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La “razionalizzazione irrazionale” della globalizzazione consumistica

IL MONDO AL BIVIO

2. Verso una società mondiale dei consumi?

2.2 La “razionalizzazione irrazionale” della globalizzazione consumistica

Secondo una visione pluridimensionale la globalizzazione consta sempre quindi anche in una «ri-localizzazione», cioè in una rilettura e ri-contestualizzazione degli aspetti simbolici veicolati dalle merci e costruiti ad hoc dall’industria culturale globale.

In questo senso la mcdonaldizzazione del mondo non sarebbe possibile se non a livello, per così dire, operativo, piuttosto che culturale. Infatti, la logica del capitale, la logica della massimizzazione dell’utile, è – tanto nell’industria al consumo come per l’industria della produzione - necessariamente quella che Ritzer (1997) individua idealtipicamente nell’apparato organizzativo del McDonald’s, cioè la logica della razionalizzazione, ripresa direttamente da Max Weber. Ogni grande impresa, per garantire efficienza ed efficacia, è costretta a razionalizzare e burocratizzare le proprie prassi organizzative e operative. In questo senso, Ritzer ravvisa, in quelle che potremmo definire imprese di consumo (cioè in quelle imprese che si rivolgono direttamente al consumatore finale) un intrinseco “disincanto” contro il quale è necessario un continuo lavoro di “re-incantamento” sempre più richiesto dal consumatore stesso nella logica

46 Nonostante esistessero da tempo entità sovranazionali come le Nazioni Unite o il WTO o ancora l’OCSE i loro compiti erano assai diversi da quelli di un coordinamento degli stati nazionali in funzione di regolamentazione dei fenomeni economici globali. Anzi, il WTO o l’OCSE hanno favorito lo sviluppo globale del capitalismo con effetti anche spesso controproducenti per i paesi coinvolti (Cfr. Stiglitz 2002). Non per nulla Beck identifica nell’esperimento Europeo una possibile via verso un’entità sovranazionale capace - paradossalmente attraverso una cessione di sovranità - di riportare agli stati parte della sovranità sottratta loro, almeno in termini di azione efficace (Beck 1997).

47 Ritorna in Beck la contrapposizione presente già in Habermas tra razionalità strumentale, propria dell’economia capitalista, delle burocrazie e della scienza sperimentale e tecnica, e razionalità comunicativa, della quale farà oggetto la sua Teoria dell’agire comunicativo, intesa come strumento di coordinamento dei processi intersoggettivi di interazione nei contesti informali del mondo della vita (Cfr. Ghisleni e Privitera 2009, p. 54).

della spettacolarizzazione che abbiamo già visto nel primo capitolo.

Come abbiamo già avuto modo di notare, infatti, un processo di progressiva individualizzazione del consumatore e di parallela autonomizzazione degli ambiti di consumo, ha permesso una varietà crescente nell’offerta di prodotti e servizi, sempre più personalizzati, dando forma al contempo ad un’inedita alleanza tra consumatori e imprese nel definire le linee culturali delle “nuove tribù di consumo”, o “comunità di marca” o “di prodotto”.

Come scrive anche Ulrich Beck, «il localismo è il nuovo credo, la strategia d’impresa che acquista importanza via via che la globalizzazione è messa in pratica. […] il capitalismo mondiale, scosso da crisi di mercato, ha bisogno di una pluralità variegata di situazioni locali, al fine di reggere, con necessarie innovazioni produttive e di mercato, alla concorrenza mondiale» (2002, p. 66). Quello che avviene su scala locale o nazionale, quindi, avviene anche, in qualche modo, su scala globale e trova sempre più pronte in realtà le grandi imprese, le uniche capaci di raccogliere la sfida di tale complessità.

La strategia globale dell’impresa multinazionale, quindi, è quella che si potrebbe definire una strategia policentrica «glocale». Il termine glocale è un neologismo che indica, appunto, la nuova ridefinizione dei rapporti tra locale e globale come dialettica e simbiosi piuttosto che come schiacciamento definitivo su uno dei due termini, mentre il fatto che sia policentrica, ribadisce solamente che su scala mondiale, in seguito alle grandi differenziazioni culturali presenti, la strategia delle imprese deve declinarsi in una moltitudine di approcci appunto “culturalisti”, antropologicamente orientati. La logica su scala globale è, in definitiva, la stessa impostata da Bernard Cova (2003) nel definire il suo marketing mediterraneo (o «neotribale»), cioè un approccio di stampo tipicamente etnografico e culturologico. Il risultato di queste strategie, piuttosto che appiattire le culture locali ad una sorta di meta-cultura globale o, al contrario, esaltare le sole tipicità locali, sarà quello di una ibridazione tra gli elementi della cultura per così dire importata con quella autoctona: una vera e propria “creolizzazione” delle culture locali48.

In questo senso, la differenziazione culturale del consumo, al pari di quanto accade nelle società dei consumi occidentali, già ampiamente policentriche e differenziate, nascondono un rafforzamento delle dinamiche di consumo e della cultura del consumo su scala globale.

Ciò che più conta, in definitiva, è che gli stravolgimenti portati dalla globalizzazione sono primariamente di carattere tecnico-economico e determinano, in prospettiva, l’estensione della logica e della cultura del consumo in ogni luogo della Terra e che, seppure questa logica non comporti necessariamente una omogeneizzazione culturale, essa tuttavia esporta ovunque una logica pressante di razionalizzazione che si nasconde e si occulta nel crescente processo di differenziazione il quale è esattamente funzionale al rafforzamento del sistema nel suo complesso. In questo senso, i caratteri di fondo

48 Come scrive Beck, il risultato sarà non tanto quello di un würstel bianco tirolese ma di un «würstel bianco Hawaii». Allo stesso modo, anche in Italia, l’attenzione crescente dei consumatori verso i prodotti tipici locali hanno indotto McDonald’s, la famosa catena di fast-food, ad introdurli nei menù dei suoi tipicamente americanissimi hamburger.

della globalizzazione come modernizzazione, tendono ad essere ovunque diversi e ovunque assimilabili gli uni agli altri.

Come scrive Alberto Martinelli: «si può riconoscere l’esistenza di modernità multiple pur ponendo l’accento sul fatto che la transizione alla modernità è un processo genuinamente rivoluzionario, che trasforma radicalmente tutti gli aspetti della vita e che oggi la modernità è il risultato di un processo globale ed è diventata una condizione globale» (1998, p. 163). Cosa questo significhi in pratica ce lo spiega sempre Martinelli quando sostiene che «un modello multidimensionale della modernizzazione deve tener conto di quattro dimensioni fondamentali che sono tra loro correlate: la burocratizzazione, l’industrializzazione capitalistica, la secolarizzazione e la democratizzazione» (ibidem, p. 166). Quello che intende sottolineare Martinelli, quindi, è che non può darsi modernizzazione senza la «coesistenza» – che non significa immediatamente «simultaneità» - di questi elementi49. La modernizzazione, d’altronde, ha sempre significato, anche in Occidente, contraddizioni e conflitti. La forma attuale occidentale, quindi, non è mai stata “scontata”, come non lo è la via alla modernizzazione di altre «entità» (sociali, giuridiche, culturali, ecc). Resta il fatto che «essere moderni vuol dire trovarsi in un ambiente che ci promette avventura, potere, gioia, crescita, trasformazione di noi stessi e del mondo» anche se «nel contempo, minaccia di distruggere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che siamo» (ibidem, p. 169).

La globalizzazione appare comunque una forma di mcdonaldizzazione, perché è tale nell’esatto momento in cui McDonald’s differenzia la propria vendita in direzione di una razionalizzazione che è (anche) localizzazione. In questo senso, come dice Ritzer, «la razionalizzazione è irrazionale». Non solo è irrazionale perché tende ad eliminare burocraticamente e tecnologicamente l’elemento umano, l’unico che può portare intrinseca “ragionevolezza”, ma anche perché deve contrastare la propria stessa logica uniformizzante nel tentativo di rafforzarsi sempre di più.

Per questo motivo, una prospettiva come quella di Dahrendorf, pur condivisibile in linea di principio, escludendo a priori dal proprio orizzonte il comportamento privato degli individui e concentrandosi sull’allargamento delle chances di vita50, rischia di appiattirsi sulla generalizzazione del modello esistente, un modello pluricentrico (o “glocale”) di crescita dei consumi, il quale finirebbe col dare forma, in prospettiva, ad una società mondiale del consumo. Il che significherebbe, semplicemente, che il processo vitale

49 Martinelli riconosce anche che le ultime due condizioni sono effettivamente più problematiche perché si innestano direttamente sul sostrato culturale, religioso, delle popolazioni interessate dai processi di modernizzazione. Tuttavia, non ha senso parlare di modernizzazione se non sussistono gli elementi della tecnica uniti ad un sistema economico in qualche modo di stampo capitalistico, quindi razionalizzante e burocratizzante.

50 Come scrive egli stesso, infatti, «L’inequivocabile senso fondamentale della libertà è l’assenza di costrizione e lo sprone all’attività individuale» (Dahrendorf 2005, p. 8). Daherndorf però non entra nella questione di cosa intenda fare l’individuo di questa libertà o fino a che punto è necessario o opportuno ampliare l’offerta di chances di vita. Per Dahrendorf si tratta di questioni soggettive, personali, questioni che riguardano solo lui, le sue libere scelte, in una parola, la vita privata e intima di ognuno. A Dahrendorf non interessa ad esempio la questione della «felicità», in quanto elemento troppo personale, troppo privato: come nel solco del più tradizionale liberismo americano, la felicità è una ricerca del tutto personale e individuale all’interno della quale la società, come lo Stato, non devono interferire.

della società arriverebbe finalmente ad abbracciare ogni angolo del pianeta e ogni individuo vi sarebbe coinvolto senza posa.

Il raggiungimento del benessere da parte di nuove entità territoriali, se può significare da un lato l’uscita dalla miseria e dall’indigenza e nuove opportunità di libertà e democrazia, dall’altro lato significa anche sviluppo mondiale della società o, il che è lo stesso, sviluppo di una «società mondiale» organizzata funzionalmente su scala sempre più ampia, la quale, se dovesse veramente interessare un giorno ogni lembo del pianeta, riguarderebbe qualcosa come nove miliardi di persone, cioè la popolazione mondiale attuale, una popolazione che è destinata a crescere esponenzialmente e con una velocità senza precedenti nella storia dell’umanità (Brown 2012).

Come scrive Lipovetsky in merito alla società dell’iperconsumo «lo scenario più probabile vedrà il suo espandersi su scala planetaria: molto presto centinaia di milioni di cinesi e di indiani imboccheranno la spirale dell’abbondanza di beni e servizi a pagamento, rinnovati all’infinito. Non illudiamoci: né le proteste degli ambientalisti, né nuovi stili di consumo più sobrio saranno sufficienti a spodestare la crescente egemonia dell’ambito commerciale, a far deragliare il TGV del consumismo, a contrastare la valanga dei nuovi prodotti dal ciclo di vita sempre più breve. Siamo solo agli inizi della società dell’iperconsumo» (2007, p. XIX).

Un simile scenario corrisponderebbe, pressappoco, allo scenario visionario del film Matrix, ad un mondo cioè in cui gli individui vivono una sorta di realtà virtuale, una realtà ridotta a puro simulacro e indotta direttamente al livello della coscienza da un apparato tecnologico il quale, avendo preso il controllo del mondo, ha finito per trasformarlo nel disastrato palcoscenico di una alacre operosità meccanizzata che, completamente priva di qualsivoglia senso e direzione, distrugge senza posa il mondo intero riducendo gli inconsapevoli esseri umani a mere fonti di energia biologica.

Un vero e proprio incubo totalitario e burocratico dove ognuno, perseguendo solamente la propria legittima soddisfazione, contribuirebbe inconsapevolmente a rafforzare le maglie di un sistema micidiale. Un futuro certo possibile se non fosse che il mondo stesso sembra, in maniera sempre più evidente, non potere farvi fronte.

Il nuovo ordine mondiale, qualsiasi esso possa essere, quindi, non potrà in realtà non tener conto del comportamento privato degli individui e della maniera in cui si dovrà o si potrà articolare il progressivo aumento delle chances di vita di oltre nove miliardi di persone.

Come vedremo si tratterà, quantomeno, di disgiungere, o meglio di separare, i destini dei concetti di “sviluppo” e di “progresso” - che hanno finito nel tempo ampiamente col coincidere - determinando, sostanzialmente, un cambiamento di direzione al progresso così com’è stato inteso fino ad ora, cioè schiacciato entro una dimensione eminentemente economica dello sviluppo.

Quindi, se di ulteriore progresso sarà possibile parlare in futuro, questo dovrà quantomeno tener conto di uno sviluppo economico drasticamente differente dall’attuale. In questo senso, il termine “progresso” si sta slegando sempre più dal termine sviluppo o, quantomeno, quest’ultimo tende sempre più a separarsi dal termine “economico” per abbracciare il termine “sostenibile”.

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