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Io sono: indigenza e stupore ontologico

Nel documento Oltre la solitudine dell'Io (pagine 59-61)

4. L'attraversamento della crisi: oltre il nulla universale ed astratto del nichilismo

4.5 Io sono: indigenza e stupore ontologico

In Ebner, l'analisi della proposizione Io sono non è limitata ad una considerazione etico- antropologica, ma ha più sottilmente una valenza ontologica. Tale valenza si espleta in una considerazione dell'essere in senso esistenziale, piuttosto che essenziale.

Per il maestro austriaco, Io sono non è un'asserzione prima, assoluta, ma è un'asserzione

esistenziale365. Ciò vuol dire che porta implicito in sé il riconoscimento della non principialità dell'Io. L'essere dell'io non è nel senso dell'autosufficienza, ma nel senso della

carenza, dell'indigenza ontologica. Significativamente Ebner reinterpreta Descartes: “Non

cogito, ergo sum, ma: io penso, perché «non» sono ancora, cioé non sono ancora quello che voglio essere - o che devo essere”366. La consapevolezza che posso avere di me, che si

coagula nel pronome io, si pone sul piano della determinazione esistenziale. “La coscienza

è una realtà soggettiva, legata all'esistenza individuale ”367. L'io non è immobile identità

di un pensiero che pensa se stesso (Io sono Io), ma “qualcosa di diveniente”368. Il sono

deve essere, quindi, inteso non nel senso dell'essenza, ma dell' evento, dell'accadere. L'io diviene nel contesto dell'esistenza, in cui inevitabilmente s'incontra, come scrive il poeta,

il male di vivere369.

Io sono indica, quindi, la mia originaria passività, ossia la mia datità. La datità, a sua

volta, manifesta il bisogno. L'essere dell'io è essere di bisogno, un bisogno che è innanzitutto ontologica e significa dipendenza. In tal caso, la categoria di dipendenza va a porsi come “nuova definizione polemica del soggetto contrapposta all'ideale di

autonomia teoretica ed etica dell'Io sovrano isolato, costituente la verità del mondo attraverso la sua certezza”370. Pertanto, l'Io non é né può divenire autarchico371.

Nell'interpretazione dell'io nei termini dell'autarchia morale, della pretesa cioè del soggetto

di porsi da se stesso372, si adombra una più radicale autarchia ontologica, come si mostra

palese in Fichte. Siamo cioè alla pretesa di un'esistenza assoluta, tagliata di ogni dipendenza, ma anche di ogni relazione.

A fronte di tutto questo Ebner afferma che l'essere dell'Io non può porsi come originario e assoluto, perché è strutturalmente non autosufficiente. L'indigenza ontologica non è frutto di

364 Ivi, pag. 64.

365 Io sono é la parola originaria, manifestazione elementare dell'aver-la-parola ed insieme indice della spiritualitá dell'uomo, Ebner la chiama asserzione esistenziale. Vedi Frammenti Pneumatologici, cit., pag. 308.

366 Ivi, pag. 266.

367 Ivi, pag. 280.

368 “L'Io é qualcosa di «diveniente»; qualcosa che diviene o anche si derealizza a seconda appunto che si muova verso questo Tu oppure che si allontani da esso”. Ivi, pag. 320.

369 E. Montale, Ossi di seppia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1981, pag. 54.

370 E. Baccarini, Dialogisches Denken. Un capitolo della filosofia tedesca del Novecento, in A. Rigobello (a cura di),

Soggetto e persona. Ricerche sull'autenticità dell'esperienza morale, Anicia, Roma 1988, pag. 79.

371 Ivi, pag. 167. Secondo Ebner, “il tentativo, intrapreso (...) dalla filosofia tedesca, di salvare l'esistenza dell'Io in

un idealismo orientato in senso soggettivo, é fallito e doveva fallire proprio per il fatto che non si era capito che non si aveva propriamente a che fare con l'Io vero e proprio”, bensì con l'io chiuso nel suo solipsismo, “divenuto astratto e irreale nella riflessione e nella speculazione”. Ivi, pag 142.

teorizzazione, ma è palpabile, sperimentabile nella vita, perché io non ho consistenza, io

sono nulla.

Ma l'espressione Io sono porta in sé ancora un altro senso. Essa nasce, infatti, dallo

stupore di trovarsi ad essere. La presa d'atto della non necessità del proprio essere è, al

contempo, riconoscimento di una gratuità. Sotto questa luce l'esistenza si rivela evento inafferrabile dal concetto, sfuggente ai parametri di un mondo statico o eternamente ritornante su se stesso. Ciò vuol dire che io ci sono oltre il nulla che costantemente minaccia di annientamento il mio essere, oltre la solitudine in cui io stesso tendo a rinchiudermi.

Da un lato, quindi, la consapevolezza che all'Io appartiene una struttura fondamentalmente

dativo-derivata, ma, dall'altro, l'affermazione di un'esperienza unica e straordinaria373, perché

riconoscersi deficitari e bisognosi non corrisponde a povertà, bensì ad una reale e peculiare ricchezza. Lévinas la definirà “paradossale positività della carenza”, dell'essere feriti, impotenti, passivi, esiliati, viandanti. In altri termini, non si resta incatenati alla propria finitezza, al proprio nulla, circoscritti e come schiacciati in un'immanenza senza

slanci, senza evocazioni e senza desideri374.

Nella sua singolarità, che si pone oltre il concetto, il soggetto non vive nell'isolamento

innaturale di un pensiero che si autocertifica375, che si avvita su se stesso e sulla sua presunta

autosufficienza. L'indigenza in lui si fa piuttosto domanda, interrogazione, e nell'interrogazione è già contenuta la traccia di una direzione che porta fuori dalle chiusure solipsistiche. “Domandare significa rivolgersi a qualcuno diverso da me e da cui attendo una risposta. La

domanda quindi manifesta una carenza ontologica. Nell'interrogare viene a manifestazione il limite della ragione. Nell'interrogazione, tuttavia, si manifesta anche la paradossalità dell'umano, coscienza finita proiettata però al di là del finito”376.L'uomo è nulla, ma il nulla

della reale apprensione di sé non lo deve deprimere. Al contrario, deve avviarlo a riconoscere la sua vocazione originaria, a rompere la sclerosi del mutismo e dell'isolamento.

La domanda che nasce dalla sofferenza e dal nulla della condizione umana può trovare allora risoluzione. Se, infatti, l'io non possiede “un'esistenza assoluta, ovvero indipendente

dal suo rapporto con il Tu”, allora “la sua solitudine non è il suo stato più originario e connaturale”377. La solitudine non è il principio dell’umano e neanche la sua destinazione.

Oltre il solipsismo della coscienza, ossia oltre la negatività cui è approdato come sua meta ultima il pensiero moderno, si estende un orizzonte tutto da esplorare. Ma a questa dimensione l'io non arriva, se non dismette presunzioni e false sicurezze, che gli derivano dal celarsi dietro dottrine, etiche o ideologie.

373 “Tanto più chiaro gli diverrà però che esiste un solo Io e che l'Io é l'«unico» di fronte a Dio ”. F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., pag. 154.

374 “Questa ontologia indigenziale è, in un certo senso, la stessa che si può reperire nella Geworfenheit heideggeriana, soltanto che là assistiamo anche al tentativo di acquisizione di un'autenticità intraesistenziale che incatena l'esser-ci al suo ci, alla sua finitezza e non gli permette di aprirsi. la questione dell'essere stesso. Questa questione viene posta dal primo Heidegger. E queste questioni sono poste da Rosenzweig. Ebner e Buber, ognuno a modo suo. in direzione di un pensiero che concepiva l'essere come linguaggio che accade”. E. Baccarini, La soggettività dialogica, cit., pag. 115.

375 F. Ebner, Frammenti Pneumatologici, cit., pag. 287.

376 E. Baccarini, La ragione dialogica. Una nuova modalità di pensiero, in L'uomo e la parola. Pensiero dialogico e

filosofia contemporanea, a cura di M. Spano e D. Vinci, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2007, pag. 14.

377 F. Ebner, Frammenti pneumatologici, cit., pag. 141. Similmente a pag. 156 troviamo: “L'Io non ha alcuna

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