso una rivalutazione e quindi ripresa e valorizzazione del suo patrimonio storico per continuare a competere sul mercato turistico internazionalizzatosi.

turistici mondiali rivelano che siamo passati da pochi milioni di turisti negli anni ‘50 al traguardo simbolico, appena tagliato, del miliardo di turisti in tutto il mondo92. Ma se a tali cifre vengono associate ai dati relativi ai movimenti di turismo interni a ciascun Paese, il flusso di persone che si muovono verso e soggiornano in una località diversa dall’abituale residenza, arriva anche a sei miliardi di individui l’anno. L’elevata percentuale sul totale dei consumi fa si che il turismo sia una delle principali voci della bilancia commerciale mondiale. Con oltre 1.200 miliardi di dollari il turismo rappresenta oggi, su scala globale, il 6% delle esportazioni di beni e servizi, quarta categoria dopo i carburanti, i prodotti chimici e quelli alimentari93.

Basta questo per poter tranquillamente affermare che ci troviamo di fronte ad un fenomeno sociale di portata impressionante, il quale caratterizza prepotentemente sia gli equilibri quotidiani della nostra società che le abitudini personali di tutti gli individui che ne fanno parte (Beck 2000).

Quindi, anche se, come abbiamo detto, non sarebbe probabilmente corretto parlare di “società del turismo”, è certamente questa progressiva universalizzazione del turismo che, assieme alla sua crescente rilevanza economica, ne fa uno dei caratteri peculiari della moderna società del consumo, e ciò tanto più quanto il consumo si fa “esperienza” (customer experience) e, di conseguenza, l’esperienza viene ad essere dominata dalle forme e dai ritmi del consumo. Infatti, é la progressiva sottile coincidenza dell’esperienza di vita con l’esperienza di consumo che fa del turismo oggi forse la più caratteristica delle attività di consumo in quanto esso è, sempre più, esplicita ricerca di inedite esperienze di vita e, al contempo, sempre più, anche esperienza di consumo. Come osserva infatti Savelli dopo una prima fase “autodiretta” del turismo elitario, fondamentalmente dominata dalla ricerca di quelle «terre di nessuno» che rappresentavano un’alternativa d’evasione al mondo profano del quotidiano e contemporaneamente allo sviluppo della società industriale avanzata, la tendenza diventa quella di estendere il controllo della produzione e, quindi, della razionalizzazione a tutti gli ambiti della vita, soprattutto nella forma del consumo, cioè a quell’attività che, per usare proprio le parole di Savelli, «dall’esterno determina il successo della fabbrica stessa» (2008, p. 11).

In tal senso, la nuova centralità acquisita dal tempo libero, nel quadro di un sistema produttivo che investe tutta la società, porta a riassorbire in esso spazi e tempi della vacanza e del turismo: «questi diventano oramai palesemente prodotti da consumare» (ivi), così che «la palese riduzione delle “terre di nessuno” […] a “quartieri specializzati” di un onnicomprensivo sistema di insediamento e di produzione di beni e servizi riduce il turismo a movimento interno allo spazio ordinario, anche se continua a nutrirlo dei miti ormai stereotipati e riprodotti in copie banali di quell’altrove ormai estinto che aveva alimentato il movimento della fase precedente» (ivi).

92 Secondo una nota stampa rilasciata dalla World Tourism Organization il 13 dicembre del 2012, sarebbe stato idealmente identificato in una turista britannica, Mrs. Dale Sheppard-Floyd, la quale visitava Madrid, il miliardesimo turista internazionale del 2012 (UNWTO Press Release, UNWTO

welcomes the world’s one-billionth tourist, 13 dicembre, 2012, http://media.unwto.org/en/press- release/2012-12-13/unwto-welcomes-world-s-one-billionth-tourist).

Detto in altre parole, la turistizzazione di quegli “altrove” che avevano alimentato il sogno e il bisogno di fuga dall’elemento razionalizzante della società industriale determina una loro progressiva inclusione all’interno di quel “tutto funzionale” oramai ampiamente schiacciato sul consumo, trasformando (anche) la pratica turistica definitivamente in pratica di consumo.

Questa diretta filiazione e la rilevanza economica dell’attività turistica stessa ne fanno, quindi, a pieno titolo un’attività di consumo per molti aspetti non dissimile dalle altre. Anzi, la peculiarità dell’attività turistica, che è (o potrebbe essere) innanzitutto viaggio, scoperta e incontro tra culture, viene in larga parte meno tanto più il turismo assume le caratteristiche proprie del mero consumismo.

Questo aspetto è stato evidenziato in larga misura, ad esempio, nella dicotomia ricorrentemente ripresa tra «turismo» e «viaggio» e, quindi, tra «turista» e «viaggiatore», il primo inteso, per l’appunto, come una sorta di longa manus del consumatore occidentale su luoghi e popolazioni “altre”.

1.1 Una figura paradigmatica: il sightseer

Almeno da quando essa è diventata significativa nella società, da quando cioè la pratica turistica si è andata affermando come fenomeno di massa, la figura del turista è stata avvolta nella descrizione e nell’analisi che ne è stata fatta dai diversi autori che si sono misurati con l’analisi di tale pratica tipicamente moderna, da una sorta di aura negativa, vagamente snob, soprattutto se riportata alla gloriosa tradizione aristocratica del Grand Tour, pratica elitaria ammantata spesso di una dimensione culturale e semi-spirituale. Poco importa se alcune cronache riportano l’atmosfera semi carnevalesca e dissoluta con cui i giovani rampolli delle famiglie bene vivevano tale esperienza94: essi rappresentavano, come diremo oggi, la futura «classe dirigente» per cui il loro destino illuminava, potremmo dire col senno del poi, tale periodo, il quale assumeva così in qualche modo un suo ruolo e un suo posto d’onore nella biografia del soggetto.

Di contro all’elevazione attribuita al Grand Tour, il turismo di massa allargato via via a strati crescenti di popolazione di tutte le classi sociali, ha finito per diventare sinonimo di esperienza mediocre e consumistica.

Daniel Boorstin parla dei turisti in termini decisamente spregiativi paragonandoli a «mandrie [...] che non si separano mai» riversati «lungo le strade con la loro guida […] che gira attorno come un cane da pastore» (cit. in MacCannell 2005, p. 13). Ancora Nancy Mitford sotiene che «Il Barbaro di ieri è il turista di oggi» (cit. in Urry 1995). Il turista è stato così descritto alla stregua di una strana e subalterna categoria antropologica, un essere che girovaga a tappe forzate per vedere “le cose da vedere”, un mero curioso, il cui sguardo si posa incessantemente su tutto ciò che gli sta intorno di inusuale, in qualche modo interessante o fuori dall’ordinario, immortalando spesso tali

94 MacCannell (2005), ad esempio, riporta una di tali cronache nelle quali i giovani rampolli in visita in Italia venivano apostrofati con il termine di “maccarones” per indicare il loro peculiare scimiottamento degli usi e dei costumi dei locali, dediti soprattutto al divertimento.

suggestioni sulla memory card della propria macchina fotografica ma senza un reale contatto o coinvolgimento con ciò che lo circonda.

In questo senso, Luca Savoja, fa notare come «attraverso la riduzione in immagini dell’esperienza […] il turismo viene assimilato allo spettacolo ed in particolare al film, che fornisce un piacere visivo ma pone un confine tra le immagini e gli spettatori» (Savoja 2005, p. 99).

Saremmo di fronte, più prosaicamente, al mero «sightseer», il turista che partecipa, subendola, della “museificazione” della società e dell’esperienza che diventa, parallellamente alla “vetrinizzazione” delle attrazioni, sempre più simile alla fruizione estetica del mero spettacolo95 e, in questo senso, sempre più simile ad una sommatoria e un accumulo di esperienze superficiali.

Questa descrizione spesso velatamente spregiativa del turista un po’ ignorante, incapace di capire ed apprezzare veramente ciò che vede, incapace di arricchirsi anche di nuove conoscenze per via della rapidità che il percorso a tappe forzate, progettato a tavolino da lui stesso o dai tour operator cui si affida gli impone, è d’altronde quella che più avvicina l’attività turistica al mero consumo, in questo caso di luoghi, suggestioni, viste, al limite qualche emozione. Il turismo, in questo caso si ridurrebbe ad una vera e propria “bulimia” esperienziale che nasconde, non di rado, l’ansia di rendere la propria vita all’altezza della vastità di possibilità proposte e messe a disposizione dall’industria culturale.

Il progressivo venir meno di un senso ultimativo del sociale, sempre più decostruito in senso individualistico, farebbe in modo che l’unico legame sociale veramente significativo rimmarebbe quello del consumo o, meglio, della partecipazione al consumo come sostituto paliativo della pratica di cittadinanza (Bauman 2007).

La ricerca della sight servirebbe quindi al turista principalmente per evadere dalla routine quotidiana ricercando semplicemente l’inedito e lo straordinario, possibilità che, in quanto tale, diventa indice di cittadinanza presso la società dei consumi e del tempo libero.

Infatti, dato che «Essere un turista è una delle caratteristiche dell’esperienza “moderna” [...], “Non partire” è come non possedere un’automobile o una casa accogliente» (Urry 1995, p. 19).

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