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Ebner e l'io sono io soffro

Nel documento Oltre la solitudine dell'Io (pagine 45-47)

Come Rosenzweig, Ebner rintraccia nella certezza del proprio morire la verità, non

teorica ma esistenziale. “Ognuno possiede la certezza del suo morire”280 - scrive. Questa

certezza, a sua volta, non coincide con la stilizzazione della morte che la cultura propone. “La cultura - osserva - é nella sua ragione ultima un morire stilizzato, anche se ciò si protrae

per secoli. Nella stilizzazione della morte non viene colta la serietà della morte ”281. La

riflessione sulla morte, sempre dissimulata ed elusa dalla filosofia, gli appare, di conseguenza, il nocciolo problematico ineludibile di ogni pensare.

Pertanto, la consapevolezza che l'uomo può maturare riguardo a se stesso non si pone sul piano della chiarezza autorisolutiva, ma su quello della fragilità e incompiutezza. L'autocoscienza non è, per Ebner, come per Fichte, autoposizione dell'io coincidente con il piano del tutto astratto di una presunta autosufficienza conoscitiva ed ontologica. Non si pone nemmeno sul piano della leggerezza estetizzante. Non è, infatti, un problema di stile. Il singolo vive nell'orizzonte del soffrire, non sul piano delle teorizzazioni astratte o degli stili: “Colui il cui pensiero cede coerentemente alla tendenza alla sostanzializzazione

dimentica se stesso e la realtà del suo Esserci, dimentica la sofferenza della propria esistenza: in tutti i suoi pensieri lascia fuori se stesso, questa realtà dell'Esserci e questa sofferenza...”282.

“Io sono e soffro” - afferma Ebner, declinando in senso esistenziale il Cogito di Cartesio. Io sono coincide con l'esperienza del soffrire. Io sono, in quanto soffro, quindi. E' il soffrire che dà la misura di ciò che sono. La percezione che ho di me coincide con

l’esperienza del mio essere inerme e ontologicamente indigente283. La sofferenza è la mia

vincolazione, la mia condizione o, detto nei termini di Rosenzweig, il mio nulla. 276 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pag. 5.

277 Ivi, pag. 4. Il passo ricorda l'ungarettiana Veglia: “Una intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio…” G. Ungaretti, Allegria di naufragi, cit., pag. 44.

278 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pag. 5. 279 E. D’Antuono, Ebraismo e filosofia, cit., pag. 40.

280 F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., pag. 371.

281 Ivi, pag. 376.

282 Ivi, pag. 284.

283 “La «parola originaria» derivata dal grido di dolore e avente il significato «Io sono e soffro» era - ed é - nel suo primo e ultimo fondamento un'invocazione a Dio. Dapprima lo spirituale nell'uomo si rivolse a Dio - cercandolo e invocandolo nell'atto di esprimere se stesso - e solo in seguito, tramite la parola, allo spirituale, al Tu nell'altro uomo”. Ivi, pag. 305-06.

Io sono, io soffro significa, ancora, che nel mio essere scopro la sofferenza come

costitutiva, legata all'evidenza del mio esistere, evidenza essa stessa, perché la vita inevitabilmente “si frantuma per la resistenza della materia”284. “La problematicità della vita” è tutta qui! E la risposta alla domanda su chi sono io deve passare

inequivocabilmente dalla risposta alla domanda sulla sofferenza. Né esiste qualcuno “ la

cui esistenza non comporti l'affrontare la questione circa il senso della vita ”285.

Ora, il rischio sempre ricorrente nelle filosofie è il solipsismo, e cioè la presunzione dell'uomo di fare da solo. Ma proprio nella solitudine si radica l'inquietudine dello

spirito286. “In ogni vita umana – afferma Ebner – c'è un'oscurità; quella del dolore per il

frantumarsi della vita, ma questa non è l'unica né la più oscura ”, perché la più oscura è la solitudine del conoscere, che è poi la solitudine del non senso287. In essa si annida la

suprema contraddizione della vita. “Nella solitudine della sua esistenza l'Io porta in sé

un'irrisolvibile contraddizione”, perché da una parte cerca la determinazione spirituale della propria esistenza, dall'altra la ricerca in rapporto all'idea. L'idea, propalata come “qualcosa di eterno, di atemporale, di assoluto”, dovrebbe servire “per uscire dalla vincolazione al temporale e alla dimensione di relatività dell'esistere”, ma finisce solo per annullare l'esistenza, per negare cioè il singolo reale e particolare. L'io che si confronta

quotidianamente con il soffrire “non sa esattamente che farsene della sua eternità e

atemporalità”288.

Il piano concettuale-universale, il piano della filosofia, è sfalsato rispetto a quello esistente-particolare. Lo scenario del primo è l'essere concepito sub specie aeterni, mentre quello del secondo è la contingenza dell'esistere. L'idea non salva, quindi, l'uomo dalla solitudine di fronte alla morte. Né lo salva la scienza con il suo oggettivismo impersonale, specie quando, come nel caso della psicologia sperimentale, pretenda di applicarlo all'umano. L'uomo è solo in entrambi i casi. Il nodo mai sciolto della sofferenza e della morte resta. Anzi, si acuisce. “Quanto più «oggettivo» egli diviene – osserva Ebner con riferimento ai metodi della psicologia -, tanto più solo diviene il suo Io, tanto maggiore la sua

sofferenza per tale isolamento” 289. La pretesa autistica dell'uomo, nelle sue diverse

forme, produce solitudine e la solitudine induce altra sofferenza.

Si inquadra qui l'interpretazione ebneriana del nichilismo come estrema forma di solipsismo. Il nichilismo consacra nell'elevazione dello spirito libero nietzscheano la pretesa di autosufficienza dell'io. Prospetta, quindi, “la recisione” di ogni legame e dipendenza, non solo

verso Dio, ma anche verso l'altro uomo290. In tal modo, viene a rappresentare la più radicale e

conseguente forma di soggettivismo. Esso non nasconde più, come invece fa ancora l'idealismo, la solitudine del soggetto dietro le idee e i sistemi, ma la mostra in tutta la sua nudità. Il nulla, che

284 Ivi, pag. 277. Così conclude Ebner “In vista di ciò non abbiamo bisogno di nessuna scienza e matematica, di nessuna arte e filosofia e nemmeno di alcuna esperienza di bellezza nella natura: abbiamo invece bisogno di Dio e della parola che viene da Dio”.

285 Ivi, pag. 371. 286 Ivi, pag. 211. 287Ivi, pag. 214.

288Ivi, pag. 252. Si avverte qui l'eco di Kierkegaard. Riporto, a tal proposito, un breve passo dalla sua Postilla: “Per la riflessione oggettiva la verità diventa qualcosa di oggettivo, un oggetto, e si tratta di vederlo separato dal soggetto; per la riflessione soggettiva invece la verità diventa appropriazione, interiorità, soggettività e si tratta per l'appunto di approfondirsi esistendo nella soggettività”. S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, in Briciole di Filosofia e Postilla non scientifica, Zanichelli, Bologna 1962, vol. II, pag. 3-4.

289 F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., pag. 284.

290 Sull'argomento vedi E. Ducci, La parola nell'uomo, cit., pag. 101 e S. Zucal, Il miracolo della parola, cit., pag.

per Ebner e per Rosenzweig è un nulla di relazione, si rivela oramai solitudine scoperta ed acclarata, la libertà un'estrema forma di irresponsabilità.

Nel documento Oltre la solitudine dell'Io (pagine 45-47)

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