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L ’ ultima rivoluzione della modernità

IL MONDO AL BIVIO

1. L ’ ultima rivoluzione della modernità

La modernità si apre, come abbiamo visto, con una serie di Rivoluzioni geografiche, scientifiche, tecnologiche, economiche e politiche in vario modo legate inscindibilmente tra loro, ognuna delle quali ha dato un contributo peculiare nel ridefinire l’immagine del mondo e dell’uomo stesso in esso. L’ultima grande rivoluzione della contemporaneità va sotto il nome di «globalizzazione», un processo multisfaccettato che ha la sua origine nell’alveo stesso della modernità e che, sotto vari aspetti, ne rappresenta una sua «radicalizzazione». Tuttavia, per la portata senza precedenti delle sue conseguenze, la globalizzazione si staglia anche come un fenomeno sociale ben determinato e quindi precisamente identificabile e a sé stante, una vera e propria rivoluzione come si è detto. Come ogni rivoluzione che si rispetti, quindi, essa è rinvenibile come tale fin quasi dai suoi primi vagiti, ma non è possibile sapere in anticipo quali saranno i suoi sviluppi, spesso imprevedibili. Per la portata senza precedenti di tale rivoluzione e per la sua intrinseca imprevedibilità, si può scuramente affermare che oggi, forse quanto mai prima d’ora, il mondo intero si trova ad un bivio della storia.

1.1 Vivere in un mondo instabile

«Siamo onesti: la maggior parte di noi non è mai stata così bene». Con questa affermazione dello statista Inglese Harold MacMillan, risalente alla fine degli anni ‘50, Dahrendorf (2005, p. 3) inaugurava le sue «sei lezioni su un mondo instabile».

A rendere instabile un mondo che, tutto sommato, si può ancora dire migliore delle epoche che lo hanno preceduto44, è il fenomeno recente della «globalizzazione», solo l’ultima, in ordine di tempo, rivoluzione della modernità.

Il termine globalizzazione è divenuto oramai una sorta di buzz word, come ha sottolineato recentemente Roberta Paltrinieri (2004), la quale viene usata per indicare diversi ambiti ed innumerevoli risvolti. Questo perché la globalizzazione nasconde

44 L’enorme miglioramento della posizione sociale della donna, le aumentate opportunità di partecipazione sociale in genere, la riduzione dell’orario di lavoro, l’istituzione dello stato sociale, ecc. hanno in generale aumentato le chance di vita della maggior parte degli individui e questo stato di cose, continua Dahrendorf, non è sostanzialmente mutato in questi ultimi anni. Riprendendo statistiche recenti Dahrendorf mostra come la situazione sia sostanzialmente confermata: in molti paesi avanzati il prodotto interno lordo si è più che quadruplicato tra il 1950 e il 2000. Anche indicatori del benessere più complessi come lo Human development Index, che misura oltre al reddito anche il livello culturale e l’aspettativa di vita, è salito nello stesso periodo oltre il 50% in quasi tutti i paesi membri dell’OCSE (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico)

diverse essenze, una immediatamente economica, quindi anche sociale, culturale e simbolica. La cosa che tuttavia accomuna ognuna di queste dimensioni è che la globalizzazione appare «uscita da ogni controllo» (Dahrendorf 2005, p. 5).

L’idea di un mondo oramai «fuori controllo» affonda in una lunga tradizione critica di pensiero che risale ai padri della sociologia, Simmel e Weber in particolare, e che procede via via fino alle teorizzazioni della Scuola di Francoforte e ai più recenti critici della modernità globalizzata come Ulrich Beck (Cfr. Ghisleni e Privitera 2009, pp. 51 e 52). Si tratta, in pratica, della crescente consapevolezza della progressiva autonomizzazione degli ambiti della vita sociale e della presa di coscienza di un mondo non più facilmente plasmabile come pensavano gli utopisti ottocenteschi.

All’interno di questa tradizione, potremmo dire che Dahrendorf si inserisce con l’ottimismo della volontà: constatato che il progetto della modernità, tutto sommato, si è realizzato, portando benessere e libertà per un numero crescente di persone, il suo obiettivo e la sua preoccupazione nell’era della globalizzazione è, quindi, sostanzialmente quello di mantenere fissa la stella della «libertà» individuale all’interno di una società divenuta globale e che, per questo, rischia di smarrire quell’obiettivo con cui la modernità stessa era sorta.

Le lezioni di Dahrendorf sono quindi in linea e in continuità con il progetto della modernità e tendono, per così dire, a portarlo a compimento all’interno di una nuova fase apertasi con la caduta della contrapposizione politica caratterizzata dalla cosiddetta “Guerra fredda” e con il conseguente scatenarsi delle forze neo-liberali su scala mondiale.

Se si può infatti datare l’inizio del processo di globalizzazione, esso si può far coincidere con la caduta del muro di Berlino del 1989, cioè con l’evento storico che ha segnato in senso simbolico la caduta della divisione del mondo in due blocchi ideologicamente contrapposti, il “blocco sovietico” e quello “atlantico”.

Con la caduta della contrapposizione tra modelli alternativi di sviluppo, l’unico rimasto in piedi ha potuto allargare liberamente le proprie maglie al mondo intero. Il cosiddetto neoliberismo, rilanciato su scala mondiale soprattutto a partire dalle politiche inaugurate dai governi di Margaret Thatcher in Inghilterra e di Ronald Reagan negli Stati Uniti, ha scatenato una rinnovata “corsa all’Est” del capitale.

Si tratta – e in questo ha ragione Dahrendorf – tutto sommato di nulla di nuovo. La globalizzazione economica, infatti, può essere letta come il compimento di quella spinta onnicomprensiva della modernità legata allo sviluppo delle forze del capitalismo, il quale già con l’imperialismo di fine ottocento aveva dato prova della sua tensione globale.

Lo stesso Marx, nel Manifesto del partito comunista tesseva le lodi della borghesia capitalista quale classe determinante nello sviluppo materiale della società e metteva in rilievo il carattere cosmopolita della sua azione. Un testo, quello di Marx ed Engels, risalente al 1848 ma ancora illuminante e che vale la pena, quindi, riportare per intero in quanto ciò che lì era descritto in fieri, oggi si dispiega completamente sotto i nostri occhi. Scrivono Marx ed Engels:

borghesia ha dimostrato come le brutali manifestazioni di forza dell’epoca medievale, tanto ammirate dalla reazione, trovano il loro naturale completamento nella pigrizia più crassa. È la borghesia che per prima ha dato prova di ciò che l’attività umana può compiere: creando ben altre meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani o le cattedrali gotiche; e conducendo ben altre spedizioni che le antiche migrazioni dei popoli e le crociate.

Spinta dal bisogno di trovare sempre nuovi sbocchi, la borghesia invade il mondo intero. Essa deve penetrare dovunque, stabilirsi dovunque e impiantare ovunque dei mezzi di comunicazione.

Grazie allo sfruttamento del mercato mondiale, la borghesia dà un carattere cosmopolita alla produzione ed ai consumi di tutti i paesi. Facendo disperdere i reazionari, ha tolto all’industria la sua base nazionale. Le antiche industrie sono distrutte o stanno per esserlo. Vengono soppiantate da industrie nuove la cui introduzione diventa questione di vita di morte per tutte le nazioni sviluppate, industrie che non utilizzano più materie prime locali, ma quelle importate dalle zone più lontane, ed i cui prodotti vengono consumati in ogni angolo del pianeta, non solamente nel paese […].

Al posto dell’antico isolamento e dell’autosufficienza delle singole nazioni, si sviluppa un commercio universale, una interdipendenza di tutte le nazioni. […].

Grazie al rapido sviluppo dei mezzi di produzione e di comunicazione, la borghesia trascina nella corrente della civilizzazione perfino le nazioni più barbare. Il basso prezzo delle sue merci è l’artiglieria pesante che abbatte qualsiasi Grande Muraglia e fa capitolare i barbari più ostinatamente ostili agli stranieri. Pena la loro morte, essa costringe tutte le nazioni ad adottare il modo di produzione borghese. In altre parole, la borghesia modella il mondo a sua immagine e somiglianza» (Marx e Engels 1848, pp. 102 e ss.).

Il carattere cosmopolita del capitalismo borghese è già tutto descritto in queste poche righe, assieme alla sua capacità di ridefinire gli assetti mondiali e di instaurare il proprio imperio globale: la classe capitalista ha bisogno di estendere ovunque il proprio dominio per aprire nuovi mercati alle proprie merci; per far fluire senza ostacoli i flussi finanziari deve impiantare ovunque sistemi efficienti di comunicazione, reperire le materie prime nella maniera più economica ed usare la forza lavoro là dove gli è più conveniente, slegandosi, dove necessario, dai legacci e dalle imposizioni degli Stato Nazionali. Anzi, è il capitale mondializzato che finisce per imporre il proprio volere e le proprie esigenze agli Stati.

Secondo il sociologo tedesco Ulrich Beck, infatti, la globalizzazione «allude precisamente […] ad una collocazione del politico al di fuori del quadro categoriale dello Stato-nazione» (1997, p. 13) ed è questo anche il maggiore elemento destabilizzante della globalizzazione, in quanto «il dispiegarsi della globalizzazione consente alle imprese e alle loro associazioni di liberare e riconquistare il potere d’azione, finora addomesticato con gli strumenti della politica e dello Stato sociale, di un capitalismo organizzato democraticamente» (ibidem, p. 14).

Le imprese, soprattutto quelle che agiscono globalmente, le cosiddette “multinazionali”, detengono secondo Beck, un ruolo chiave non solo nell’organizzazione dell’economia,

ma anche in quella della società nel suo complesso; sia pure “solo” in ragione del fatto che possono sottrarre alla società le risorse materiali (capitale, tasse, posti di lavoro). Il nuovo potere degli attori economici transnazionali consiste quindi in primo luogo nell’esportare posti di lavoro là dove i costi e le condizioni per l’impiego delle forze- lavoro sono più convenienti; le aziende che operano su scala globale possono produrre distribuendo il lavoro in posti diversi del mondo; in terzo luogo possono scegliere gli Stati nazionali che sono più confacenti alle loro esigenze in termine di tassazione e costo del lavoro, punendo gli stati ritenuti cari o ostili (ibidem, pp. 15 e 16). Accanto a questo «potere di ricatto» (Entzugsmacht) dovuto alla discrasia tra territorialità degli stati nazionali e capacità di azione transnazionale della moderna economia globale, si aggiunge chiaramente anche una sorta di liquidazione stessa della sovranità nazionale, in quanto anch’essa legata alla territorialità propria dello Stato-Nazione. Bauman sintetizza al meglio questo aspetto nella metafora della «fine della geografia»45.

Questo significa che «la politica della globalizzazione, mira a sbarazzarsi non solo dei vincoli sindacali ma anche di quelli dello Stato-Nazione: essa sollecita un depotenziamento della politica nazional-statale. [...] tendendo alla realizzazione dell’utopia anarchico-mercantile dello stato minimale» (Beck 1997, p. 15). E ciò che è più rilevante, è che tutto ciò avviene «senza una richiesta o una discussione in Parlamento, senza una decisione governativa, senza mutamenti legislativi; anzi, non è neanche necessario un dibattito pubblico» (ibidem, p. 16).

Ulrich Beck definisce questo nuovo potere delle imprese economiche transnazionali «sub-politica», intendendo con ciò una «opportunità ulteriore di azione e potere al di là del sistema politico» (ivi). In tal senso «l’equilibrio di potere, il contratto sociale della prima modernità delle società industriali viene rotto e – davanti al governo e al Parlamento, all’opinione pubblica e alla giustizia – riscritto secondo le direttive proprie dell’agire economico» (ivi).

Dal punto di vista economico, quindi, il termine globalizzazione indica soprattutto l’estensione della razionalità strumentale del mercato al di là delle frontiere dello Stato- Nazione all’interno del quale le società avevano finora trovato il loro orizzonte di equilibrazione. Ciò significa anche l’inattualità delle soluzioni politico-sistemiche fin qui sviluppate per la regolamentazione e la sublimazione delle conflittualità sociali. Quindi le trasformazioni economiche portato della globalizzazione diventano immediatamente ed inevitabilmente anche trasformazioni del sociale, del suo tessuto organizzativo, relazionale, identitario, in una parola “umano”.

Nelle ricche democrazie occidentali, dove il potere d’acquisto è elevato per un numero impressionante di persone, sussiste ancora un sistema economico e redistributivo incentrato sul lavoro, il quale rimane ancora la fonte principale di quello stesso potere d’acquisto. Ma quello che viene ora a mancare nelle società ad economia avanzata diventa, paradossalmente, proprio il lavoro. Il capitale globale, infatti, come afferma

45 La metafora della «fine della geografia» è ripresa in Bauman (2001, p. 15) da Paul Virilio, il quale la contrappone idealmente alla più famosa «fine della storia» proposta da Francis Fukuyama. Essa è sancita nei fatti e descritta esplicitamente nelle parole del “razionalizzatore” d’impresa Albert J. Dunlap, il quale afferma che «L’impresa non appartiene che alle persone che investono in essa, non ai dipendenti, ai fornitori, e neanche al luogo in cui è situata» (ibidem, p. 9).

Dahrendorf, «si è reso per così dire autonomo» e ciò vuol dire che «per il futuro del capitalismo gran parte del lavoro – e dei lavoratori – è diventata superflua» (2005, p. 59). Per via del processo di globalizzazione e della ridefinizione di tutti i confini di ordine politico, sociale, culturale e, non ultimo, psicologico che essa comporta, questo ciclo automatico di produzione e consumo equilibrato istituzionalmente, non è più possibile o, per lo meno, non è più così automatico.

Come scrive Dahrendorf, «la globalizzazione è diventata il grande alibi, di solito per aumentare i guadagni diminuendo i servizi. Giacché ha sempre significato anche incoraggiamento di un capitalismo sempre più orientato al guadagno, che ha scrollato i vincoli della solidarietà corporativa, della responsabilità a lungo termine e dell’impegno sociale» (2005, p. 24).

La globalizzazione può essere un’opportunità, soprattutto per chi ha la possibilità finanziaria e culturale di cavalcarla, i «ricchi globalizzati» di cui parla Bauman (1998), ma per la stragrande maggioranza degli individui, costretti in una dimensione locale, essa rappresenta soprattutto l’ombra dell’«anomia», della perdita di ogni pur minimo riferimento normativo che, in presenza di uno Stato nazionale delegittimato e di un

welfare depotenziato, rischia di trascinare l’individuo in un baratro sociale e psicologico

dal quale può emergere solo la disperazione e con essa l’intolleranza e l’ideologia. Come scrive ancora Dahrendorf, infatti, «Poche cose sono peggiori del qualunquismo del mondo instabile, giacché la via dall’anomia alla tirannide è breve» (2005, p. 44). La «società globale», quindi, è una società che si presenta come intrinsecamente instabile, una società caratterizzata dallo sviluppo e dalla concentrazione su scala mondiale del capitale finanziario e dal declino della sovranità dello Stato- Nazione, faro dello sviluppo del XIX e XX secolo, con una conseguente perdita del controllo politico sulle dinamiche sociali e un rinnovato rischio di perdita di libertà e ritorno della tirannide.

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