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dal deserto di Giuda all’Etiopia tardoantica

Come abbiamo già avuto modo di vedere, nella visione conclusiva del

4 Esdra da un rovo si leva una voce che chiama Esdra e gli ordina di an-

dare a istruire e rimproverare il popolo in vista dell’approssimarsi della fi ne. Esdra fa presente la sua impossibilità di rivolgersi alle generazioni future, ma Jhwh gli suggerisce di prendere cinque scribi e di trascrivere tutto quello che sta per essergli rivelato. Il veggente esegue prontamente il compito e si ritira per 40 giorni, durante i quali, grazie all’aiuto de- gli scribi, vengono composti 94 libri, 24 destinati alla lettura pubblica e 70 a quella dei sapienti del popolo (cfr. 14,1-48 = aat i, pp. 482-7); è come se il testo suggerisse una tensione intrinseca a eventuali limitazioni canoniche e indicasse nella separazione tra lettura pubblica e circoscrit- ta ai sapienti un tentativo di ovviare a tendenze alla testualizzazione di esperienze di contatto diretto con il mondo altro eccessivamente volatili, anche quando legate a scritti oramai assurti a un notevole livello di dif- fusione pubblica.

Il 4 Esdra è stato quasi sicuramente redatto in una fase successiva alla caduta del tempio di Gerusalemme del 70 d.C. (cfr. infr a, spec. pp. 357-60), quando certo giudaismo con pretese dirigenziali cerca di ricompattarsi nonostante l’evento traumatico della perdita del centro del culto giudai-

co. Tale ricompattamento ha senza dubbio implicato un maggiore irrigi- dimento nella valutazione della sacralità di determinati testi rispetto ad altri; ma tale operazione di riorganizzazione testuale in chiave canonica non ha mancato di creare ripercussioni nei gruppi che componevano il va- riegato universo giudaico in quella fase storica. Il 4 Esdra sembra indicare una strada che, pur avallando l’idea di una maggiore utilità della lettura pubblica di alcuni libri rispetto ad altri, non esclude la possibile presenza di ulteriori testi meritevoli di considerazione; il testo, dunque, se da un lato testimonia del sempre maggiore peso assunto da un’autorità che fon- da il proprio potere proprio sulla fi ssazione testuale e sulla sua intrinseca stabilità, dall’altro avvalora l’idea che, in certo giudaismo della fi ne del i secolo d.C., la messa per iscritto dei resoconti visionari si fondasse comun- que su processi di proliferazione ancora piuttosto fl uidi.

Nel caso di 1 Enoc, possiamo tracciare una vera e propria storia del pro- cesso che da pratiche di testualizzazione funzionale giunge alla cristalliz- zazione in chiave scritturale. Il testo, così come lo possediamo, rappresenta un’opera chiaramente composita che possiamo leggere nella sua interez- za solo nella sistemazione avvenuta nell’ambito dei gruppi di seguaci di Gesù collocatisi, a partire dal iv secolo d.C., nel contesto dei regni proto- aksumita e aksumita in Etiopia3.

Alcune delle sezioni che compongono questa collezione in lingua ge῾ez sono state rinvenute, anche se in maniera frammentaria, tra i ma- noscritti di Qumran4. Queste scoperte hanno dato un contributo impor- tante alla storia testuale di 1 Enoc, facendo innanzitutto luce sulla lingua originale di sezioni più o meno coincidenti con il Libro dei vigilanti, il

Libro dei sogni e l’Epistola di Enoc (l’aramaico). Questi manoscritti han-

no rivelato anche che a Qumran parti confl uite nella tradizione etiopica avevano già assunto una loro forma testuale pressoché defi nita. Eppure, nonostante il parere contrario del primo editore dei frammenti aramaici (Milik, 1976, pp. 4-7, 58, 77-8, 183-4, 227, 310), sembra piuttosto diffi cile che questi testi fossero fi n da subito considerati, o almeno già all’epoca di trascrizione del più antico manoscritto qumranico, come parti di una collezione unitaria più ampia. Ciò che possiamo dedurre, dallo stato del- la documentazione, è che a una circolazione isolata (quella testimoniata da 4Q201-202, 4Q205, 4Q207 e 4Q212), in un secondo momento si è af- fi ancata una trasmissione (testimoniata soprattutto da 4Q204 e 4Q206) che ha incluso alcuni di questi materiali testuali all’interno di uno stesso manoscritto.

I manoscritti qumranici, in sostanza, testimoniano di un processo di te- stualizzazione graduale e funzionale, che a una fase di circolazione isolata del Libro dei vigilanti vede man mano affi ancarsi parti più o meno coinci- denti con il Libro dei sogni e l’Epistola di Enoc. Per quanto concerne queste due sezioni dell’attuale 1 Enoc etiopico, è possibile ritenere che esse fossero unite al Libro dei vigilanti attraverso l’inserimento di due passaggi “ponte” (1 Enoc, 81,1-82,4 e 91); a ciò si unisca che 1 Enoc, 94,6-104,8 non doveva essere originariamente parte dell’Epistola di Enoc. In linea generale, dun- que, le testimonianze di 1 Enoc più antiche in nostro possesso dimostrano che un particolare corpus ricondotto a una paternità enochica già esisteva intorno al i secolo a.C., ma non è possibile concludere con certezza che questa fusione avesse una forma in tutto e per tutto coincidente anche in altri contesti di trasmissione (cfr. Nickelsburg, 2001, pp. 25, 335-7).

La circolazione isolata di sezioni incluse in 1 Enoc etiopico è invece chiaramente testimoniata dalle traduzioni greche che ci sono pervenute in forma più o meno compiuta5. Torneremo nel corso del capitolo sul pro- blema delle traduzioni dei testi visionari (cfr. infr a, pp. 120-4), processo che se da un lato testimonia del riadattamento visionario in e per nuo- vi contesti culturali, dall’altro implica, almeno nella valutazione di chi costruisce un nuovo prodotto testuale come vera e propria traduzione, anche una tensione inevitabile verso un processo di scritturalizzazione che, se non altro, dichiara di preservare il contenuto “originario” di un precedente fondativo. Uno scritto in greco attributo a Enoc, più o meno coincidente con il testo del Libro dei vigilanti etiopico e con i frammenti aramaici rinvenuti a Qumran, è stato individuato in un manoscritto com- posito, contenente anche passi del Vangelo di Pietro e dell’Apocalisse di

Pietro, trovato nella necropoli di Akhmim (l’antica Panopoli) nel 18866, in una tomba posta in una più vasta area cimiteriale in uso tra il v e il xv secolo non necessariamente (sebbene l’ipotesi abbia qualche ragion d’es- sere) connessa ad ambienti monastici. La datazione del manoscritto non è agevole: se i primi editori del testo hanno optato per una collocazione all’viii secolo d.C., studi successivi hanno ritenuto di poter anticipare la data di produzione al vi secolo, mentre altri, sulla base di alcune so- miglianze con il Codex Washingtonianus (detto anche Codex Sinaiticus), un onciale del iv secolo d.C. contenente i 4 vangeli canonici, hanno ri- condotto il nostro manoscritto alla stessa epoca (cfr. status quaestionis in Coblentz Bautch, 2018). Al di là della datazione, problema in questa sede abbastanza relativo trattandosi di un manoscritto composito7, ciò che vale

la pena di sottolineare è il carattere, per così dire, circoscritto della colle- zione, evidentemente il lascito di un privato e, dunque, diventato parte del corredo funebre.

Diverso il caso della versione greca del Libro dei vigilanti trasmessa all’interno della Cronografi a universale di Giorgio Sincello, monaco e segretario del patriarca Tarasio vissuto a Bisanzio tra la fi ne dell’viii e i primi decenni del ix secolo (cfr. Mosshammer, 1984). È Giorgio stesso a dirci che l’excerptum da lui riportato è una vera e propria citazione, forse dipendente da qualche cronografo precedente. Non è mancato chi, tra gli studiosi, ha letto questa versione del Libro dei vigilanti come una libera parafrasi o riscrittura di materiale enochico preesistente, con inserzioni provenienti, in alcuni casi, da non meglio identifi cate “fonti”, in altri dalla stessa fantasia di Sincello. L’excerptum della Cronografi a è più breve rispet- to a quello del codice di Akhmim: se questo appare privo solo di una breve sezione alla fi ne del Libro dei vigilanti, la versione di Sincello corrisponde più o meno a 1 Enoc, 6-10 e 15-16 (cfr. Black, 1970, pp. 21-6, 29-30). Ciò che emerge, a livello molto generale, è che il Libro dei vigilanti preservato da Sincello rappresenta un testo ampiamente rivisto e corretto, così da as- solvere al massimo al compito che il cronografo sembra attribuirgli all’in- terno della sua opera, cioè svelare appieno le vicende occorse prima del diluvio universale e trattare, così, di un fondamentale tassello della storia biblica senza tralasciare nulla.

Le versioni greche richiamate presentano notevolissime e spesso so- stanziali coincidenze ma anche divergenze che non possono essere ricon- dotte a meri errori o sviste da parte dei copisti, emergendo dunque come processi di rimaneggiamento e rilettura derivanti da una reale opera di ri- messa in moto visionaria. Ciò nonostante, entrambe testimoniano di una circolazione isolata del Libro dei vigilanti, per giunta in un’epoca oramai molto lontana da quella dei manoscritti rinvenuti a Qumran. Se il mano- scritto di Akhmim permette di valutare la circolazione e, dunque, l’opera di rimessa in moto visionaria in contesti egiziani tardoantichi piuttosto circoscritti, e che non a caso mostrano taluni contatti con circoli di ma- trice ermetica (Olson, 2015), quella presente nella Cronografi a universale di Sincello appare come il prodotto di ambienti abbastanza in vista e che, come tali, mettono in atto un tentativo di demitologizzazione del Libro

dei vigilanti anche attraverso l’eliminazione o il perfezionamento, che in

taluni casi è vera e propria normalizzazione sotto il profi lo teologico, di passaggi ritenuti particolarmente ostici (Arcari, 2012a; 2018).

Lo status di libro canonico goduto da 1 Enoc nella Chiesa etiopica ha da par suo reso possibile una larga diff usione dell’opera in lingua ge῾ez, come testimoniato dal grande numero di manoscritti che la tramandano; proprio questi manoscritti, al di là dei più generali fenomeni legati alla tra- smissione di un testo molto “utilizzato” in contesti liturgici ed ecclesiali, evidenziano, almeno in alcuni casi, processi di riattivazione connessi allo

status di testo ispirato8. I manoscritti si dividono in due grosse famiglie testuali, una più antica, che sembra contenere un testo più antico – più scarno e con costruzioni linguistiche più arcaiche e di non sempre agevole leggibilità – e una più recente, frutto di una revisione che si è verosimil- mente protratta per un certo tempo, intenta a normalizzare un testo rite- nuto ormai troppo diffi cile.

Va sottolineato che il più vistoso processo di riattivazione a cui 1 Enoc è stato sottoposto nello specifi co ambito del cristianesimo etiopico è evi- dente soprattutto nella struttura in cui il testo è tramandato, come un vero e proprio pentateuco, e dunque come un insieme di cinque libri evidente- mente modellato sulla struttura dei primi cinque libri della Torah, in una sorta di analogia che rimanda, al tempo stesso, a fenomeni di armoniz- zazione e anche di competizione rispetto alle scritture ebraico-cristiane ritenute canoniche in altri contesti ecclesiali. Un ruolo di fondamenta- le importanza, in questo quadro, è stato sicuramente svolto dal secondo tomo che compone 1 Enoc etiopico, il Libro delle parabole, lo scritto che all’interno della collezione presenta le maggiori aperture in senso poten- zialmente cristologico.

Il Libro delle parabole si può dividere, dopo il capitolo introduttivo, in tre parti principali costituite da tre discorsi, detti comunemente para- bole (da cui deriva il nome stesso del libro), che comprendono i capitoli 38-44, 45-57 e 58-61. Questi discorsi informano sulla gerarchia angelica, su problemi astronomici e metereologici e culminano nella presentazione di un “eletto”, un essere simil-umano che dovrà svolgere compiti di giudi- zio. L’origine dello scritto non va necessariamente ricondotta ad ambienti cristiani, ma ha certamente rappresentato, in ambito etiopico, uno scher- mo su cui proiettare, riconducendole al periodo antidiluviano, profezie riguardanti la futura venuta di Gesù come giudice escatologico.

Secondo alcuni commentatori etiopici, il giudice escatologico del Libro

delle parabole, proprio perché defi nito “essere umano”, o letteralmente “fi -

glio dell’uomo” (in ge῾ez walda be’esi), va identifi cato con il “fi glio di Dio”, chiamato anche “il fi glio” (in etiopico wald), interpretando un’espressione

chiaramente mutuata da quella di Dn 7 e 10 in un’ottica non solo cristiana, ma soprattutto trinitaria; non è un caso che il termine wald in etiopico indichi anche la seconda persona della Trinità (cfr. Assefa, 2018). La tradi- zione etiopica, in questo senso, ha fi nito con il riferire a Gesù buona parte delle scene escatologiche presenti nel Libro delle parabole, vedendovi spes- so allusioni al giudizio così come si trova in altri testi assunti ugualmente come canonici (in particolare nel discorso escatologico che i vangeli sinot- tici mettono in bocca a Gesù, o anche nelle scene di giudizio dell’Apocalis- se di Giovanni, dove peraltro Gesù è identifi cato anche con il personaggio celeste di Dn 7 e 10; cfr. Arcari, 2012b, spec. pp. 161-228).

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