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Rosenzweig: il paganesimo greco-antico, l'arte e l'isolamento del pre-mondo

Nel documento Oltre la solitudine dell'Io (pagine 61-64)

4. L'attraversamento della crisi: oltre il nulla universale ed astratto del nichilismo

4.6 Rosenzweig: il paganesimo greco-antico, l'arte e l'isolamento del pre-mondo

Secondo Rosenzweig il paganesimo greco-antico ha elaborato ed articolato una

comprensione dell'essere nelle sue dimensioni elementari. “Sono i Greci – scrive - coloro che hanno portato avanti il pensiero fino allo sviluppo più alto che gli era possibile nel suo isolamento”378. Le immagini vivide delle figure della classicità (l'Olimpo mitico, il cosmo plastico e l'eroe tragico) non rappresenterebbero, quindi, tanto il portato di una cultura

determinata, quanto l'affiorare alla coscienza di certezze inscritte nel fondo dell’esperienza, antecedenti ogni pensiero379: “Per il Dio mitico il luogo della realtà storica era la rappresentazione di Dio in cui l'antichità aveva creduto, per l'uomo tragico era la viva autocoscienza che l'antichità ebbe, per il mondo plastico era la visione del mondo che essa produsse”380.

Il paganesimo greco assurge, in tal caso, a “metafora storica del pre-mondo”381, a luogo di

visualizzazione dei risultati del percorso logico-metafisico382, a raffigurazione in forma mitico-

poetica delle “tre strutture onto-logiche fondamentali, che scandiscono l'orizzonte più

remoto entro il quale si contestualizza la concreta e quotidiana esperienza dell'uomo, di tutti i tempi e di tutti i luoghi, all'interno del mondo”383. Questo orizzonte di senso presenta

l'essere come caratterizzato dalla differenza, ovverosia dall'irriducibilità ad una sola dimensione. I tre elementi originari sono, difatti, autonomi ed autosufficienti, “sono

ciascuno un solitario sé, che, fissandosi su di sé, nulla sa di un fuori ”384. Li caratterizza,

378 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pag. 57.

379 “E’ la certezza, inscritta nel fondo dell’esperienza, della realtà della nostra propria esistenza, del mondo e di

Dio; è dunque la conoscenza della realtà antecedente a ogni pensiero” S. Mosés, Système et Révélation. La philosophie de Franz Rosenzweig, Éditions du Seuil, Paris 1982, pag. 55. C'è da precisare che il procedimento costruttivo-matematico della correlazione non è l'unico e il solo usato da Rosenzweig, perché viene integrato da un procedimento fenomenologico teso a rintracciare, non senza suggestioni provenienti dalla Fenomenologia dello Spirito hegeliana, gli elementi originari nelle figurazioni storiche del mondo classico. Ciò viene suffragato da una lettera a Rudolf Ehrenberg, datata 23 febbraio 1917, in cui Rosenzweig scrive: “Mi ha meravigliato sapere che tu ti porti nuovamente dietro la Fenomenologia. Davvero tutti noi, voglio dire anche io ed Hans. abbiamo speso una marea di tempo per quel fantastico libro. E non c'é davvero qualcosa di simile che si possa trovare tra due copertine”. Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, Band. I Briefe und Tagebücher, Martinus Nijhoff, Haag 1979, 1, pag. 353. Si veda inoltre la lettera a Eugen Kosenstock del 5 settembre 1916, ivi, pagg. 220-223.

380 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pag. 91-92. Rosenzweig fa riferimento a O. Spengler, Der

Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, 2 Bde, Braumüller, Wien/Leipzig 1918-1922; tr. it. di J. Evo1a, a cura di R. Calabrese Conte, M. Cottone, F. Jesi, introduzione di S. Zecchi, Ugo Guanda, Parma 1991 e alla sua delineatura della cultura apollinea. La complessa configurazione del divino della mitologia greca, immagine della physis come potenza generativa e la visione dell'uomo quale emerge dalla tragedia attica offrono, quindi, a Rosenzweig altrettanti “paradigmi ermeneutici basilari per vagliare criticamente e selettivamente (…) gli esiti ed i portati piú rilevanti e caratteristici dell'intera meditazione filosofica occidentale”. F. P. Ciglia, Fra Atene e Gerusalemme etc., cit., pag. 66-67. Sul tema si veda anche E. D’Antuono, Divino e umano. Lo spirito del paganesimo e il suo destino nel pensiero di Rosenzweig, in «Idee», XVIII (2003), nn. 52/53. pp. 169-194.

381 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pag. 151. Il paganesimo cui Rosenzweig si riferisce non è

identificabile con un sistema particolare della filosofia greca, quanto piuttosto con la cultura greco-classica in senso lato (arte, letteratura, costume, politica, società).

382 Vedi E. D’Antuono, Ebraismo e filosofia, cit., pag. 102-03. L'autrice definisce il paganesimo “un ideale territorio

della mente dove coabitano segni, tracce e figure dispiegate, intrecciate in reciproco, speculare rimando ”, “universo del figurale”. Ivi, pag. 103-04.

383 F. P. Ciglia, Fra Atene e Gerusalemme etc., cit., pag. 67 . Scrive Rosenzweig che il paganesimo

rappresenterebbe “l'elenco dei personaggi, il programma teatrale che certo non fa parte del dramma, ma che tuttavia é bene leggere prima, O, detto altri menti, il c'era-una-volta con cui iniziano tutte le fiabe, ma con cui iniziano soltanto e che non puó piú venir fuori nemmeno una volta nel corso della fiaba e nel flusso della narrazione” Das neue Denken, in F. Rosenzweig, Der Mensch und sein Werk etc., cit., pag. 266.

quindi, un'assoluta aseità. Aseità significa “inseità ontologica” e “perseità concettuale, ossia

indipendenza quanto all’essenza e autonomia dal punto di vista della conoscibilità ”385.

In ragione di questo, il paganesimo offre un sapere diverso dal filosofare, un sapere privo della pretesa di reductio ad unum: “Il Dio mitico, il mondo plastico, l'uomo tragico: noi

teniamo le parti nelle nostre mani. Abbiamo veramente fatto a pezzi il Tutto ”386. Di questo

sapere "lo splendido isolamento dell'universo del bello e della singola opera d'arte rispetto

all'intera realtà”387 offre, a sua volta, una “chiara visualizzazione”. L'arte rende visibili “gli elementi del Tutto, che risalgono dagli oscuri fondamenti del nulla388.

Tutta questa architettura si regge sull'architrave del dio dell'Olimpo mitico (sarebbe più giusto dire del divino), che non si cura del mondo, che non interviene nelle vicende degli uomini né si china sul loro dolore. Il dio mitico resta distante ed impassibile . Nell'accezione che

riveste nel mito, seppure ama e odia, lo fa in modo capriccioso389. La sua volontà non è potenza

creatrice: nulla di nuovo essa genera sotto il sole che illumina eternamente un mondo immobile

e disperato390. Gli dei vivono spensierati ed appagati sull'Olimpo della loro intangibile felicità.

Pertanto, dal divino non viene alcun riscatto, e di questo si ha un riscontro, ancora una volta, nell'arte, cui è dato lenire il dolore, ma non redimere. Parimenti, la visione del macrocosmo del mondo classico è quella di “una forma plastica delimitata verso l’esterno e

pienamente strutturata verso l’interno”391. Il mondo è “un intero chiuso in sé, che esclude l'esterno, un recipiente colmo, un cosmo ricco di figure”392, un tutto configurato

pienamente in se stesso393. Parimenti, l'eroe della tragedia, “indifferente al νοµοs del cosmo

non meno che agli enigmatici verdetti degli dei”394, esprime un volere fermo ed immodificabile.

Proprio come un dio dell'Olimpo, egli non ascolta e tace. Ora, tale tacere è "il sigillo della sua

grandezza come pure il marchio della sua debolezza". Infatti, "tacendo l'eroe spezza i ponti che lo collegano a Dio ed al mondo e si eleva sui campi piatti e uggiosi della personalità, che parlando si delimita e si individualizza rispetto agli altri uomini, nella glaciale solitudine del sé"395. Ed è proprio questo assordante silenzio che la tragedia attica porta in scena396.

Il mutismo degli elementi del premondo significa, poi, sotto un profilo specificamente ontologico, il loro essere identico e la loro fissità. Essi, sospesi come in un limbo, sono privi di svolgimento e senza tempo. Basti pensare all'inattingibilità del dio mitico, cui corrispondono l'impassibilità dell'eroe e la perfetta risoluzione in se stesso del cosmo, che eternamente ritorna, seguendo i ritmi delle stagioni. Conseguentemente, il mondo classico, che pure ha avuto una

385 L. Bertolino, Il nulla e la filosofia, cit., pag. 138.

386 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pag. 85. 387Ivi, pag. 119.

388 Ivi, 151-52. L'arte è, per Rosenzweig, il luogo ideale di visualizzazione degli elementi primordiali. “Essenza

e legge del mondo mitico sono perennemente custodite dall’arte” E. D’Antuono, Ebraismo e filosofia, cit., pag. 106.

389 G. Bonagiuso, Dal silenzio del trágos alla Zeit-Wort della narrazione etc., cit., pag 10.

390 Il divino esprime “la vitalità pura, chiusa in sé, perfettamente armonica, semplicemente impossibilitata a

gettare lo sguardo fuori dal proprio orizzonte”. E. D’Antuono, Ebraismo e filosofia, cit., pag. 104-05.

391 Ivi, pag. 54. 392 Ivi, pag. 50.

393 Questo mondo segna, per Rosenzweig, “il culmine della cosmologia antica” esattamente come gli dei

segnano il culmine della teologia antica. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pag. 53.

394 E. D’Antuono, Ebraismo e filosofia, cit., pag. 112.

395 Vedi Ivi, pag. 77-78. Perciò, è giusto affermare che la tragedia attica porta in scena il silenzio più assordante. 396 Rosenzweig ritrova una differenza fondamentale tra l'archetipo dell'eroe tragico e la figura del Giobbe biblico.

Giobbe, nel momento in cui si mostra “ben in grado di «contendere con Dio», di convocare cioè la giustizia infinita di Javhé al suo stesso tribunale, ponendo l'Altissimo nelle condizioni di dover dare all'uomo una risposta ”, non solo parla, ma si mostra cosciente nell'uso della parola. L'eroe tragico, invece, resta confinato nel suo mutismo, risvolto della sua scultorea immobilità, della sua identità ferma e statica. Vedi Ivi pag. 79.

sua forza nel configurare quelle essenze perenni prima e oltre di ogni intellettualismo, implode di fronte alla domanda di senso che si leva dall'esistenza.

Lo evidenzia, ancora una volta, la tematica fondamentale della morte. Gli dei dell’Olimpo sanno, infatti, “tenere lontana la morte dal loro mondo immortale”, ma “non sono signori del

vivente”. Per esserlo, infatti, dovrebbero “uscir-fuori-da-se-stessi e questo non si addice” alla

loro spensierata vitalità397. Dovrebbero discendere dalla loro piattaforma di perfezione e

chinarsi sulle sofferenze umane, ma non sanno né possono. Quanto all'eroe tragico, egli “porta

sulla scena attica quell'impossibilità di morire che la coscienza umana sempre e comunque esperisce come irrappresentabilità della propria morte. Nel grido del silenzio eroico il paganesimo dice la sua ultima e piú alta parola sull'immortalità ”. Il

paganesimo, teorizzando l'immortalità come un non poter vivere né morire, dà, quindi, visibilità all'intemporale risultato del pensiero, ma anche all'angoscia di domande irrisolvibili. Esprime,

da ultimo, una vitalità senza inizio né fine, ma anche senza novità e speranza398.

397 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pag. 33.

398 "Nel dio mitico proietta la felicità di ignorare la morte, nel cosmo l’immodificabile necessità di un

movimento perennemente ripetentesi in assoluta estraneità alla dissoluzione che travaglia l'individuo, nell'eroe la pretesa di sconfiggere la morte perché incompatibile con la potenza della volontà attivatasi fino a scavare l'interiorità come realtà autonoma". E. D’Antuono, Ebraismo e filosofia, cit., pag. 112.

PARTE SECONDA

Nel documento Oltre la solitudine dell'Io (pagine 61-64)

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