• Non ci sono risultati.

In questo capitolo ho inteso proporre un modello interpretativo generale sulla cui base dare conto del rapporto tra esperienze di contatto diretto con il mondo altro e loro interpretazione secondo sistemi valoriali dotati di surplus culturale e/o religioso all’interno dei testi cosiddetti apocalit- tici prodotti nei complessi universi giudaici e protocristiani tra iv seco- lo a.C. e ii d.C. Tale modello ha preso le mosse dai meccanismi cosiddetti psicotropi e dalla loro particolare collocazione all’interno di quei sistemi culturali defi nibili come giudaici. Il meccanismo psicotropo, pur agendo

su punti di innesco biologici e cognitivi propri della storia profonda di

Homo sapiens, si innesta e si realizza in situazioni e contesti socioculturali

particolari. Questi veri e propri input, che sono sempre di un singolo o di un gruppo di singoli (nonostante la complessità e la specifi cità che questo termine ha per il mondo antico; cfr., sul tema, le rifl essioni di Rüpke, 2016, trad. it. pp. 209-58), appaiono resi come produzione culturale dotata di signifi cati condivisi che ricolonizza, nel caso specifi co dei testi visionari, corpi performativi in corpi testuali; questi, come tali, appaiono dunque riformulati come tasselli di un universo di senso che in qualche modo ne disinnesca il carattere potenzialmente eversivo.

Come abbiamo in parte già sottolineato, di esperienze provenienti dal mondo antico genericamente defi nibili come visionarie, nel senso di acces- so in prima persona, vis-à-vis, al non ordinario, al mondo divino e/o del sovrannaturale, possediamo solo resoconti scritti, quindi discorsi, o anche “pratiche discorsive”. Ciò che emerge, da questo tipo di documentazione, è proprio la dimensione di accesso al non ordinario in quanto mediazione letteraria. Eppure, a uno sguardo complessivo, non sfugge la presenza di modalità performative legate soprattutto al corpo, che peraltro si presen- tano in modo tutto sommato uniformi, o spesso abbastanza sovrapponi- bili tra di loro. Se è giusto ritenere che una tale similarità, per alcuni solo formale, per altri a tratti sostanziale, in molti casi possa essere addebitata a una diff usione a largo raggio di tradizioni testuali particolarmente co- nosciute e imitate, è altrettanto possibile ritenere che vi siano, al di sotto delle pratiche discorsive giunte fi no a noi, pur sempre determinate da con- tingenze particolari, vere e proprie performance che, in vario modo, si in- scrivono su particolari corpi che appaiono riconfi gurati in universi testuali complessi e stratifi cati.

Come sottolineato da Stanley J. Tambiah (1985, trad. it. 130-61), aff ron- tare la relazione di un’esperienza religiosa signifi ca avere a che fare con un processo rituale e, insieme, retorico e, dunque, con una sorta di specchio trasformativo della realtà. Per quanto concerne l’esperienza visionaria giu- daica e protocristiana, quello che abbiamo sono resoconti scritti, codifi - cati letterariamente, in cui si sottolinea che quanto descritto è avvenuto

realmente e secondo le modalità narrate. Quando si cerca di rintracciare,

sul fondo di resoconti altamente culturalizzati, concrete esperienze corpo- rali e, quindi, vere e proprie performance, va dunque tenuto presente che di fronte abbiamo, sempre e comunque, corpi rappresentati, ovvero corpi che sono il frutto di un particolare “discorso”.

Nel Mediterraneo antico e tardoantico, e dunque anche nei variegati universi giudaici e protocristiani sparsi in esso, è senza dubbio la parola che consegue a un’esperienza di contatto in prima persona il punto di ar- rivo della performance di accesso vis-à-vis all’oltremondo: non è un caso che ancora Lattanzio defi nisca la theoptia ermetica come «una visione che non esiste negli animali privi di parola» (Istituzioni divine, 7,9,11; cfr. trad. it. in Scarpi, 2011, p. 16). Eppure non va sottovalutato che la parola-voce, sia quella direttamente pronunciata dal visionario, sia quella che deriva dall’interpretazione della stessa performance così come tramandata nella forma di testo, rappresenta il punto di arrivo di un processo il più delle volte non del tutto esplicitato.

Al di là delle specifi cità storico-culturali che diff erenziano resoconti lontani nel tempo e nello spazio, l’approccio che muove dai processi cosid- detti psicotropi tende a sottolineare che è proprio il corpo del visionario, in quanto corpo performativo – un corpo, quindi, che è spinto a “fare” qualcosa da elementi in parte individuali, in parte socialmente condivisi – ciò che informa il vero e proprio dispiegarsi di meccanismi discorsivi volti a mostrare e a tramandare, a collettività più o meno ampie, conoscenze che si sono acquisite durante un’esperienza interpretata o reinterpretata come di contatto diretto con il mondo altro. Ciò implica che questo corpo narrato come crocevia di mondi solitamente incomunicabili venga inevi- tabilmente fatto oggetto di adesione e accettazione, così come anche di discredito o di competizione sociale.

La contrapposizione che spesso si ritrova in alcuni testi giudaici e pro- tocristiani tra corporeità “scomposte” (o “esagitate”, perché possedute da spiriti negativi) e “composte” (e, come tali, espressione della vera divinità)40 emerge come un vero e proprio processo di aff ermazione e rimozione, o an- che di neutralizzazione, del corpo non immediatamente associabile a parti- colari autodefi nizioni culturali o religiose in qualche modo irregimentanti. Al di là delle specifi cità di volta in volta connesse ai singoli testi e conte- sti chiamati in causa, ad apparire rinegoziata è proprio l’immagine corpo- rale di un particolare individuo, in una dialettica che esalta o stigmatizza ciò che è ritenuto eccesso a vantaggio dell’assoluta veridicità della paro- la da lui pronunciata. In questo quadro, il visionario viene rappresentato come uno che possiede un potere che proviene da dentro e che, come tale, può imporsi da sé. Egli, in quanto inabitato, pervaso, impregnato, in un certo senso persino posseduto, inscrive nella propria parola, in modo so- cialmente riconoscibile come su una scena, il suo personale accesso diretto

all’oltremondo, e la conoscenza che gli deriva può in parte rimediare alla sua stessa eccedenza corporale. Si tratta evidentemente di spostare l’at- tenzione su un privilegio conoscitivo, in quanto strumento, almeno per alcuni, che deve essere irreggimentato e, dunque, sottoposto a processi di verifi ca collettiva.

Nel caso della rappresentazione apocalittica di corpi performativi, si può ben dire di essere in quell’ambito del fare cultura che, parafrasando Foucault quando parla della prigione come meccanismo che plasma la corporeità riducendola a mera funzione di consumo e, al tempo stesso, a produzione macchinale (Foucault, 1975), è defi nibile come rimozione del corpo “nudo” o anche del corpo che parla da sé e che da sé si fa portatore di un potere, in vista della sua trasformazione in “corpo docile”, teso solo alla produzione culturale e alla sua manipolazione da parte di organi di produzione di potere.

I procedimenti polemici e di obliterazione del corpo visionario presen- ti in alcuni testi giudaici e/o protocristiani assumeranno valore conferma- tivo più generale soprattutto quando un particolare cristianesimo (quello della grande Chiesa) tenterà di risolvere ad unum contrasti legati a conte- sti locali. Non è un caso che, proprio tra la fi ne del ii e gli inizi del iii se- colo, contatti corporali eccedenti con l’oltremondo, e quindi stigmatizzati come scomposti, verranno sempre più spesso associati ad ambienti monta- nisti (nel cui ambito, non a caso, almeno stando ai discorsi polemici giunti fi no a noi, sembra esplodere un profetismo di carattere estatico piuttosto disordinato, allargato per di più alle donne), e a gruppi presentati secondo schemi di pensiero dalla forte impronta intellettualistica (che si è soliti condurre a quella sorta di magma piuttosto indistinto che è la gnosi).

Outline

Documenti correlati