• Non ci sono risultati.

Il turismo al di là dell ’ autenticità: il post-turista

TURISMO COME CONSUMO E COME ESPERIENZA

2. Il significato sociale del consumo turistico

2.3 Il turismo al di là dell ’ autenticità: il post-turista

Abbiamo visto come diversi autori abbiano criticato l’approccio di MacCannell riflettendo sull’impossibilità pressoché ontologica dell’autenticità o sul fatto che l’autenticità ricercata dal turista si fondi in gran parte sugli stereotipi e sull’immaginario che il turista si porta appresso (il caso, ad esempio, della “vera” Italia tutta pizza, sole e mandolino), oppure ancora, al fine di decostruire una teoria generale totalmente incentrata sull’autenticità, si è spostata l’attenzione sulla figura del «post-turista» dominato da una sorta di istinto ludico, per cui sarebbe in grado di riconoscere senza troppi problemi l’inautenticità palese di certe situazioni appositamente attrezzate per i turisti, compiacendosene quasi, contento, in ultima analisi, di “stare al gioco” e di divertirsi.

In questo paragrafo approfondiremo quindi la figura del post-turista al fine di evidenziare da un lato la necessità di una molteplicità di approcci all’esperienza turistica e, dall’altro lato per evidenziare come anche nel caso del post-turista i riferimenti simbolici non mancano di essere ancorati ad una dimensione collettiva, spesso eminentemente simbolica. In fine, ma questo sarà argomento dei paragrafi successivi, vorrei cercare di mostrare come tale dinamica simbolica non possa prescindere da un riferimento per così dire “strutturale” legato, nella tarda-modernità, imprescindibilmente ai fenomeni della globalizzazione già messi in evidenza nel precedente capitolo.

Tornando quindi alla figura ideal-tipica del post-turista, John Urry ci spiega come alcuni viaggiatori mostrino di apprezzare palesemente la “non-autenticità” dell’esperienza turistica. Secondo Urry essi «si divertono grazie al gran numero di passatempi creati apposta per loro. Sanno che non esiste un’autentica esperienza turistica, ma che ci sono solo una serie di giochi e di copioni che possono essere interpretati» (1995, p. 29). Il post-turista, in altre parole, sarebbe in qualche modo compiaciuto che si prepari per lui una messa in scena che abbia l’effetto di estraniarlo per un momento, di farlo

divertire, di farlo, al limite, sognare e stare bene, anche nella consapevolezza che tali emozioni non nascono da situazioni, strettamente parlando, autentiche. Il post-turista semplicemente vive in una dimensione di mansueta spensieratezza l’esperienza ludica offerta dall’industria dell’intrattenimento. L’accento è posto in questo caso sulle emozioni, sulle sensazioni suscitate dall’esperienza, dove ad essere apprezzata è anche la possibilità di vivere tali emozioni senza alcun rischio, nella consapevolezza di essere protetti da «bolle ambientali» (Boorstin 1964; Cohen 1988) opportunamente create dall’industria turistica, proprio come gli spazi di consumo offerti dai concept store o dai grandi parchi di divertimento, i quali offrono emozioni a buon mercato in ambienti assolutamente protetti119.

L’esperienza turistica, quindi, va dalla tendenza al viaggio esplorativo, avventuroso, per nulla o quasi organizzato, a quello strutturato e organizzato nei più minimi dettagli, dove appunto “bolle ambientali” accuratamente strutturate dai professionisti del turismo, avvolgono, proteggono e accompagnano l’intera esperienza del turista a cui, spesso, rimane di sensazionale o emozionante solo la meta, il particolare paesaggio, o anche, semplicemente, il fatto di essere cullato e coccolato per un certo periodo, motivazione che Savelli (2009) definisce «autoelevazione», sentirsi «re per un giorno». L’attenzione posta sulla dimensione ludico-edonista del post-turista, infatti, ha fatto parlare qualcuno anche di «iper-turista», mutuando il concetto da quello di «ipereale» coniato da Jean Baudrillard e, quindi, di “ipermerce” così come utilizzato da Ritzer o Codeluppi (2012), preconizzando un diretto legame tra la “disneyficazione” della società e lo spirito di un capitalismo sempre più “barocco” e spettacolare (Costa 1995). In questo senso, non sarebbe l’autenticità ad offrire una sorta di surrogato dell’esperienza religiosa, bensì, come sostiene Ritzer, altri fattori, come il bisogno popolare di essere in contatto con gli altri e la natura, come anche di prendere parte a cerimonie e rituali che offrono una sincronica e rassicurante comune visione della società e del mondo120. Tutti fattori offerti da quella che Ritzer definisce, per l’appunto, «religione del consumo» e che egli riferisce in particolare proprio a quelle «cattedrali dell’iperconsumo» che sono i centri commerciali o i parchi a tema.

In tal senso, l’esperienza turistica si avvicina maggiormente ad una sorta di contributo a quel «sogno ad occhi aperti» che secondo Campbell animerebbe il consumatore moderno, propenso quindi a cedere arrendevolmente all’evasione offerta dall’industria dello spettacolo, trasformato esso stesso in ipermerce la cui funzione diventa propriamente quella di fornire al “consumatore turista” quel reincantamento necessario a vivere il proprio sogno non più come meramente mentale bensì come esperienza sensibile e socialmente condivisa e, quindi, proprio per questo “reale”.

119 Come racconta Ritzer in merito a Disneyland, «I turisti che arrivano a Disney World si sentono rassicurati dal fatto che all’interno delle recinzioni regna una realtà rigidamente controllata» (2000, p. 12). Mentre un dirigente della società ha affermato: «Pensi a disney World come ad una città di medie dimensioni con tasso di criminalità zero» (ibidem, p. 13).

120 Ne Le forme elementari della vita religiosa, Durkheim afferma: «Una società non può né crearsi né ricrearsi senza creare qualcosa di ideale. Questa creazione non è per essa una specie di atto supplementare, con cui si completerebbe, una volta formatasi; è l’atto con cui si fa e si rifà periodicamente […]. Una società non è costituita semplicemente dall’insieme degli individui che la compongono, ma, in primo luogo, dall’idea che essa si forma di sé» (1912, p.486).

Sia la ricerca di autenticità messa in rilievo da MacCannell che la dimensione ludica del post-turista su cui si sofferma maggiormente Urry non sottintendono dunque una dimensione esclusivamente intima e solipsistica, ma si riallacciano, seppur in maniera diversa, alla dimensione sociale e collettiva. Mentre nell’ottica di MacCannell è in qualche modo un disagio connesso alla dimensione strutturale delle società moderne funzionalmente organizzate a spingere il turista in una sorta di pellegrinaggio alla ricerca di un senso perduto del sociale, nel post-turista di Urry l’atteggiamento ludico con l’esperienza di consumo indica una avvenuta integrazione nella società consumista tardo-moderna (o postmoderna). Proprio i connotati di tale integrazione, già di per sé un rimando alla dimensione collettiva (consumo come bene cittadinanza), lasciano trasparire un rapporto complesso, altamente simbolico, con il consumo stesso il quale diviene, più precisamente, medium esperienziale per eccelenza: attraverso il «linguaggio del consumo» gli individui strutturano in gran parte le loro relazioni sociali, le loro appartenenze culturali e la loro identità singolare (Di Nallo 2007; Paltrinieri 1998; Parmiggiani 2001).

Dietro lo sguardo del turista che si posa incessantemente e senza sosta sulle cose del mondo, si nasconde quindi una dialettica complessa tra dimensione individuale e collettiva, tra presa di distanza dalla dimensione sociale e piena integrazione nel gioco incessante del sociale e dei suoi ruoli, tra mimesi e differenziazione.

Come abbiamo già avuto modo di spiegare, infatti, le continue rinascite proprie di un’identità apparentemente fluttuante e continuamente cangiante, nasconde piuttosto una intimizzazione dell’identità che, così protetta e in gran parte sradicata dalle rigide strutture imposte dalla società, può giocare all’infinito tra i ruoli e le situazioni sociali in una sorta di sperimentazione senza posa attraverso le innumerevoli esperienze offerte dal consumo.

L’individualità nomade postmoderna, infatti, non ha radicamento, non lo cerca e non lo vuole. Il suo unico radicamento è il perenne mutamento, il perenne cambiarsi d’abito senza lasciare mai intravvedere lo spazio tra un cambio e l’altro, lo spazio in cui sarebbe, per così dire, “nudo”. Il radicamento per l’individuo postmoderno significherebbe infatti “nudità”.

Per lui esistono solo una serie di camerini e di prosceni ai quali affacciarsi recitando la propria parte all’interno di “copioni” in gran parte già scritti ma comunque sempre aperti e ai quali, eventualmente, potrà fornire il proprio contributo originale.

Tali copioni rappresentano appunto la dimensione simbolica degli ambiti di consumo vissuti ed elaborati dal soggetto soprattutto come ambiti esperienziali che lui stesso contribuisce a definire.

La misura di questo contributo è determinata e allo stesso tempo determina anche l’impegno, passato e futuro, che il soggetto dedicherà a tale ambito e, quindi, la rilevanza più o meno marcata in cui sarà tenuta tale esperienza.

Nonostante Urry testimoni in prima persona l’esistenza di questa dimensione collettiva dominata da una sorta di gioco simbolico con la dimensione sociale, egli non rinnega la necessità per l’individuo di quegli spazi intimi, potremmo dire di “nudità” tanto per continuare con la metafora precedente, che più agevolmente possono essere messi in relazione con la dimensione sperimentale ed esistenziale citata da Choen, la quale,

proprio perché vissuta in contrapposizione al “gioco” del sociale, può essere vissuta come dimensione di “cura” del proprio sé più autentico. Una situazione in realtà paradossale perché rifuggendo le innumerevoli identità offerte dalla società contemporanea l’individuo finisce per non afferarne alcuna: nell’isolamento infatti l’identità si fa ineffabile, come il rumore di un albero che cade dove non c’è nessuno ad udirlo.

2.4 Sguardo collettivo e sguardo romantico: la ricerca dello straordinario

Outline

Documenti correlati