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VALUTAZIONE CLINICA E DIAGNOS

Nel documento Psicologia Clinica (pagine 78-81)

A

ngela aveva 22 anni, viveva con sua madre e lavo- rava come segretaria in una grande compagnia di assicurazioni. Aveva già attraversato alcuni periodi di «malinconia», ma in questo momento era particolar- mente abbattuta. Era gravemente depressa e aveva fre- quenti crisi di pianto, che negli ultimi due mesi erano state particolarmente forti. Angela trovava difficoltà nel concentrarsi sul suo lavoro, faceva fatica ad addormen- tarsi la notte e aveva scarso appetito. […] La depressione era iniziata due mesi prima, dopo che si era lasciata con il fidanzato Jerry (Leon, 1984, p. 109).

La sensazione di profondo scoraggiamento ha portato Angela a fissare un appuntamento con un terapeuta pres- so un centro locale di counseling psicologico. Per prima cosa, lo specialista ha raccolto il maggior numero di in- formazioni possibile su Angela e il suo disturbo. Chi è questa persona, che tipo di vita conduce, quali sono esat- tamente i suoi sintomi? Le risposte possono aiutare a

stabilire le cause e il probabile andamento della sua di- sfunzione attuale, nonché a suggerire quale tipo di stra- tegie potrebbero aiutarla. Il trattamento potrebbe quindi essere adeguato precisamente alle necessità di Angela e al suo particolare modello di funzionamento anomalo. Nei Capitoli 1 e 2 abbiamo visto in che modo i ricercatori nell’ambito della psicologia clinica sviluppano una com- prensione generale del funzionamento anormale. Gli spe- cialisti clinici applicano queste informazioni generali al loro lavoro, ma il loro obiettivo principale, quando si tro- vano di fronte a un nuovo paziente, è raccogliere su que- sti informazioni idiografiche o individuali (Bornstein, 2007). Per aiutare le persone a superare i loro problemi, i clinici devono comprenderle appieno e assieme alle loro particolari difficoltà. Allo scopo di raccogliere queste in- formazioni, i clinici utilizzano le procedure di valutazione e diagnosi. Solo dopo sono in grado di proporre un trat-

Standardizzazione: processo nel quale viene sommi- nistrato un test a un ampio campione di persone; i ri- sultati servono poi da standard o norma rispetto alla quale misurare il punteggio individuale di altre perso- ne.

Affidabilità: misura della coerenza dei risultati di un test o di una ricerca.

Validità: accuratezza di un test o dei risultati di uno studio, ossia la misura in cui quel test o studio effetti- vamente verifica o dimostra ciò che afferma.

Un dato strumento di valutazione può sembrare valido semplicemente perché appare ragionevole e sensato. Questo tipo di validità, detto validità di facciata, non si- gnifica di per sé che lo strumento sia affidabile. Un test sulla depressione, ad esempio, potrebbe comprendere do- mande sulla frequenza del pianto. Poiché sembra norma- le che i depressi piangano, queste domande hanno una validità di facciata. Tuttavia risulta anche che molte per- sone piangono per ragioni del tutto diverse dalla depres- sione, mentre altre persone estremamente depresse non piangono affatto. Pertanto, un dato strumento di valuta- zione non va utilizzato se manca di un’elevata validità

predittiva o di validità concorrente (Sackett et al., 2008).

Con validità predittiva s’intende la capacità di un test di prevedere caratteristiche o comportamenti futuri. Supponiamo che sia stato messo a punto un test per iden- tificare i bambini in età scolare che diverranno fumatori nell’adolescenza. Il test raccoglie informazioni sui geni- tori dei bambini (caratteristiche personali, abitudine al fumo e atteggiamento nei confronti del fumo) e su que- sta base identifica i bambini a rischio. Per stabilire la validità predittiva del test, i ricercatori potrebbero som- ministrarlo a un gruppo di alunni di scuola elementare, attendere che siano adolescenti e studenti di scuola supe- riore, e quindi verificare per vedere quali bambini sono effettivamente diventati fumatori.

La validità concorrente esprime la correlazione tra i risultati del test in esame e i risultati derivanti da altre tecniche di valutazione. I punteggi dei partecipanti a un nuovo test ideato per misurare il grado di ansia, ad esem- pio, dovrebbero essere fortemente correlati ai punteggi ottenuti in altri test sull’ansia o al loro comportamento nel corso del colloquio clinico.

3.1.2 Colloqui clinici

Quasi tutti sappiamo per istinto che il modo migliore per conoscere le persone è in un incontro individuale. In queste situazioni possiamo vedere come reagiscono a quello che facciamo e diciamo, le osserviamo e ascoltia- mo le loro risposte, e in generale ci facciamo un’idea di come esse siano. Un colloquio clinico è esattamente un incontro di questo tipo (Sommers-Flanagan, Sommers- Flanagan, 2007, 2003). Se, durante un colloquio clinico, re standardizzati e possedere una chiara affidabilità e

validità.

3.1.1 Caratteristiche degli strumenti di valutazione

Tutti i clinici devono seguire le stesse procedure nell’uti- lizzare una particolare tecnica di valutazione. Standar- dizzare una tecnica significa stabilire dei passi comuni

da seguire quando viene applicata. Analogamente, i clini- ci devono standardizzare il modo in cui essi interpretano i risultati di uno strumento di valutazione, allo scopo di riuscire a comprendere cosa significhi un particolare punteggio. Ad esempio possono standardizzare i risultati di un test somministrandolo a un gruppo di partecipanti a una ricerca, e questi risultati costituiranno in seguito uno standard comune, o norma, rispetto alla quale diventa possibile misurare successivamente altri punteggi indivi- duali. Il gruppo iniziale che viene sottoposto al test deve essere rappresentativo della popolazione in generale per la quale è pensato il test medesimo. Ad esempio, se un test sull’aggressività inteso per un pubblico ampio venis- se standardizzato su un gruppo di marine, la «norma» ri- sultante potrebbe rivelarsi elevata in modo fuorviante.

Con affidabilità si intende la coerenza delle misure

di valutazione. Uno strumento di valutazione valido darà sempre gli stessi risultati nella stessa situazione (Weiner, Greene, 2008). Uno strumento di valutazione ha una ele- vata affidabilità test-retest, ossia è un tipo test che dà gli stessi risultati ogni volta che viene somministrato alle stesse persone. Se dalle risposte in un particolare test emerge che una donna è in generale una forte consuma- trice di alcol, si deve ottenere lo stesso risultato sommi- nistrando il test a distanza di una settimana. Per misurare l’affidabilità test-retest, i partecipanti vengono sottopo- sti al test in due momenti diversi e i punteggi confronta- ti. Maggiore è la correlazione (cfr. Capitolo 1), più ele- vata è l’affidabilità del test.

Uno strumento di valutazione mostra un elevato gra- do di affidabilità interrater (detta anche interjudge), un altro tipo di affidabilità, ossia la concordanza tra più va- lutatori sul punteggio e l’interpretazione del test. Dai test del tipo vero/falso e a scelta multipla emergono punteggi coerenti, indipendentemente dal valutatore, mentre altri tipi di test richiedono un giudizio da parte del valutatore. Prendiamo ad esempio un test che richieda di copiare un disegno, il quale poi viene valutato da un giudice dal punto di vista della precisione: valutatori diversi posso- no giudicare lo stesso disegno in maniera diversa.

Per finire, uno strumento di valutazione deve essere dotato di validità: esso deve misurare accuratamente

ciò che dovrebbe misurare (Weiner, Greene, 2008). Sup- poniamo che una bilancia legga 1,2 kg ogni volta che vi si pesa 1 kg di zucchero: anche se la bilancia è affidabi- le, in quanto i risultati sono coerenti, essi non sono né validi né accurati.

tribuisce particolare attenzione agli argomenti conside- rati più importanti (Wright, Truax, 2008). Gli intervista- tori psicodinamici cercano di sapere quali siano i bisogni della persona che hanno di fronte, cosa ricorda delle esperienze passate e come siano i suoi rapporti con gli altri. Gli intervistatori di orientamento comportamentale mirano a ottenere informazioni sugli stimoli che deter- minano certe reazioni e sulle loro conseguenze. Gli in- tervistatori cognitivi cercano di scoprire le convinzioni le interpretazioni che influenzano la persona. I clinici umanisti fanno domande sull’autovalutazione del pa- ziente, sull’idea che il soggetto ha di sé e sui suoi valori. Gli psicologi biologici cercano di individuare sintomi di disfunzioni biochimiche o cerebrali. Gli psicologi socio- culturali, infine, pongono domande riguardo all’ambien- te familiare, sociale e culturale del soggetto.

I colloqui possono essere inoltre non strutturati o strutturati (O’Brien, Tabaczynski, 2007; Rabinowitz et al., 2007). In un colloquio non strutturato il clinico pone domande aperte, magari un semplice «Perché non mi dice qualcosa di lei?» L’assenza di struttura consente all’intervistatore di seguire degli indizi e di addentrarsi in temi significativi che non potevano essere previsti pri- ma del colloquio.

In un colloquio strutturato vengono poste domande già preparate. Talora si utilizza un modello di colloquio un uomo descrive ad esempio la propria tristezza per la

recente perdita della madre con espressione allegra, il clinico può sospettare che in effetti nell’uomo ci siano emozioni in conflitto riguardo a questo evento.

Condurre il colloquio

Spesso il colloquio è il primo contatto fra paziente e cli- nico. I clinici ne fanno uso per raccogliere informazioni dettagliate sui problemi e sulle emozioni di quella perso- na, sul suo stile di vita, i rapporti personali e altri ele- menti della sua storia. Possono anche porre domande su cosa si aspetta il paziente dalla terapia e sulle motivazio- ni che l’hanno spinto a chiederla. Il clinico che ha lavo- rato con Angela (Caso 3.1) ha iniziato con un colloquio

individuale.

TRA LE RIGHE

Individuare la depressione

I medici di famiglia individuano meno di un terzo di tutti i casi di depressione clinica riscontrati tra i loro pazienti. La maggior parte dei casi non identificati so- no comunque casi lievi (Coyne, Calarco, 1995).

Oltre a raccogliere dati fondamentali sulla storia pas- sata della persona, chi conduce un colloquio clinico at-

CASO 3.1

A

l primo colloquio Angela si è presentata ben vestita.

Era graziosa, ma aveva gli occhi gonfi e cerchiati di scuro. Ha risposto alle domande e alle altre infor- mazioni riguardo alla sua storia personale parlando lenta- mente e in tono monotono, in modo alquanto distaccato. Sedeva rigida sulla sua sedia. […]

La paziente ha affermato che il periodo immediatamente precedente alla fine della relazione con il fidanzato era stato di estrema agitazione emotiva. Non era sicura di vo- lere veramente sposare Jerry e lui aveva iniziato a preten- dere da lei una decisione, in un senso o nell’altro. La madre di Angela non stimava particolarmente Jerry e si compor- tava in modo freddo e distante quando lui veniva a trova- re la figlia. Angela si sentiva in trappola e incerta sulla decisione da prendere riguardo al suo futuro. Dopo diver- se discussioni con Jerry riguardo al matrimonio, lui le disse di avere capito che lei non si sarebbe mai decisa e che quindi la loro storia sarebbe finita lì.

Angela ha affermato di avere avuto un’infanzia molto in- felice. Suo padre non c’era quasi mai e quando era a casa litigava costantemente con sua madre. […]

Angela ricorda di essersi sentita molto in colpa quando il padre se ne andò di casa. […] Ha detto di sentirsi in qual- che modo responsabile del fatto che suo padre avesse la- sciato la famiglia e che questa idea le tornava in mente ogni volta che pensava a lui. […]

Angela descrive sua madre come una donna «votata alla sofferenza», che diceva sempre di essersi sacrificata per la felicità delle figlie e di aver ricevuto in cambio solo dolore e infelicità. […] Quando Angela e [sua sorella] iniziarono a uscire con i ragazzi, la madre prese a fare commenti sgra- devoli sui ragazzi stessi e sugli uomini in generale. […] Angela ha detto di essere sempre stata tendenzialmente depressa. Al liceo, se prendeva un voto più basso di quan- to si attendeva, la sua reazione iniziale era di collera, se- guita da depressione. Iniziò a pensare di non essere ab- bastanza intelligente per prendere buoni voti e si incolpa- va di non studiare abbastanza. Angela si faceva prendere dallo sconforto anche se aveva una discussione con sua madre o se aveva la sensazione di essere sfruttata al lavo- ro. […]

L’intensità e la durata del [cambiamento di umore] prova- te dopo la rottura con Jerry furono molto più accentuate. Non era certa di sapere perché fosse tanto depressa, ma cominciò a sentire la pesantezza dello sforzo per uscire e andare al lavoro. Divenne difficile per lei parlare con gli altri. Angela aveva difficoltà di concentrazione e iniziò a dimenticare le cose da fare. […]

Preferiva restare a letto anziché trovarsi in compagnia di altre persone e piangeva spesso quando era da sola (Leon,

fre di depressione, ad esempio, ha una visione pessimi- stica di sé stesso e può dire di essere un pessimo lavora- tore o un genitore inadeguato, quando non è affatto così. Anche gli esaminatori possono compiere errori di giudizio che alterano le informazioni raccolte. Può capi- tare che tendano a basarsi troppo sulla prima impressio- ne e a dare troppo peso alle informazioni negative su un dato soggetto (Wu, Shi, 2005). I pregiudizi dell’intervi- statore riguardo a sesso, razza, età e aspetto possono in- fluenzare a loro volta le sue interpretazioni di ciò che dice il soggetto (Ungar et al., 2006).

I colloqui, in particolare quelli non strutturati, posso- no mancare inoltre di affidabilità (Wood et al., 2002). Le persone rispondono in modo diverso a intervistatori di- versi; ad esempio forniscono meno informazioni a una persona algida rispetto a un esaminatore cordiale e capa- ce di empatia (Quas et al., 2007). Anche in questo caso, razza, sesso, età e aspetto dell’intervistatore possono in- fluenzare le risposte del soggetto (Springman et al., 2006).

Poiché intervistatori diversi possono ottenere risposte diverse e trarre conclusioni diverse, anche ponendo le stesse domande alla stessa persona, alcuni ricercatori ri- tengono che il colloquio non sia uno strumento valido di valutazione clinica. Come vedremo, tuttavia, anche gli altri due tipi di metodica di valutazione clinica presenta- no dei limiti notevoli.

3.2

Nel documento Psicologia Clinica (pagine 78-81)

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