IL TURISMO TRA GLOBALE E LOCALE
1. Ripensare il luogo: mobilità come paradigma del mondo globale?
1.2 Lo “sguardo del vincitore”: turismo globale tra fascinazione neo esotica e neo-colonialismo
La ridefinizione su scala globale delle diseguaglianze posta con enfasi da Bauman pone per il turismo prospettive inquietanti. Se è vero infatti che nell’era della mobilità proprio il turismo assume i connotati di un “fatto sociale totale” capace di illuminare i fenomeni della vita collettiva ai tempi della globalizzazione, allora bisogna prendere in seria considerazione il fatto che il viaggio e, quindi, la possibilità di essere mobili, rappresenti una forma di riaffermazione della differenziazione gerarchica, la quale si è tradizionalmente mossa su scala planetaria in direzione dell’affermazione etnocentrica
142 «I ricchi – scrive Bauman – che per caso sono sulla scena politica gli attori con le maggiori risorse e il potere più grande, non hanno bisogno dei poveri né per la salvezza della loro anima (che non credono di avere e che comunque non riterrebbero degna di cura) né per rimanere ricchi o per diventare ancora più ricchi (ciò che secondo la loro opinione sarebbe più semplice, se non ci fosse la richiesta di dividere una parte della loro ricchezza con i poveri). I poveri non sono figli di Dio con i quali si possa praticare la carità redentrice. Non sono l’esercito di riserva che deve essere addestrato per il ritorno alla produzione del profitto. Non sono i consumatori che si devono indurre in tentazione e convincere a prendere la guida nella ripresa dell’economia» (cit. in Beck 1997, p. 77).
143 Già nel settembre 2011 il Presidente della Banca Mondiale Robert Zoellick suggeriva alla Cina di «aumentare la crescita economica globale portando avanti le riforme per promuovere il consumo interno e ridurre la dipendenza dalle esportazioni e dagli investimenti» (Cina: Zoellink, stimolare la
crescita puntando sul consumo interno, in “Il Sole 24 Ore Radiocor”, 06 settembre 2011,
dei paesi di prima modernizzazione.
D’altronde, la constatazione che all’interno delle moderne società funzionalmente organizzate le relazioni si siano ridotte sempre più a mere relazioni di servizio, in qualche modo cioè sempre più orizzontali e quindi sempre meno capaci di esprimere differenziazione sociale, ha fatto sorgere l’idea che la differenziazione classista, nella sua formulazione più stringente riconducibile al rapporto “servo/padrone”, si sia progressivamente spostata spazialmente, cioè abbia abbandonato i confini delle società occidentali per riproporsi nell’ambito del turismo internazionale, soprattutto se diretto verso Paesi in via di sviluppo.
Quest’ottica, fondamentalmente neo-colonialista, guarda quindi a certi sviluppi del turismo internazionale come ad una ricerca dell’autenticità tribale e pre-moderna che, parimenti a quanto avvenuto nel primo periodo coloniale, coniuga una certa fascinazione neo-esotica con la volontà di riconferma di una presunta superiorità occidentale144.
Questa tesi si sposa d’altronde con quella che intravede nella mobilità permessa oggi dagli sviluppi dell’economia globale il segno evidente di una rinnovata stratificazione sociale su scala globale, una divisione che passa proprio per la capacità di movimento dei «ricchi globalizzati» che si contrappone alla stanzialità pressoché coatta dei «poveri localizzati» (Bauman 1998).
Bauman usa proprio la metafora dei «turisti», che contrappone alla figura dei «vagabondi», per indicare la nuova classe globale, la classe dei vincitori della globalizzazione capaci di dominare le dinamiche dell’economia globale cavalcandole, liberi di spostarsi e di spostare capitali ovunque convenga nel mondo.
Il turista globale, il rappresentante della classe ricca e prospera del nuovo volto mondiale, trarrebbe allora consapevolezza della propria posizione privilegiata in contrapposizione alla «miseria degli esclusi» che egli può riscontrare - questa sì certamente nella sua più stretta autenticità - attraverso il proprio peregrinare libero ovunque nel mondo.
Come suggerisce quindi Ragone (1985), in quest’ottica «l’autenticità che caratterizza l’esperienza turistica è proprio l’autenticità di una relazione sociale e, in particolare, l’autenticità di una contrapposizione di classe, la quale si genera “naturalmente”, […] quando si incontrano la cultura dominante del viaggiatore e la cultura indigena»145. Non a caso – spiega sempre Ragone - il pregio di una località turistica è oggi inversamente proporzionale all’entità della sua organizzazione ricreativa. Così, paradossalmente, le vacanze più sofisticate si realizzano nei luoghi più poveri, dove sopravvivono le ultime comunità rurali, marine o montane, mentre la vacanza più a buon mercato si realizza nei luoghi turistici più organizzati e attrezzati, dove l’antico rapporto padrone-servitore si è trasformato nel più moderno e laico rapporto «acquirente
144 Come riporta Duccio Canestrini: «Occorre riconoscere che in gran parte del mondo in via di sviluppo il turismo internazionale è cresciuto come un’industria neo-coloniale, sfruttando le nuove materie prime (sole, mare. Clima) di Paesi poveri e per giunta indebitati (2005, Quale turismo dopo lo
tsunami, in http://files.homoturisticus.com/antropo/docs/20050215093528.pdf)
145 Cfr. Ragone G., 1998, Turismo, “Enciclopedia delle Scienze Sociali”,
di servizi-venditore di servizi».
Si può allora intravedere una peculiare convergenza tra la spettacolarizzazione dell’esperienza, la rincorsa verso esperienze sempre nuove e straordinarie, monopolio del potere d’acquisto dei turisti globali, con quel sentimento di superiorità tipico dell’etnocentrismo occidentale nel periodo coloniale e ora generalizzato trasversalmente a tutti coloro che, nella globalizzazione, si sentono uniti in una ideale comunità di “vincitori” sociali.
In effetti, man mano che si democraticizza il tempo libero e cresce la disponibilità di denaro pro capite, cresce anche proporzionalmente l’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento, le quali fanno dell’esperienza inusuale, divertente, “spettacolare”, la loro prima fonte di reddito. E cosa si offre di più immediatamente spettacolare se non lo spettacolo stesso del mondo, con i suoi paesaggi, le sue stranezze, le sue infinite diversità? Lo sviluppo del turismo globale può essere allora ricondotto, in tal senso, anche a quella fame di esperienza, scoperta, curiosità per l’inedito e lo straordinario esotico che alimentava e andava di pari passo con la volontà di conquista delle potenze europee nella fase coloniale. La peculiare fascinazione per un esotismo che era sempre possibile dominare, infatti, ne rappresenta forse l’archetipo più significativo, parte integrante di quel dominio sulla natura che, al tempo stesso, sostanziò l’Illuminismo e la sua degenerazione.
L’interesse per i popoli lontani, esotici e selvaggi, era rinomato infatti già nella Francia del XVIII secolo. Erano i tempi delle “Lettere Persiane” e i resoconti di viaggio rappresentavano le letture preferite: «Alla sofisticazione e alla frivolezza della cultura si contrapponeva l’onestà e la semplicità dei popoli primitivi» (Arendt 1951, p. 226). Si tratta del mito del “buon selvaggio” (bon sauvage) che Rousseau usò per contrapporre l’ideale stato di natura alla corruzione dello spirito causata dalla vita societaria della sua epoca. Rimane famosa infatti la frase con cui Rousseau iniziò l’Émile: «Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore; ogni cosa degenera nelle mani dell’uomo». Si trattava del primo tentativo di ribaltare una visione del selvaggio che si alimentava dei racconti e dei misfatti dell’epoca coloniale, nella quale, assieme all’«appassionato amore per la vita nella purezza dell’avventura esotica» celebrato da Rimbaud, la “civiltà” stessa prendeva crescente coscienza di sé, in contrapposizione proprio alle società indigene e selvagge con le quali si trovava, in maniera inedita, a fare i conti. Così, il mito del buon selvaggio servì primariamente non tanto a ridare dignità a quei popoli dei quali si doveva ancora decidere l’appartenenza o meno all’umanità, quanto piuttosto a guardare riflessivamente alle tendenze della nascente società moderna, così profondamente attraversata da tensioni contraddittorie146. Infatti, nei secoli successivi, a partire dal XVIII e fino alla fine del XIX secolo - l’età dell’imperialismo - le spinte espansionistiche dell’oramai emancipata classe borghese contribuirono a nutrire
146 Scrive infatti Kilani in riferimento ai secoli XVI e XVII: «La crisi delle idee dell’epoca riguarda essenzialmente l’uomo europeo: gli interrogativi che egli solleva non concernono altri che se stesso, le sue istituzioni, credenze e costumi. Le annotazioni che egli accumula sui selvaggi e che accompagnano le sue riflessioni in generale non servono che come conferme o apologie a sostegno del suo discorso. In altri termini, l’attenzione rivolta agli altri costituisce solo un pretesto per discutere della propria società, e dicendo pretesto si intende dire interesse poco marcato per la realtà altrui» (2011, p. 233).
piuttosto il mito del “cattivo selvaggio”, «buono solo a sottomettersi e a confermare la superiorità dell’Occidente» (Kilani 2011, p. 234).
Le visioni contrapposte del buono e del cattivo selvaggio servirono quindi, almeno dal XVI secolo in avanti, le esigenze culturali e politiche dell’Occidente in via di modernizzazione, per il quale “gli Altri”, per il fatto stesso di venir “prefigurati” prima ancora che “percepiti”, furono caratterizzati da due valenze fondamentali: il remoto, legato tanto alle condizioni della geografia e della cartografia quanto alla consuetudine d’esaminare con curiosità l’ambiente circostante e alla pratica visiva; e lo straordinario, sotto le sue due valenze essenziali del “mostruoso” e del “paradisiaco” (Cfr. Affergan 1991, p. 23).
Le due tendenze opposte, in qualche modo, finirono per toccarsi e il remoto stesso, l’esotico, ad essere percepito come “straordinario” in quanto tale, ma pur sempre nelle due forme antitetiche appunto del mostruoso e del paradisiaco, entrambe accomunate da una tensione irrestibile, e del tutto moderna, alla spettacolarizzazione.
In questo modo, agli inizi del XIX secolo poterono fiorire senza troppi problemi le esibizioni dell’alterità, selvaggia, esotica e mostruosa appunto, comunque straordinaria, nei quali figuravano come attrazioni di richiamo proprio esemplari dei popoli selvaggi, soprattutto africani.
La moda degli «Zoo umani» fu tipica dell’ottocento e si trattava di luoghi nei quali venivano riprodotti scenari esotici dove gli indigeni potevano esibirsi danzando, cantando e ingaggiando finti combattimenti. Si trattava di spettacoli organizzati da impresari dello spettacolo nelle maggiori città europee oppure in occasione delle esposizioni universali che servivano a magnificare il progresso e dove la presenza dei “selvaggi” forniva palese dimostrazione della superiorità occidentale.
Se poi all’esotico era associato il mostruoso, questo non faceva che rinforzare la spettacolarità dell’attrazione. Come nel caso della «Venere ottentotta», una donna khoi (etnia dell’Africa del Sud chiamata hottentot dai Boeri olandesi) esibita a Londra per le sue peculiarità anatomiche (in particolare mostrava una accentuata steatopigia, cioè delle natiche molto pronunciate) e perché appartenente ad una etnia considerata allora al confine tra uomo e scimmia.
Lungi dall’essere l’antico ricordo di un passato lasciato alle spalle, il riprovevole rito dello zoo umano si ripete e si perpetua nel moderno turismo internazionale (più o meno alternativo che sia).
Infatti, nonostante una ricerca a cura dell’Halifax Travel Insurance apparsa su The
Indipendent nel 2008, suggerisca che per gli inglesi (ma non c’è da dubitare che lo
stesso valga anche per qualunque altro paese europeo), le vacanze esotiche sono poco più di un mito che rimane confinato tra le recinzioni dell’hotel147, in molti altri casi, in aree caratterizzate dalla forte attrattività esotica, come ad esempio le isole Andamane, le stesse autorità che dovrebbero proteggere le ultime popolazioni indigene del luogo,
147 I risultati della ricerca suggeriscono infatti che «L’idea di vacanza che va per la maggiore è una stanza con piscina e qualcosa da mangiare» e che oltre il 70% dei turisti non visita un’attrazione locale (Huges M., Exposed: the myth of our exotic holidays, in “The Indipendent”, 09 aprile 2008, http://www.independent.co.uk/travel/news-and-advice/exposed-the-myth-of-our-exotic-holidays- 806322.html).
aiutano i turisti ad avere un incontro ravvicinato con la “tribù primitiva”. Secondo quanto riferito da un operatore turistico ad un giornalista dell’Observer «Andare a vedere gli Jarawa costa fino a 450 euro, di cui 150/230 vanno alla polizia. E occorrono anche alcuni “regali, come frutta e biscotti”, necessari per attirare la tribù e convincerla a danzare»148.
Nel caso dei safari umani le popolazioni autoctone e ancor di più le tribù ancestrali, rappresentano semplicemente un’attrazione tra le altre, l’occasione per il ricco turista che si crogiola nella bolla ambientale del proprio hotel, per dare un tocco di straordinario all’esperienza della vacanza e ingannare così la noia.
É quindi proprio questo rapporto sbilanciato e intrusivo che gli studiosi giudicano alla stregua di un neo-colonialismo o anche neo-imperialismo quando si vuole sottolineare soprattutto lo sfruttamento economico e lo sbilanciamento del rapporto a favore delle compagnie turistiche straniere149.
Il riferimento è qui al fenomeno della globalizzazione, fenomeno che consta nella ridefinizione di quegli assetti economici, sociali e culturali che hanno visto l’uomo bianco e l’Occidente sempre, in un modo o nell’altro, al centro del mondo. Certo, oggigiorno coloro che visitano i popoli esotici non sono più necessariamente occidentali ma appartengono a quella classe, etnicamente trasversale, che sono i turisti internazionali, per i quali è la stessa condizione di mobilità senza problemi e senza pensieri a fare la differenza: loro semplicemente possono fare, possono vedere, ed è questo “potersi permettere” che fa la differenza e che segna la differenza.
Come sottolinea l’antropologo Mondher Kilani, «L’infatuazione del pubblico contemporaneo per la letteratura esotica obbedisce a considerazioni recondite, nascoste nell’immaginario occidentale, come quella di rassicurarsi sulla propria superiorità o di confermarsi nelle proprie qualità in rapporto all’altro, in un mondo che vede la trasformazione e la rimessa in discussione di tale superiorità» (2011, p. 27).
Come osserva Marc Augé: «se fossimo animati soltanto dal desiderio di incontrare gli altri potremmo farlo facilmente senza uscire dai nostri confini, dalle nostre periferie» (2004, p. 51). L’altro che si vuole incontrare è, quindi, più precisamente, l’altro “esotico”, cioè l’altro cartterizzato dai connotati dello starordinario esotico, un po’ mostruoso e un po’ paradisiaco, l’altro che ci parla sempre e comunue di noi.
Anche quando le forme di turismo sono di tipo “alternativo”, auto-organizzato,
backpacking o comunque fuori dai consueti percorsi organizzati, è più spesso il
desiderio di altrove a spingere al viaggio e non l’incontro con l’altro. Meglio, si tratta del desiderio di incontrare noi stessi altrove, in altri contesti, in nuove situazioni, lontani
148 A spiegare la situazione degli Jarawa è la famosa organizzazione internazionale Survival International che ha avviato una massiccia campagna per boicottare proprio questo tipo di viaggi (Survival, Popoli,
parchi e safari umani, in “Il Fatto Quotidiano”, del 11 maggio 2012,
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/05/11/popoli-parchi-safari-umani/226830/).
149 Probabilmente la principale criticità del turismo sul piano economico è il cosiddetto leakeage, cioè la “fuga dei redditi”. In pratica, dei redditi da turismo portati nei paesi in via di sviluppo, solo poca parte può essere investito direttamente in loco mentre la maggior parte serve per acquistare le risorse (beni e servizi) da altri paesi. Inoltre, il grosso delle transazioni legate al turismo sono nelle mani di multinazionali la cui sede principale rimane in Europa o negli Usa, dove finiscono anche la grossa parte dei profitti (Cfr. Berruti e Delvecchio 2009, p. 39).
dalla propria esperienza quotidiana e da una società percepita spesso come ostile, per catapultarsi spesso in paesi afflitti da dittature, carestie e altri problemi e da i quali partono magari i flussi di migranti - i vagabondi ricordati da Bauman - che su vecchie barche sgangherate, a piedi o con altri mezzi di fortuna, sono diretti invece nei paesi dell’Occidente da cui partono i turisti (Cfr. Aime 2005, p. 42).
Questa smania esistenziale, simile, per molti versi, al desiderio d’Oriente che spingeva molti giovani a partire per l’India o il Nepal negli anni ‘70 alla ricerca di un immaginario esotico idealizzato, di un nuovo modello di rapporti umani tra le persone, dell’abbandono di una società competitiva, individualista e capitalista, si traduce, molto spesso, in qualcosa di non troppo dissimile da quanto abbiamo fin qui descritto.
Quelli che abbiamo visto essere «Safari umani», versione aggiornata degli zoo umani organizzati in contesto autoctono, non sono solo un’attrazione organizzata, intrattenimento d’appendice dei resort cinque stelle, ma una sorta di conseguenza, spesso non voluta, dell’immaginario neo-esotico che guida anche i cosiddetti turisti alternativi mossi dai più onorevoli propositi.
In un articolo polemico apparso sul quotidiano italiano Il Giornale, si accusavano due volontari umanitari sequestrati in India da un gruppo di guerriglieri maoisti nel marzo 2012, di ridurre il Ministero degli Esteri Italiano ad una sorta di agenzia riservata a trarre dai pasticci «imprudenti quando non sconsiderati amanti dell’esotico selvaggio o campioni e campionesse dell’impegno umanitario in zone di guerra e guerriglia». A detta dei conoscenti di uno dei sequestrati, l’intento di questi era quello di «cercare di scoprire alcune realtà e poter dare un contributo alla salute, alla dignità e all’istruzione all’interno dei villaggi». Peccato che, agli occhi dei guerriglieri che ritengono di battersi per la libertà di quelle terre e di quei popoli, questo tipo di turista venga associato proprio ai safari umani. Il capo dei maoisti sequestratori, Shabhasachi Panda, espresse, in una dichiarazione, al quanto chiaramente tale concetto: «Abbiamo arrestato due turisti italiani che, come centinaia di stranieri, trattano le popolazioni locali come scimmie, come fenomeni da baraccone». Il giornalista autore dell’aspra critica – tra l’altro prontamente ribattuta dall’Associazione Italiana Turismo Responsabile – concluse l’articolo così: «Da noi il safari umano lo si chiama, con più elegante linguaggio, turismo consapevole...»150.
La vicenda sottintende la constatazione di come, «La curiosità per l’altro corrisponde assai spesso a sogni di evasione piuttosto che a un tentativo di conoscenza»(Kilani 2011, p. 26). Inoltre, questa nuova forma di “scoperta” dell’alterità, costituisce tutt’altro che una protezione contro le misconoscenze e i pregiudizi. Neppure quando – come afferma Francis Affergan - «L’inversione della svalutazione si trasforma in eccessiva rivalorizzazione dell’Altro», un procedimento, continua l’antropologo, ben noto in ogni «antirazzismo coi paraocchi che si giustifica in un razzismo alla rovescia» (1991, p. 55). Anche quando l’incontro con l’alterità, invero conseguenza pressoché ineliminabile di ogni viaggio, viene presa in seria considerazione, come nel caso del volontariato a sfondo umanitario o nel cosiddetto “turismo responsabile”, è inevitabile una dose di
150 Cfr. Granzotto P., È emergenza ostaggi: fermate i turisti fai da te, in “Il Giornale”, del 19 marzo 2012, http://www.ilgiornale.it/news/esteri/emergenza-ostaggifermate-i-turisti-fai-te.html
stereotipizzazione per così dire “buona”, di «discriminazione positiva»151, che finisce tuttavia per alimentare quella che è oramai definita l’«industria dell’umanitario» composta di Ong e associazioni che tendono sovente a proporre un immaginario dell’esotico che dal mostruoso e dal paradisiaco tende a sfumare verso il tragico e il drammatico152.
Inoltre, come sottolinea Marco Aime, seppur nell’ambito del turismo responsabile l’incontro viene costruito per cercare di offrire al viaggiatore una nuova visione, più approfondita e problematica, su di un piano di maggiore uguaglianza formale, non mancano di emergere «complesse dinamiche a cui non può essere estraneo il dislivello economico e la conseguente percezione del turista, da parte dei locali, come individuo benestante. Volenti o nolenti, animati di tutta la buona volontà del mondo, i turisti fanno parte di un processo di penetrazione dell’Occidente nella terra altrui e non possono evitare di innescare alcuni cambiamenti» (2005, p. 40).
In altri termini, i flussi globali, quelli dei turisti, come quelli economici e comunicativi, non possono fare a meno di incidere sul locale in termini appunto economici, ma anche ambientali e culturali, indipendentemente dalle buone intenzioni.
Nonostante ciò, la globalizzazione è una realtà ineliminabile e irreversibile la quale alimenta, proprio per questo, anche reazioni dirette ad attutire il più possibile quelli che vengono percepiti come possibili danni o, per usare ancora una volta la terminologia di Beck, “rischi”. Proprio in questo senso vanno letti allora gli sforzi per un turismo più consapevole, responsabile appunto e sostenibile, argomento questo che tratteremo in maniera più approfondita al termine di questo stesso capitolo.