27 gennaio 2008.
Quando arrivò il momento della sentenza per James Allen Gregg, accusato di omicidio nel South Dakota, il giudice si prese una pausa per riflettere sul caso dell’imputato, un veterano della guerra in Iraq, che soffriva di un grave distur- bo post-traumatico da stress. «Si tratta di un caso terribile, come hanno notato tutti» disse il giudice Charles B. Kor- nmann della Corte distrettuale federale degli Stati Uniti. «È ovvio che non tutte le vittime ritornano a casa dall’Iraq o dall’Afghanistan in un sacco mortuario.» […]
Quando i veterani come Gregg sono accusati di omicidio o altri crimini al loro rientro dalle zone di guerra, giudici e giurie sono sempre più indotti a stabilire il ruolo del trauma da combattimento nei crimini commessi. […] La salute men- tale delle truppe è un tema sempre più dibattuto e questi imputati […] sostengono che sia necessario considerare la guerra come il vero sfondo di questi crimini, commessi nel- la maggior parte dei casi da persone senza alcun preceden- te penale. […] «Penso che andrebbe sempre tenuto presen- te il fatto che la loro mente è stata distrutta dalla guerra» ha affermato un avvocato difensore della marina.
La sera del 3 luglio 2004 James Gregg, allora ventiduenne, trascorse la serata con amici in una festa itinerante della vigilia dell’Independence Day, nella riserva dov’era cresciuto come membro di una piccola comunità non indiana. Si spo- starono a bere in un bar allestito in un capanno Quonset […] e infine in un’azienda agricola, dove accesero un falò, arro- stirono marshmallow e prepararono gli s’more, i dolcetti a base di cracker, cioccolato e marshmallow.
Secondo gli avvocati dell’accusa, Gregg si era arrabbiato perché la ragazza che era con lui stava flirtando con un altro. Per questo motivo, afferma l’accusa, Gregg aveva fatto gi- rare a forte velocità le ruote del suo pickup per fare schizza- re la ghiaia sulla macchina di James Fallis, 26 anni, ex attac- cante in una squadra di football del girone dilettanti. […] Ne nacque una discussione. Gregg fu aggredito e picchiato da Fallis e in particolare da un terzo uomo, che gli aveva pro-
curato numerose fratture in volto. La stessa notte, con un occhio gonfio e chiuso e un labbro spaccato, si diresse nel quartiere dove abitava Fallis.
Fallis uscì da una roulotte, si tolse il giubbotto, chiese a Gregg se fosse venuto a prendersi il resto e spalancò la por- tiera del pickup di Gregg. A questo punto Gregg prese la pistola che portava con sé da quando era rientrato dall’Iraq. La puntò contro Fallis e gli intimò di stare indietro. Fallis si spostò verso il cofano della propria auto, e a questo propo- sito Gregg ha testimoniato di avere creduto che Fallis stesse prendendo un’arma. Iniziò a sparare per bloccarlo, disse, mentre Fallis si dirigeva verso l’ingresso. Gregg sparò nove proiettili, cinque dei quali colpirono Fallis, [uccidendolo]. Gregg si allontanò rapidamente, per fermarsi in un prato a pascolo poco lontano dalla casa dei suoi genitori. Secondo la testimonianza di Gregg, inserì un altro caricatore nell’ar- ma, la caricò e se la puntò al petto. «Jim, perché avevi in- tenzione di ucciderti?» gli domandò il suo avvocato durante il processo. «Perché mi sembrava di essere di nuovo in Iraq,» rispose Gregg. «Mi sentivo disperato. […] Non ho mai avu- to intenzione di fargli del male, mai. È successo tutto troppo in fretta. Voglio dire, è stato quasi un istinto, sentivo di do- vermi difendere.»
Gli psichiatri consulenti della difesa hanno stabilito, come ha testimoniato uno di essi, che «Il DSPT è stata la vera forza motrice all’origine delle azioni di James Gregg» nel momento in cui ha sparato alla sua vittima. Essendo stato picchiato a sangue, tra l’altro, in lui si era innescata una «reazione da allarme» (tipica del DSPT) quando Fallis si era avvicinato alla portiera dell’auto, e aveva reagito istintiva- mente. […]
La giuria ha decretato Gregg colpevole di omicidio di secon- do grado, ma non di primo grado. […] È stato condannato a 21 anni di carcere. […] Se tutti gli sforzi per far cadere le accuse saranno vani, sarà rilasciato il 22 luglio 2023, qualche settimana prima del suo quarantaduesimo compleanno. Copyright® 2008 «The New York Times». Tutti i diritti riser- vati. Stampato con il permesso di PARS International. Inc.
fittare di un intervento immediato a livello di comunità. Il principale approccio è il debriefing psicologico o Critical Incident Stress Debriefing (CISD).
Il debriefing psicologico è in effetti una forma di in- tervento in situazioni di crisi in cui le vittime del trauma vengono fatte parlare a lungo delle proprie emozioni e reazioni a distanza di pochi giorni dall’evento critico (Mitchell, 2003, 1983). Poiché tali sessioni sono intese a prevenire o attenuare le reazioni da stress, il metodo vie- ne impiegato spesso sia nel caso di vittime che non mo- strano ancora alcun sintomo che con le persone che già ne hanno.
TRA LE RIGHE
Alleviare lo stress da combattimento
L’esercito americano ha istituito unità di controllo dello stress da combattimento rivolte ai soldati dislocati in tutto l’Iraq e l’Afghanistan; gli psicologi parlano con loro subito dopo gli scontri a fuoco e cercano di identi- ficare chi necessita di particolari cure psicologiche.
Nel corso delle sessioni, spesso condotte in gruppo, i consulenti guidano i soggetti a descrivere i particolari del trauma recente, per esprimere e rivivere le emozioni scatenate al momento dell’evento e per esprimere le sen- sazioni attuali. I consulenti spiegano quindi alle vittime che le loro reazioni sono perfettamente normali di fronte a un evento terribile, danno consigli per la gestione dello stress e, se necessario, inviano le vittime ad altri profes- sionisti per un trattamento a lungo termine.
Rap group: gruppo che si riunisce per parlare dei pro- blemi dei diversi membri e quelli individuali in un’at- mosfera di aiuto e sostegno reciproco.
Debriefing psicologico: forma di intervento in situa- zioni di crisi, diretto ad aiutare le vittime ad esprimere le proprie emozioni e reazioni nei confronti di un even- to traumatico. Detto anche CISD, o criticalincident
stress debriefing.
Ogni anno migliaia di consulenti, non soltanto in am- bito medico, seguono corsi di formazione sulla psicolo- gia dell’emergenza. Il debriefing psicologico viene or- mai applicato nella post-emergenza di innumerevoli eventi traumatici (McNally, 2004). Quando l’evento traumatico colpisce numerosi individui in una comunità, il personale specializzato nella metodologia può conver- gere sul posto anche da sedi molto lontane per condurre sessioni di debriefing con le vittime. Di questo tipo fa parte uno dei programmi più vasti di mobilitazione di personale, la DRN o DisasterResponse Unit, unità di ri- sposta immediata istituita dalla American Psychological Association e dalla Croce Rossa americana. La rete è costituita da diverse migliaia di psicologi volontari che si sono prodigati nei servizi di salute mentale in numero- La terapia farmacologica e le tecniche di esposizione
apportano qualche risultato, ma si ritiene in generale che i veterani con disturbo post-traumatico da stress non sia- no in grado di recuperare pienamente solo con questi due sistemi: è importante che riescano ad affrontare le proprie esperienze di combattimento e il loro continuo impatto (Burijon, 2007). Per questa ragione i terapeuti spesso cercano di fare sì che i veterani tirino fuori i pro- pri sentimenti profondi, accettino ciò che hanno fatto e vissuto, non siano così severi con sé stessi e imparino nuovamente a fidarsi delle persone (Turner et al., 2005).
Sulla stessa falsariga, la terapia cognitiva viene utiliz- zata per guidare i veterani nell’analisi e nella modifica degli atteggiamenti disfunzionali e degli stili di interpre- tazione che derivano dalle proprie esperienze traumati- che (De Angelis, 2008).
I veterani con disturbo da stress psicologico possono trovare ulteriore aiuto in una modalità di terapia di cop- pia, familiare o di gruppo (De Angelis, 2008; Johnson, 2005). I sintomi del disturbo post-traumatico da stress sono particolarmente evidenti agli occhi dei familiari, che possono essere investiti direttamente dalle ansie, dall’umore depresso o dagli attacchi di collera del loro congiunto. Con l’aiuto e il sostegno dei familiari, i sog- getti hanno l’opportunità di esaminare il proprio impatto sugli altri, imparare a comunicare meglio e migliorare le proprie abilità di problemsolving.
Nella terapia di gruppo, spesso nella forma di rap group, i veterani si riuniscono con altri ex colleghi per
condividere le proprie esperienze e sensazioni (in parti- colare, il senso di colpa e la rabbia), approfondire l’ana- lisi di sé e sostenersi reciprocamente (Burijon, 2007; Lifton, 2005).
Oggi negli Stati Uniti la terapia di gruppo viene prati- cata in centinaia di piccoli centri per veterani diffusi in tutto il Paese e nell’ambito dei trattamenti psicologici nei vari ospedali per i veterani e degli ospedali psichia- trici (Welch, 2007). Queste istituzioni offrono anche te- rapie individuali, assistenza psicologica per coniugi e figli e terapia familiare. Si occupano inoltre anche di consulenza nella ricerca di un lavoro, istruzione e per richiedere sussidi.
Dalle relazioni cliniche si desume che questi pro- grammi costituiscono un’opportunità di trattamento ne- cessaria, talvolta vitale.
Il debriefing psicologico: il modello socioculturale in azione
Nel caso di persone traumatizzate a causa di disastri, vit- timizzazione o incidenti gravi possono essere utilizzati molti degli stessi trattamenti impiegati per i militari ex combattenti. Inoltre, poiché il trauma in questo caso è avvenuto all’interno delle rispettive comunità, in cui i servizi di salute mentale sono molti e facilmente accessi- bili, secondo molti clinici questi soggetti possono appro-
ro di essi esprime preoccupazione sul fatto che il counseling di crisi possa involontariamente «suggerire» i problemi alle vittime, contribuendo così a produrre in primo luogo disturbi da stress (McNally, 2004; McClel- land, 1998).
Il clima clinico attuale continua a essere favorevole al counseling di crisi; resta il fatto che i dubbi sollevati al riguardo meritano un’attenta considerazione. Anche in questo caso va sempre ricordata l’importanza della ricer- ca scrupolosa nel campo della psicopatologia.
TRA LE RIGHE
«Quello poteva essere Sammy»
Le persone che lavorano nella gestione delle salme del- le vittime hanno più probabilità di sviluppare un distur- bo da stress se si identificano con esse: «Poteva essere un mio familiare» (Ursano et al., 1999).
Sintesi
Lo stress e i disturbi da stress post-traumatico
Quando ci si trova di fronte a un fattore di stress o che percepiamo come una minaccia, spesso si ha una rea- zione allo stress costituita da senso di allarme e di paura. Le caratteristiche dell’allarme e della paura vengono attivate dall’ipotalamo, un’area cerebrale che controlla il sistema nervoso autonomo e il sistema en- docrino. Vi sono due assi principali attraverso i quali i due sistemi producono allarme e paura: l’asse del sistema nervoso simpatico e l’asse ipotalamo-ipofisi- surrene.
Le persone con disturbo acuto o post-traumatico da stress reagiscono con ansia e sintomi correlati dopoun evento traumatico e lo rivivono di continuo nella men- te, aumentando ancora di più allarme, ansia e senso di colpa. I sintomi del disturbo acuto da stress iniziano poco dopo il trauma e hanno una durata che non su- pera i trenta giorni, mentre l’esordio del disturbo post- traumatico da stress può avvenire in qualsiasi momen- to, anche a distanza di anni dal trauma, e i sintomi possono perdurare per mesi o anni.
Nel tentativo di spiegare perché alcune persone svi- luppano un disturbo da stress psicologico, i ricercato- ri hanno identificato fattori biologici, personalità, esperienze nell’infanzia, supporto sociale, fattori mul- ticulturali e la gravità dell’evento traumatico. I distur- bi possono essere trattati con tecniche di esposizione comportamentale, insight terapeutico, terapia familia- re e terapia di gruppo. La terapia psicologica di emer- genza a rapida mobilitazione, che spesso segue i prin- cipi del debriefing psicologico, viene spesso condotta in seguito a disastri su ampia scala.
se occasioni, come la strage nel 1999 della scuola di Co- lumbine, in Colorado, in cui morirono 23 persone nel corso di una sparatoria, l’attacco terroristico alle Torri Gemelle del World Trade Center nel 2001, lo tsunami del 2004 nel Sud-Est asiatico e le inondazioni causate dall’uragano Katrina nel 2005 (APA, 2008, 2005).
Nelle mobilitazioni su larga scala di questo tipo, sono gli psicologi a bussare alla porta dei rifugi per andare a cercare le vittime. Anche se il servizio di supporto è ri- volte a persone di tutti i livelli socioeconomici, si ritiene che coloro che vivono in stato di povertà abbiano parti- colare necessità di questi interventi a livello di comunità. Anche i volontari del soccorso psicologico, inoltre, pos- sono essere sopraffatti dai traumi in cui sono immersi professionalmente (Carll, 2007).
Il debriefing psicologico è efficace?
Vi sono molte opinioni favorevoli al riguardo, sia nella ricerca che nelle testimonianze personali sui programmi di mobilitazione rapida (Watson, Shalev, 2005; Mitchell, 2003). Tuttavia, numerosi studi hanno messo in dubbio l’efficacia di questo tipo di interventi (Pender, Prichard, 2009; Tramontin, Halpern, 2007).
Uno studio condotto nei primi anni Novanta è stato tra i primi a sollevare dei dubbi riguardo ai programmi di intervento psicologico in caso di disastri (Bisson, De- ahl, 1994). Alcuni counselor di crisi avevano condotto delle sessioni di debriefing per 62 soldati inglesi che durante la Guerra del Golfo si erano occupati delle ge- stione e dell’identificazione delle salme di militari ucci- si in azione. Nonostante gli interventi di debriefing, la metà di essi manifestava sintomi da stress post-trauma- tico ancora a distanza di nove mesi, quando fu sottopo- sta a colloquio.
In uno studio controllato condotto alcuni anni dopo su ustionati gravi ospedalizzati, i ricercatori separarono le vittime in due gruppi (Bisson et al., 1997). Un primo gruppo fu sottoposto a sessioni di debriefing individuali a distanza di pochi giorni dall’incidente, mentre il secon- do gruppo (di controllo) di ustionati non fu sottoposto all’intervento psicologico. Tre mesi dopo gli studiosi ve- rificarono che sia i pazienti sottoposti a debriefing che i pazienti del gruppo di controllo presentavano tassi ugua- li di disturbo post-traumatico da stress. Inoltre, a distan- za di tredici mesi, il tasso di disturbo post-traumatico da stress era effettivamente maggiore tra le vittime che ave- vano fatto il debriefing (26%) rispetto alle vittime del gruppo di controllo (9%).
Risultati analoghi sono emersi da numerosi altri studi incentrati su vari tipi di disastro (Van Emmerik et al., 2002). Ovviamente tali studi avanzano seri dubbi sull’efficacia del debriefing psicologico. Alcuni clinici ritengono che i programmi di intervento immediato pos- sano fare sì che le vittime indugino eccessivamente su- gli eventi traumatici che hanno vissuto. Un certo nume-
pressione o rinforzo. Questo tipo di problemi saranno oggetto di analisi nel capitolo successivo.
5.3.1 Disturbi psicofisiologici tradizionali
Prima degli anni Settanta, i clinici ritenevano che esi- stesse solo un limitato numero di malattie psicofisiologi- che. Il disturbo più noto e più comune erano ulcera, asma, insonnia, cefalea cronica, ipertensione e cardiopa- tia coronarica. Studi recenti hanno invece dimostrato che molte altre patologie, comprese le infezioni batteriche e virali, possono essere causate da un’interazione di fattori psicosociali e fisici. Osserviamo prima i disturbi psicofi-
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