• Non ci sono risultati.

Dell ’ incertezza localizzata Ovvero, il destino di chi rimane immobile

IL TURISMO TRA GLOBALE E LOCALE

2. Tornare a casa Le conseguenze della globalizzazione sui contesti locali occidental

2.1 Dell ’ incertezza localizzata Ovvero, il destino di chi rimane immobile

La stratificazione della società globale, quindi, passa fondamentalmente tra chi ha risorse e chi non le ha, chi può raggiungerle e chi no e questo a sua volta passa per la capacità di essere o rendersi globali oppure meno.

Come già accennavamo, la metafora che usa Bauman è quella dei turisti e dei vagabondi. Una metafora che trova certo ancoraggio e riscontro immediato nella differente condizione di coloro che, esuli e migranti, cercano di fuggire dalla miseria verso i paesi più ricchi, spesso tra notevoli divieti e limitazioni, e coloro che, invece, già ricchi e integrati nella società dei consumi, viaggiano per piacere e vengono ovunque bene accolti. Tuttavia, la metafora di Bauman va anche al di là della collocazione geografica, della differenza tra paesi ricchi e paesi poveri. La metafora dei turisti contrapposti ai vagabondi sta ad indicare l’esistenza di una nuova linea di demarcazione della stratificazione che non guarda più in faccia l’appartenenza nazionale ma solo la maggiore o minore capacità degli individui di essere più o meno “integrati” nel processo di globalizzazione. Ricorrendo a Bourdieu, si potrebbe parlare di “dotazione di capitali globali” che, sempre più finiscono per assomigliare ad una “dotazione globale di capitali”, nel senso che bisogna essere ben forniti su tutti i fronti per non rimanere indietro nel campo della vita globalizzata.

Sull’equilibrio di questa linea sottile, ma pesante quanto un’intera esistenza, passa la differenza tra quello che Bauman definisce «primo» e «secondo» mondo. Gli individui del primo mondo sono così congelati in un eterno presente stracolmo di cose da fare, vittime di un tempo che li impegna fino all’orlo. Per quelli del secondo mondo, invece, il tempo non passa mai, è vuoto. Quelli del primo mondo vivono nel tempo; per loro lo spazio non conta, dato che attraversare ogni distanza è per loro pressoché istantaneo. Quelli del primo mondo sono invece schiacciati dallo spazio, legati ad una condizione

locale senza speranze.

«Per gli abitanti del primo mondo – il mondo extraterritoriale, sempre più cosmopolita, degli uomini d’affari globali, dei manager della cultura globale, degli accademici globali – i confini statali sono aperti, e sono smantellati per le merci, i capitali, la finanza. Per gli abitanti del secondo mondo, i muri rappresentati dai controlli all’immigrazione, dalle leggi sulla residenza, dalle «strade pulite» e dalla «tolleranza zero» dell’ordine pubblico, si fanno più spessi; si fanno più profondi i fossati che li separano dai luoghi dove aspirerebbero ad andare e dai sogni di redenzione, mentre tutti i ponti, appena provano ad attraversarli, si rivelano ponti levatoi» (Bauman 1998, pp. 99 e 100).

Ponti sempre più difficili da attraversare e fossati sempre più ampi da saltare non interessano quindi solo il cosiddetto “Terzo mondo”. I vagabondi non sono solo immigrati. Anzi, questi vengono tenuti sempre più alla larga, allontanati ed esorcizzati, perché come specchi, ci rimandano l’immagine di ciò che potremmo presto diventare. Tale immagine si avvicina tanto più alle fattezze di ognuno quanto più questi scivola lentamente verso il secondo mondo descritto da Bauman, verso la disoccupazione, verso la vecchiaia senza paracadute, verso la pensione che, forse, non arriverà mai.

«Non si può stare fermi sulle sabbie mobili» dice Bauman riferendosi allo stato fluido, in perenne movimento, del mondo postmoderno, «un mondo i cui punti di riferimento sono su ruote in movimento, le cui istruzioni è seccante vedere svanire dalla vista prima che le si possa leggere per intero, ponderarle e seguirle» (ibidem, p. 88).

Nello spirito siamo tutti viaggiatori, siamo tutti nomadi, ma alcuni sono ammessi al viaggio, mentre altri restano a terra, e man mano che la fila per imbarcarsi si dirada, si rendono sempre più conto che la nave, in realtà, ha già slegato gli ormeggi e lasciato il porto.

Nell’era della modernità radicalizzata, conseguente alla ridefinizione globale degli ambiti di vita, quello che accade è un accrescimento del senso di incertezza e precarietà rispetto alla sicurezza che le democrazie occidentali davano per assodata. Nell’era della globalizzazione, non è data possibilità di scelta tra sicurezza e libertà, bensì ciascuno è gettato nella massima libertà dell’incertezza, dalla quale scaturiscono ansie, preoccupazioni e infelicità.

La lenta ma inesorabile demolizione dei sistemi di welfare in crisi ovunque in Europa testimoniano di un sistema sociale il cui orientamento alla sicurezza dell’esistenza civile non è più così sicura.

Nella modernità la società era controllata dalla torre centrale del moderno Panopticon per mezzo delle fabbriche dell’ordine deliberatamente strutturate per ottenere il risultato prestabilito, quello cioè di «restaurare la certezza, eliminare la casualità, rendere i comportamenti dei propri membri regolari e prevedibili, o ancora meglio certi» (Bauman, 1998, 102).

Bauman, rifacendosi alle analisi su ordine e disciplina dei corpi di Foucault, descrive il sorgere e l’attuarsi della società moderna come una sorta di costruzione della certezza fondata, in definitiva, sulla crescente razionalizzazione e burocratizzazione di ogni ambito dell’esistenza: una moderna, comoda e sicura “gabbia d’acciaio”. L’intuizione più provvida di tale comoda e confortevole «non libertà» si ebbe già dopo Weber grazie

agli autori critici di Francoforte, i quali si addentrarono più di chiunque altro nella disamina del lato oscuro della modernità (che essi fecero coincidere con il lato oscuro stesso della dialettica imposta dall’Illuminismo).

Ciò che poteva assicurare ad un tempo una maggiore sensazione di libertà senza compromettere l’ordine sociale e la sicurezza dell’integrazione sociale sarebbe stato solo l’instaurarsi della società dei consumi. Ma il carattere disciplinante del consumo si scontra tuttavia con il venir meno del lavoro, architrave portante della costruzione sociale moderna e, a tutt’oggi, ancora la fonte principale del potere d’acquisto.

Le trasformazioni che hanno seguito il declino della catena di montaggio hanno prodotto un nuovo modello di produzione ed una nuova gestione del lavoro incentrata sulla flessibilità e sulla capacità di adattamento alle fluttuazioni della domanda e delle richieste dei consumatori.

La prevalenza della fun morality tipica della cultura del consumo promuove d’altronde un indebolimento delle fabbriche dell’ordine e dei loro valori di disciplinanti. Il processo di individualizzazione iniziato secondo Becks e Giddens proprio agli albori dell’era consumistica attuale porta con sé la responsabilizzazione individuale delle scelte e dei percorsi biografici.

L’incertezza che scaturisce da tale contraddizione deve essere affrontata da ciascuno individualmente. Il timore di non poter portare a termine il processo di autoformazione di tali rimedi genera la paura dell’inadeguatezza che sostituisce quella della devianza (ibidem, p. 109).

L’emancipazione universale che ancora nella modernità trovava negli istituti collettivi come la classe gli ambiti a un tempo di realizzazione e di sicurezza, si sposta, nella tarda modernità, all’individuo singolare, il quale trova nel consumo la forma più rassicurante di inclusione sociale, unico modalità di vincere quella stessa “paura dell’inadeguatezza”.

Il processo di individualizzazione confina l’individuo in una posizione ambivalente in cui gli aspetti positivi e negativi della scelta lo rendono responsabile in prima persona delle proprie azioni. L’individuo, infatti, è oggi artefice dei propri successi e dei propri fallimenti.

È, infatti, in atto un processo in virtù del quale il permanere delle disuguaglianze e il sempre più diffuso disagio dell’uomo contemporaneo a vivere in una società complessa, è vissuto come fallimento o insuccesso individuale.

Il crescente bisogno di sicurezza, il venir meno delle tradizionali strutture di integrazione quali lo Stato o la classe e la costante minaccia del venir meno di quel paliativo all’inclusione e alla partecipazione che è il rituale consumistico, può comportare quindi un rifiuto acritico del processo di globalizzazione ed una chiusura localistica e neo-comunitarista, intesa come crescente “impermeabilità” ai flussi culturali globali.

2.2 Semi-nomadi. Ovvero il radicamento della comunità locale nell

era

Outline

Documenti correlati