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Papiri e codici (ii): la Francia di epoca carolingia

Se nei casi fi nora richiamati il processo di testualizzazione di particolari resoconti visionari si concretizza in una serie di interventi volti ad adegua- re il contenuto del testo a particolari istanze culturali e religiose, un caso mi pare testimoniare al meglio quello che appare a tutti gli eff etti come l’e- sito di una vera e propria scritturalizzazione. Va comunque precisato che anche questo processo, in molti casi parallelo a quello della testualizzazio- ne, in altri chiaramente successivo, è espressione di modalità trasmissive ugualmente complesse e stratifi cate. Passaggi in latino tratti dal 4 Esdra

sono presenti già in Tertulliano e in Cipriano (ca. 210-258 d.C.), ma è più o meno dall’epoca di Ambrogio (339 ca.-397 d.C.) che sembra circolare una versione latina pressoché compiuta dell’apocalisse: Priscilliano (380 ca.), Vigilanzio (400 ca.), Girolamo (380-420 ca. d.C.), l’anonimo autore del cosiddetto Opus imperfectum in Matthaeum (425-475 d.C.) e quello delle

Invenzioni dei nomi (prima dell’viii secolo d.C.), così come i compilatori

delle liturgie mozarabiche e romane, conoscono e fanno riferimento a se- zioni del testo più o meno coincidenti con quello trasmesso dalla Vulgata (Klijn, 1983, pp. 93-7).

Le vicende che hanno visto l’inclusione del 4 Esdra all’interno della Bibbia latina sono tortuose14. Esso si trova nella maggior parte dei mano- scritti completi della Vulgata di Girolamo (fi ne del iv secolo d.C.), sebbene con notevoli variazioni soprattutto per quanto concerne l’inizio e la fi ne dell’opera (cfr. Bergren, 1996). In alcuni codici l’apocalisse si chiude con due capitoli in cui la mano cristiana è piuttosto evidente (4 Esdra, 15-16). Questi due capitoli si trovano come un’opera a sé stante in altri manoscrit- ti, che appare come il 6 Esdra, dato che in alcuni rami della tradizione della

Vulgata troviamo un’altra opera, il 5 Esdra, che costituisce invece l’inizio

del 4 Esdra in altri manoscritti della Bibbia latina (4 Esdra, 1-2). L’opera di reinserimento del 4 Esdra tra le due opere più tarde deve essere avve- nuta per cristianizzare con maggiore evidenza uno scritto ritenuto parti- colarmente importante e, forse, almeno per alcuni, ancora troppo elusivo dal punto di vista teologico; è altresì probabile che tale rias semblaggio sia occorso in alcuni ambienti che hanno trasmesso il testo apocalittico più antico come parte integrante della stessa Vulgata, emergendo, così, come ulteriore tassello nel processo di scritturalizzazione del resoconto visiona- rio giudaico.

Il testo del 4 Esdra incluso nella Vulgata off re ampio materiale per valutare la sua acquisizione come vero e proprio testo canonico, se non altro proprio per il tentativo di racchiuderlo, almeno in alcuni rami della tradizione latina, in una introduzione (il 5 Esdra) e in una conclusione (il 6 Esdra) che ne rivelassero, nel modo più evidente possibile, la portata teologica in senso propriamente cristiano. Il 5 Esdra si presenta come una collezione di oracoli contro Israele che culmina nella visione di una folla di persone guidata da un giovane altissimo che viene spiegata come una rappresentazione dei santi immortali guidati dal fi glio di Dio. Anche il

6 Esdra è una collezione di oracoli pronunciati da Dio stesso rivolti a una

deli e si rappresentano gli eventi escatologici fi nali, così da incoraggiare la resistenza di non meglio identifi cati eletti. Entrambi gli scritti, nonostan- te una certa allusività dovuta alla pseudepigrafi a legata a un personaggio della tradizione biblica, mostrano di riscrivere e riadattare materiale cri- stiano presente anche in altri testi di seguaci di Gesù (in primis, nell’A- pocalisse di Giovanni), per cui vanno collocati in ambienti cristiani, pre- sumibilmente di lingua greca, i quali ne hanno assicurato la trasmissione anche in lingua latina (su 5 e 6 Esdra, cfr. Bergren 1990; 1998).

Ma non è solo la fusione tra questi scritti a mettere in luce il processo di scritturalizzazione che ha investito il 4 Esdra. Un caso di manomissione interno alla tradizione manoscritta latina, apparentemente circoscritto e poco invasivo, si dimostra in tal senso realmente decisivo. Le versioni e le edizioni della Vulgata in uso almeno fi no al xviii secolo, sia quelle mano- scritte sia quelle a stampa, presentavano un testo di 4 Esdra, 7,36-37 so- stanzialmente incomprensibile. Siamo nella terza visione, quella più lun- ga, dove Esdra ricorda al Signore i sei giorni della creazione. Nonostante il mondo sia stato fatto per Israele, ora tutti umiliano il popolo eletto e, per questo, esso non pare più in grado di poter ereditare questo mondo. L’angelo inviato da Jhwh spiega al veggente che, come un grande mare che abbia un ingresso stretto, o una bella città con un accesso pericoloso o poco agevole, il mondo è sì la «parte di Israele» (7,10 = aat i, p. 431), ma dopo il peccato di Adamo i suoi ingressi si sono fatti anch’essi diffi cili; tut- tavia se non si passa attraverso di essi, cioè attraverso le angustie del tempo presente, non si potrà godere dell’età futura. Esdra scopre che l’età futura sarà destinata solo a pochi e rimane profondamente dispiaciuto di questo, ma la risposta è semplicemente che così deve essere; l’angelo precisa anche che la fi ne di questa età sarà segnata dall’avvento di un inviato di Jhwh, che agirà per 400 anni e che poi morirà insieme a tutti gli uomini. Segui- ranno sette giorni di silenzio «come all’inizio primordiale» (7,30 = ivi, p. 434), dopodiché i corpi risorgeranno, e avverrà il giudizio fi nale, che destinerà al «paradiso delle delizie» o al «forno della Gehenna» (7,36 = ivi, p. 435). A questo punto il testo riporta una risposta del veggente in cui, come abbiamo già avuto modo di notare (cfr. supra, pp. 93-4), un elenco di giusti che hanno pregato per i peccatori introduce una richiesta di chiari- mento sul perché tale modalità di intercessione, che pure ha avuto una sua effi cacia nel passato, non avrà lo stesso valore nell’era escatologica; il salto logico è evidente rispetto a quanto esposto nelle frasi immediatamente precedenti. Che il testo latino fosse privo di un’intera sezione era d’al-

tronde chiaro, oltre che dal contenuto, anche dal confronto con alcune delle versioni orientali del 4 Esdra circolanti tra il xvii e il xviii secolo (cfr. ivi, p. 360).

Un contributo determinante alla risoluzione del problema è venuto dall’analisi di alcuni manoscritti inediti della Vulgata condotta dal fi lo- logo e orientalista inglese Robert L. Bensly (1875). Bensly ha dapprima analizzato il codice della Vulgata del ix secolo d.C. noto come Sanger-

manensis xvi-xvii, proveniente dall’Abbazia di Saint-Germain de Prés

(e ora conservato alla Biblioteca nazionale di Parigi [n. 11505]). Il codice, uno dei più antichi tra quelli contenenti la Vulgata nella sua interezza, pre- senta il testo del 4 Esdra privo di quelle sezioni che in altri manoscritti costituiscono l’incipit e la conclusione dell’opera (il 5 e il 6 Esdra), e che qui appaiono invece come libri autonomi; a ciò si unisca l’evidente elimi- nazione di un’intera pagina, quella che comprendeva la sezione attestata solo nelle versioni orientali. Bensly ha messo a confronto il Sangermanen-

sis con altri manoscritti riconducibili più o meno allo stesso periodo e ad

ambienti grossomodo contigui; tra questi, il codice Ambianensis, un ma- noscritto del ix-x secolo d.C. proveniente dalla Biblioteca comunale di Amiens, oltre che presentare un testo chiaramente dipendente da quello del Sangermanensis, mostrava il capitolo 7 per intero, chiarendo così che il taglio era avvenuto dopo il confezionamento del manoscritto ma prima della ricopiatura dei manoscritti della Vulgata dipendenti dal Sangerma-

nensis (quelli successivi al x-xi secolo presentano in massima parte la stessa

lacuna al cap. 7).

L’eliminazione del foglio contenente 4 Esdra, 7,36-106 si deve, molto probabilmente, a un’opera di censura riconducibile all’ambiente mona- stico di produzione del manoscritto. Il passo incriminato, tra le altre cose, nega la possibilità e la relativa utilità della preghiera di intercessione nei confronti dei defunti, dato che quella escatologica è una dimensione asso- lutamente altra rispetto a quella presente e per la quale le regole di azione proprie del tempo umano non varranno più. Una simile aff ermazione, così perentoria, non poteva essere accettata di buon grado nel monastero di Saint-Germain des Prés e nella fase di produzione del manoscritto, quella carolingia. Siamo in quella congiuntura storica che, dopo secoli di confl it- ti e dibattiti ideologici estremamente accesi, arriva a segnare il passaggio del potere di intercessione nei confronti dei defunti da particolari indi- vidui a vere e proprie istituzioni, i monasteri, che assumono così il ruolo di strutture preposte alla cura delle anime soprattutto per i notabili e per

la stessa casa reale (Choy, 2016). In sostanza, la preghiera di intercessione arriva a funzionare come strumento di scambio fi nalizzato all’ottenimen- to o al consolidamento, da parte dell’istituzione, di particolari benefi ci, aspetto che segnerà per buona parte la storia delle strutture non solo mo- nastiche, ma più generalmente ecclesiastiche di tutto il Medioevo (e il cui esito fondamentale sarà proprio la “nascita” del purgatorio nell’Europa del xii secolo; cfr. Le Goff , 1981).

In sintesi, il dibattito sul ruolo della pratica di intercessione nei confron- ti dei defunti appare come in fi ligrana dietro il Sangermanensis xvi-xvii, in una sorta di continuum tra necessaria adesione a un testo autorevole e la sua rilettura come strumento di accreditamento teologico-normativo; proprio quest’ultimo aspetto testimonia del fondamentale passaggio av- venuto nella trasmissione degli scritti ritenuti autorevoli nell’ambito della cultura monastica del ix secolo d.C., un passaggio in cui i procedimenti di “slargamento” o “restringimento” visionario inevitabilmente connessi ai processi di testualizzazione non sembrano più svolgere il loro compito in modo effi cace. Il testo, in sostanza, non appare più trasmesso per la sua ca- pacità di riattivazione visionaria, ma come tassello entrato oramai a pieno diritto in una collezione normativa dal valore praticamente assoluto; da qui l’unica strada che in questo quadro si rende percorribile, la censura e, quindi, il taglio della parte del testo che non può più rispondere a partico- lari bisogni comunicativi.

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