• Non ci sono risultati.

Un primo tentativo di sintesi Tra cultura del consumo e politicizzazione dell ’ ambito privato: il consumerismo politico

IL MONDO AL BIVIO

6. Un primo tentativo di sintesi Tra cultura del consumo e politicizzazione dell ’ ambito privato: il consumerismo politico

A questo punto, vale la pena tentare una sintesi dei ragionamenti fin qui svolti mettendo l’accento sull’attività di consumo in riferimento alla cosiddetta “modernità riflessiva”, entro la quale il processo di individualizzazione, cifra della modernità, trova il suo telos sistemico in rapporto al mondo e quindi una dimensione tendenzialmente politica. Il rapporto al mondo comune e all’altro generalizzato è, infatti, la cifra dell’ambito pubblico e, in particolare, dell’ambito politico inteso come capacità positiva di influire sul mondo e sulle scelte collettive che lo riguardano.

Se con la modernità si è innescata quindi una processualità che ha portato l’ambito privato classicamente inteso a rivestire una predominanza pubblica (Arendt 1958; Habermas 1962), sconvolgendo il mondo materiale e le istituzioni preesistenti in direzione di una privatizzazione delle esistenze (Sennet 1982), con la post-modernità o “seconda modernità”, proprio questa condizione diviene il presupposto per una rinnovata azione degli attori nel mondo. Un mondo divenuto globale e universalistico, i cui rischi presuppongono, quindi, un’azione dal respiro cosmopolita (Beck 1997). Nell’arco della prima modernità, infatti, la “naturale” inclinazione dell’uomo al ‘movimento’ – unica modalità di dare senso alla vita e di alleviare il disagio che vien dall’essere “nati per la morte” - ha infatti progressivamente reindirizzato il suo sguardo “sul” mondo piuttosto che “nel” mondo, un ripiegamento che ha trovato sfogo nella

77 Un esempio si ha in Rousseau e nella sua concezione di un “naturale” pietismo dell’uomo primitivo contro le «catene» dell’individuo moderno.

78 Tale atteggiamento è rinvenibile, ad esemio, in alcune filosofie naturistiche come quella definita da Arne Naess «ecosofia» la quale sostiene che la realizzazione di sé passa attraverso «un processo di autocomprensione fondato su un dialogo con la natura che permette all’uomo di scoprire la natura e dare un senso alla propria vita». Essa implica altresì l’abbandono del principio di non-contraddizione e la riscoperta di una capacità «mitopoietica» attraverso la quale l’individuo può «trascendere il proprio io e sperimentare l’unione dei contrari» (Cfr. Benoist 2005, p. 240). In questo senso, la contemplazione della natura favorisce il pensiero pre-logico. Inoltre, in tale trascendenza, mentre l’individuo ritrova il “mondo naturale”, tende sempre più a perdere - nell’abbandono al gioco solipsistico col proprio sé interiore - il “mondo comune”, il ché è esattamente la cifra del (post)moderno.

quasi naturale prolificità dei frutti del lavoro (Arendt 1958) il quale iniziò, quindi, ad assumere un’importanza mai rivestita prima e a diventare, addirittura, un “valore”, benché privo delle caratteristiche proprie delle virtù civiche classiche.

Nonostante questo – o forse proprio in virtù di questo - secondo l’oramai classico impianto critico fattone da Habermas (1962), l’era borghese aveva creato una sfera pubblica istituzionalizzatasi poi nello Stato, all’interno della quale i borghesi potevano incontrarsi come “homme”, cioè come eguali cittadini, proprio perché questa era separata dalla sfera della riproduzione della vita privata-collettiva che si perpetuava nel mercato, nella produzione e nello scambio di merci.

L’interesse di classe, avverte Habermas, era alla base dell’opinione pubblica borghese, ma ciò solamente perché l’essere proprietario nella società e “uomo” nella sfera intima, era garanzia e presupposto del funzionamento stesso della sfera pubblica, del suo essere ambito di libertà e di pubblica discussione orientata razionalmente al perseguimento di fini collettivi. In questo stava la sua funzione politica e lo sguardo del borghese cittadino in essa era rivolto alla collettività.

Tuttavia, avverte Habermas, così facendo, la borghesia ha trasferito l’ambito del dominio dal potere pubblico alla società, innescando nuove e inedite occasioni di conflittualità.

L’avvento della società a livello di pubblica rilevanza quindi, non segna il declino della partecipazione pubblica, bensì una sua ridefinizione nel senso di una rinnovata richiesta politica direttamente indirizzata dalla mano della nuova classe egemone, capace, grazie al dominio economico, di ridefinire i presupposti stessi del proprio potere.

Questa sorta di ripiegamento nella sfera intima non ostacolò tuttavia la possibilità degli individui di affacciarsi alla luce della sfera pubblica, tutt’altro, permise loro di confrontarsi in pubblico al di là dei segni distintivi di status, semplicemente come

hommes o private gentlemen, entro un perimetro di confronto di assoluta parità formale

(Habermas 1962, p. 43).

Con l’istituzionalizzazione di una “sfera pubblica con funzioni politiche”, veniva a realizzarsi l’impianto del moderno stato liberale borghese, atto a regolamentare le contese tra privati, a proteggere la concorrenza e la proprietà: la progressiva emancipazione dal potere pubblico dello Stato all’insegna del free trade79. Un impianto che è perdurato fin tanto che l’evoluzione stessa del sistema di produzione capitalista non ha innescato nuovi conflitti portati – data la natura universalistica dell’impianto liberale80 – davanti al giudizio della stessa sfera pubblica istituzionalizzata per rinnovate richieste e rinnovati diritti.

79 In questa tendenza liberale allo “Stato minimale”, Habermas rinviene chiaramente anche una tendenza all’eliminazione stessa dello Stato come strumento di dominio. La sovranità, da questo punto di vista, passa, in linea di principio, all’opinione pubblica e il potere trova, come luogo privilegiato, la sfera pubblica, la quale non subordina ad un’idea di dominio in quanto il suo portato ideale è veritas non

auctoritas facit legem (Habermas 1962).

80 Il portato universalistico proprio della borghesia e che si ripercuote a livello della sfera pubblica è argomentato da Habermas con la progressiva sostituzione dello status libertatis, dello status civitatis o dello status familiae, con un più generale status naturalis all’interno del diritto privato. Questo cambiamento, nato per sottrarre l’ambito del libero mercato a privilegi di sorta, si ripercuote chiaramente nel diritto pubblico.

L’azione politica che ha caratterizzato la fine dell’800 e gran parte del ‘900, quindi, si è fondamentalmente risolta nell’ambito della “giustizia sociale”, trovando nell’autorità delle istituzioni statali il luogo privilegiato della sua azione (Alber 1986).

Il sodalizio sistemico tra il capitale e l’ambito sociale collettivo, ha permesso da prima l’instaurazione delle sicurezze pubbliche offerte dal welfare state e, successivamente, per far fronte alla sovrapproduzione e alla saturazione dei mercati, ha permesso la liberazione di tempo e denaro da dedicare non già ad una sorta di “ricreazione democratica” che mettesse al centro la socialità, bensì al consumo (Cross 1998).

La scomparsa di una sfera pubblica generalizzata dovuta alla rottura dell’equilibrio tra ambito intimo, ambito privato e ambito pubblico propria dell’epoca borghese, fu dovuta, secondo Habermas, da prima all’irruzione della “questione sociale” nella sfera pubblica dello Stato, con conseguente colonizzazione dell’istituzione da parte gruppi emanazione diretta di istanze private, successivamente con la colonizzazione dei media - canale privilegiato per la discussione pubblica - da parte delle forze economiche, le quali portarono ad una progressiva commercializzazione della sfera pubblica e all’istituzione di una sfera – come la definisce lo stesso Habermas - “pseudo-pubblica”, il cui referente principale diventa, anche qui, il consumo.

L’attività consumistica, quindi, ha caratterizzato, almeno dal secondo dopoguerra in avanti, tutta la società occidentale finendo per portare la sociologia, soprattutto quella di stampo post-marxista, ad una critica sostanziale della società dei consumi come società omologante, conformista, atomizzata, fondamentalmente impolitica e vittima di un dominio più subdolo ma non meno schiacciante di quello palese nella società della produzione (Marcuse 1964). Una scelta che in molti – compreso lo stesso Habermas - vollero imputare alle spinte della pubblicità commerciale e dell’industria culturale o del divertimento, ma che, in realtà, è nutrita soprattutto della domanda e non già dell’offerta.

Una nutrita bibliografia sociologica, infatti, ha fin qui definito ampiamente i modelli ideali entro cui analizzare i mutamenti nella definizione stessa di identità mediata dall’attività di consumo (Cfr. Parmiggiani 2001).

Questi contributi delineano una tipologia di soggetto ampiamente schiacciato sulla propria intimità, sradicato o comunque “nomade” (Maffesoli 2000), un individuo ampiamente ripiegato su se stesso, sui processi fantasmagorici della sua stessa mente, un homo psycologicus (Lipovetsky 1995; Lasch 2001) incapace di tessere relazioni in riferimento al mondo comune con gli individui che lo circondano, disperso tra i suoi simili come “folla solitaria” (Riesman 1950).

Appare chiaro che un tale soggetto si avvicina in poco o nulla all’home della sfera pubblica borghese habermasiana e ne finisce per inficiare alla base, a partire dagli stessi moventi individuali, la capacità euristica di rappresentazione dell’ambito politico. Hannah Arendt, infatti, mina alle radici la possibilità di una libertà umana all’interno di una società improntata al lavoro e al consumo, cioè ripiegata in quell’ambito privato che gli antichi greci intendevano né più né meno nel senso letterale di “privazione”.

Quello che la filosofa politica sottolinea è, quindi, l’inevitabile tendenza totalitaria e “conformizzante” di una società di individui che relega l’ambito pubblico - l’ambito della libertà di agire e mostrarsi in pubblico per dare inizio a qualcosa di inedito - a

superfluità nel flusso incessante della riproduzione della vita materiale (Arendt 1958). Il trionfo dell’animal laborans corrisponde esattamente, per Arendt, al ripiegamento edonistico dell’individuo moderno, carattere peculiare di una società di massa che la filosofa identifica propriamente con una collettività di privati cittadini81 dediti principalmente al lavoro e al consumo, attività che, seppur compiute alla presenza degli altri, continuano ad essere né più né meno che “attività private esibite in pubblico”82. Un mondo costruito su tale modello è emanazione di una “economia dello spreco” alimentata da una “società di consumatori” che ha finito per occupare e disintegrare la sfera pubblica per perseguire un’attività materiale sul mondo tendenzialmente dissipatrice delle risorse naturali, una sorta di processo meta-naturale sviluppato dall’uomo stesso e che rischia di rivoltarsi contro di lui.

L’incapacità di “vedere ed ascoltare” gli altri (quindi esattamente la perdita di una sfera pubblica) ed, eventualmente, di com-patire delle sofferenze altrui, pone fortemente in Bauman il problema dell’etica in un mondo di consumatori (2008).

Bauman pone la questione nei termini di un imperativo categorico individuale, quasi a suggerire che la “somma di diaspore” che costituisce il mondo dei consumatori debba trovare in ognuna il modo di ri-diventare individuo etico e morale.

Rispetto alle recenti tendenza legate ad un consumo più consapevole come forma di azione concreta sul mondo, però, Bauman non nutre alcuna fiducia. Per lui l’attivismo dei consumatori, “prospera in situazioni di disimpegno e apatia sociale” e si consolida semplicemente come gruppo di pressione organizzato fondato su presupposti “antidemocratici” (Bauman 2007).

Questo “populismo di mercato”, come lo chiama Bauman, prospera là dove la sfera pubblica, le istituzioni politiche e i partiti si presentano in forte crisi e non c’è dubbio, secondo l’autore, che questa crisi infici definitivamente la fiducia nelle istituzioni democratiche e finisca per abbandonare definitivamente l’idea di collettività per affidarsi al mercato che, d’altronde, appare come il regno della libera scelta (ibidem). Il problema della partecipazione politica in un’era di strapotere del mercato, riflette ancora in Bauman tutto il portato critico della tradizione sociologica che, con Habermas, si ricollega all’indietro ai francofortesi. Il consumo diviene la quint’essenza delle tendenze totalitarie proprie della modernità o, comunque, il luogo della perdita di senso e di moralità.

81 Per Arendt mettere assieme il sostantivi cittadino con l’aggettivo privato sarebbe considerato probabilmente un ossimoro, non già nel senso di qualcosa che non può stare assieme, bensì come l’espressione della cifra dei mutamenti propri dell’ambito pubblico e privato nella modernità.

82 Il carattere privatistico dell’attività lavorativa viene sottolineato in particolare da Hannah Arendt (2003), la quale sottolinea come esso non venga certo meno per il semplice fatto di essere compiuto in pubblico. Fin tanto l’attività svolta rimane quella del lavorativa, infatti, essa non può dar forma, in senso strettamente analitico, ad un palesamento dell’identità del soggetto. Allo stesso modo, Lipovetsky (1995) sottolinea il carattere privato del consumo (che Arendt considera come attività comlementare al lavoro, l’altra faccai del più generale processo vitale). In effetti, oggi giorno gran parte delle attività commerciali vengono svolte in pubblico, necessitano di una vita pubblica e relazionale intensa, più o meno quella che Habermas identitfica nelle public relations, cioè nelle pratiche atta a “vendere” interessi privati come collettivi (degradando così la sfera pubblica). Allo stesso modo io ho inteso sottolineare la natura privata del consumo anche là dove esso gode di una intensa attività relazionale e di una ampia dimensione pubblica la quale viene connotata da una mera «cultura di consumo», socializzazione dell’industria culturale.

Tuttavia, tendenze recenti nell’analisi del consumo, tendono ad enfatizzare tutto il suo carattere tutt’altro che di isolamento e perdita di senso, per esaltarne il sistema di significati culturali che esso veicola tra gli individui in quanto “rituale” (Cfr. Di Nallo 2007; Paltrinieri 2004). Nonché il suo ruolo trasversale agli ambiti funzionali delle società complesse in quanto “area esperienziale” (Di Nallo 2004).

In definitiva, si potrebbe dire che, guardando al consumo dal punto di vista della “sfera pubblica”, esso appare certamente come un flusso indistinto guidato dal diktat del mercato e dalla sua sfera immaginifica, pseudo-pubblica, rappresentata dalla pubblicità commerciale (sirena ammaliante che canta di desideri eternamente cangianti ma mai raggiungibili). Pur tuttavia, se si inizia a guardare all’interno del mondo del consumo e dei significati simbolici che media, ci si accorge che esso rappresenta un mondo ben più complesso, articolato e, spesso, neppure così “fuori dal mondo” come lo si vorrebbe dipingere (Paltrinieri 2004; 2012).

D’altronde, anche l’era borghese, con la sua dimensione più propriamente pubblica, si è potuta sviluppare a partire dall’ambito privato del sociale e da quello intimo delle relazioni familiari, fino a ridefinire le istituzioni politiche in senso del tutto nuovo rispetto a quelle d’Ancien regime. Tutto ciò si poté realizzare allora, come accade forse adesso, certamente non senza resistenze e forti pregiudizi (in quel caso aristocratici), nei confronti dell’ambiente della produzione83.

Così, lo spostamento verso la dimensione esperienziale del consumo costituisce un passaggio fondamentale proprio perché permette di cogliere nell’agire dei consumatori un potere sconosciuto a teorizzazioni apocalittiche precedenti e, al contempo, permette di vedere nel consumo la nuova arena su cui si gioca lo stimolo per la nascita di nuove narrazioni, pratiche considerate degne di essere perseguite e in grado di orientare le scelte e i comportamenti degli individui (Paltrinieri 2004).

Il “comportamento” di consumo, quindi, si fa più propriamente “azione” e, piuttosto che rivolgere lo sguardo solo alla propria singolare “soddisfazione”, il consumatore inizia a volgere lo sguardo al mondo comune: rimanendo comunque entro i limiti di un’attività prettamente privata, il consumatore ritrova una dimensione “etica”.

Ma cosa spingerebbe il consumatore ad essere o rifarsi soggetto etico? Come abbiamo visto, secondo Ulrich Beck (2000; 2001) è la stessa dimensione della contemporaneità che, radicalizzando i tratti della modernità, spinge verso nuove istanze etiche i soggetti che, ampiamente sviluppato in loro il processo di individualizzazione, sfuggono al ristabilire identità statiche e appartenenze singolari come quelle che hanno contraddistinto la prima modernità, ma sentono, tuttavia, la pressante incombenza del “rischio” che, come categoria onnicomprensiva, attanaglia le società globali (Beck 2008).

La mondializzazione dei mercati, d’altronde, ha liberato tutte le insidiose forze economiche che prima erano tenute sotto controllo da una contrattazione collettiva in seno allo Stato, così che una famelica «economia canaglia» (Napoleoni 2008) ha eroso

83 Fino almeno al 1680, infatti l’appellativo di “meccanico” designava ancora in maniera spregiativa coloro che erano costretti ad usare le loro mani per vivere, sinonimo quindi di “villano, poco degno di una persona onesta” (Rossi 2004).

l’egualitarismo dello spazio pubblico post-moderno del privato-collettivo, sottraendo capacità contrattuale al lavoro salariato localizzato, rispetto al capitale globalizzato e rendendo, al contempo, ogni politica economica nazionale sostanzialmente incapace di far fronte ai nuovi rischi che i mutati equilibri comportano84.

In un mondo globalizzato, tuttavia, i rischi che questa dimensione comporta non rimangono localizzati, ma diventano un problema di tutta intera la nascente società globale che, volente o nolente, deve trovare il modo di farvi fronte.

Se per Arendt una società completamente privatizzata rischiava di rimanere vittima della processualità connaturata al ciclo biologico di ricambio con la natura, cioè schiacciata semplicemente sul ciclo vitale della società umana stessa considerata alla stregua di un organismo, gli sviluppi attuali del consumo eticamente responsabile mostrano che l’individualità singolare non ha ceduto allo sfrenato edonismo del consumo, ma si fa carico ancora e nuovamente del mondo e del prossimo grazie ad una ripolarizzazione di quell’aspetto della sfera privata che meno sembrava potesse avere in sé i germi di un inizio possibile, cioè proprio il consumo.

Attraverso il consumo si sviluppano, quindi, nuove forme di partecipazione individuale alla responsabilità collettiva nei confronti del mondo. Sotto questa nuova veste, il consumo non è più da intendersi come il contraltare della produzione ma piuttosto come una modalità critica di contrasto al dominio del mercato rispetto alla sfera delle decisioni politiche statuali, entro le quali ancora ci si muoveva nella prima modernità per cercare di “cambiare le cose”.

Come scrive Ulrich Beck (2008), «l’appello alla “responsabilità” è il cinismo con il quale le istituzioni abbelliscono il loro fallimento».

L’idea della “modernità riflessiva” lanciata dal sociologo tedesco, indica, infatti, propriamente il superamento delle istituzioni di base della modernità ad opera della modernità stessa, «in seguito agli effetti collaterali non intenzionali e sconosciuti» che ha generato (ibidem).

Lo slogan dei “nuovi movimenti sociali” (Della Porta e Diani 1997) che usavano sostenere che “il privato è pubblico” significava aver già costituito una forma di sfera pubblica che rivolgeva all’autorità pubblica dello Stato nuove istanze. La differenza tra i processi politici di ieri e le nuove tendenze di oggi legate al consumo sta propriamente nella tendenza all’eliminazione dell’intermediazione statuale.

Le nuove richieste di eticità che pongono nuovamente in questione il mondo, si rivolgono direttamente alle imprese private e tendono non già alla loro collettivizzazione, bensì si innescano all’interno di un processo di contrapposizione, o quanto meno di ripolarizzazione, di produzione e consumo, sulla base di un’istanza cosmopolita. Il fine di questo processo è quindi la riconquista del mondo comune, cioè un’istanza quanto mai politica o, come è invalso dire, “sub-politica” (Beck 2008). Si tratta, se possibile, di una politicizzazione della società dei consumi che punta a

84 Con l’apertura dei mercati internazionali, Il consumatore, non può più sperare neppure che il capitale abbia interesse a supportare il suo potere d’acquisto attraverso precise politiche di sostegno ai salari, perché il nascente sviluppo di nuovi mercati e di nuova domanda, sposta altrove anche l’offerta perché altrove trova la domanda. I nuovi poveri localizzati non hanno speranza: rischiano di essere semplicemente “superflui” (Bauman 2007).

cambiare il mondo a partire da istanze prossime al materialismo dialettico di marxiana memoria che trova non già nella riappropriazione collettiva dei mezzi produttivi la leva per la propria emancipazione bensì attraverso la relazione di interdipendenza tra produttore e consumatore che, in questo senso, si sostituisce a quella servo/padrone cui soggiacevano i rapporti di produzione capitalistici classicamente intesi.

La rottura del tradizionale rapporto servo/padrone cui erano sottesi i vecchi rapporti di classe, decostruito in gran parte dalla globalizzazione, ritorna rinnovato infatti nel rapporto produzione/consumo85.

Sottratto agli individui il controllo sistemico sull’economia di meracto (così com’era istituzionalizzato nelle funzioni di regolazione dello Stato), tale controllo non si può che svolgere all’interno dell’ambito del mercato stesso e, più precisamente, nell’ambito privato del consumo: si tratta del rinnovato ruolo del «consum-attore» o del «consumatore re» descritto ad esempio da Fabris (2010) come nuova frontiera di un “capitalismo dal volto umano” (o “verde”).

Alla coscienza di classe, basata sul presupposto del comune interesse di una fazione sociale, si sostituisce così una coscienza individuale dal respiro cosmopolita, cosciente, appunto, che è nel mondo stesso che risiede l’interesse di tutti (Beck 2008). E questa consapevolezza è tanto più marcata quanto più la società del rischio si delinea come

Outline

Documenti correlati