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Nelle riconfi gurazioni testuali di esperienze di contatto diretto con l’ol- tremondo emergono vere e proprie mappe mentali, spazializzazioni e lo- calizzazioni che costituiscono e defi niscono una topografi a derivante da una sorta di dislocazione e ricollocazione di immagini tradizionali in cui il mondo immaginato ricrea luoghi secondo una dimensione di natura realmente prototipica. Riconfi gurare e mettere per iscritto esperienze di contatto con il sovrannaturale, in questo senso, appare come un proces- so che, svelando una nuova topografi a, è ritenuto capace di riportare il soggetto visionario, e chi ascolta e/o legge, in questa stessa dimensione, in cui le mappe mentali funzionano come strumenti di avvicinamento e ricompattamento che pretendono di colmare la distanza tra al di qua e aldilà. Ciò implica che qualsiasi geografi a mentale si pone, sempre e co- munque, come una sorta di specchio deformato e talvolta opaco in cui si rifl ettono luoghi e soprattutto relazioni spaziali rimandanti a particolari

hic et nunc di cui l’elemento visionario pretende di svelare il più profondo

e vero signifi cato.

Nel Libro dei vigilanti viene esplicitamente sottolineata la centralità del territorio di Dan (cfr. 1 Enoc, 13,7 = aat i, p. 72); la stessa geografi a della sezione sembra mostrare una certa familiarità con il territorio galilai- co, dato che il veggente legge il messaggio degli angeli caduti «sulle acque di Dan, in Dan che è a destra della regione occidentale di Armon» (ibid.), mentre gli angeli vigilanti sono «radunati a piangere in Ubleseyael, che trovasi fra Libanos e Seneser» (13,9 = ibid.). Si tratta di località vicine al monte Hermon (in 1 Enoc, 6,6 gli angeli vigilanti scendono in Ardis, «sulla vetta del monte Armon» = ivi, pp. 60-1), un luogo certamente richiamato in testi inclusi nella Bibbia ebraica (cfr. Nickelsburg, 2001, pp. 238-47), ma che nelle visioni del Libro dei vigilanti sembra caricarsi di particolari signifi cati, dato che è qui si raccolgono gli angeli trasgressori.

Gli elementi emersi dalle indagini archeologiche condotte sull’Her- mon hanno messo in luce una notevole compresenza, per il periodo el- lenistico-romano, di culti locali fortemente connotati in senso giudaico insieme ad altri maggiormente legati a matrici greche e romane. D’altron-

de, anche Flavio Giuseppe ricorda un luogo chiamato Dafne, ubicato pro- prio nella zona attorno all’Hermon, dove sorgeva un tempio dedicato al «vitello d’oro» (Guerra giudaica, 4,3), mentre un’iscrizione databile al iii secolo d.C. circa attesta un vero e proprio culto nei confronti di un dio locale; a ciò si unisca la presenza, soprattutto in epoca romana, di un tempio in onore del dio Pan, particolarmente legato alla famiglia di Erode (cfr. Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, 2,9,1; Antichità giudaiche, 18,2), di cui sono stati rinvenuti resti nei pressi di una località chiamata Banias9.

Questa eff ervescente situazione religiosa potrebbe spiegare almeno una particolare fase di assemblaggio della narrazione confl uita nel Libro

dei vigilanti, che così prenderebbe di mira forme di coabitazione religiosa

proprie della zona dell’Hermon, riconfi gurandole sulla scorta del raccon- to dell’unione illecita dei vigilanti con le donne, un racconto che, non a caso, associa due realtà incompatibili come quella angelica e quella umana, così come sarebbe incompatibile, nell’ottica del Libro dei vigilanti nella sua interezza, il culto prestato a divinità altre e la zona dedicata a Jhwh che sorge attorno al monte Hermon. Sembra emergere in maniera piuttosto icastica ciò che De Certeau (1990, trad. it. p. 176) ha defi nito come «or- dine dei luoghi», un ordine secondo il quale «degli elementi vengono distribuiti entro rapporti di coesistenza».

Come abbiamo già avuto modo di vedere (cfr. supra, pp. 162-7), in

2 Baruc Jhwh annuncia, nel venticinquesimo anno del regno di Yeconia,

l’imminente rovina di Gerusalemme, «quattordici anni da quando era stata presa la città» (1,1; il testo sembra fare riferimento alla cronologia della cattività babilonese così come si trova in Ez 50,1). Baruc, Geremia e pochi altri lasciano la città in modo che la condanna divina possa abbatter- si senza coinvolgere i giusti e senza che questi possano proteggerla con le loro preghiere (2). Baruc abbandona il popolo ed esce dalla città, per col- locarsi presso una quercia (6,1); a questo punto il veggente viene innalzato e dall’alto assiste alla distruzione delle mura ad opera di quattro angeli, ma dopo che gli oggetti santi del tempio sono stati affi dati alla terra «fi no agli ultimi tempi, […] affi nché gli stranieri non se ne impadroniscano» (6,8 = aat i, p. 288). Dopo 7 giorni, Jhwh ordina a Baruc di dire a Geremia di seguire il popolo in Babilonia, mentre lui rimarrà «nella desolazione di Sion», affi nché gli sia mostrato «quel che accadrà alla fi ne dei giorni» (10,2-3 = ivi, p. 289). Così Baruc, davanti «alle porte del tempio», innal- za un lamento su Gerusalemme e lancia una invettiva contro Babilonia, sottolineando che anche lei verrà presto travolta dall’ira divina (12,4). Nel

prosideguo Baruc torna al tempio dopo essersi trattenuto «nella valle del Cedron, in una grotta della terra» (21,1 = ivi, p. 296). Baruc torna pres- so il popolo riunito e lo ammonisce (31,3-32,7): bisogna ricordare il dolo- re di Gerusalemme, perché chi si converte grazie a questa memoria sarà protetto da Jhwh quando questi scuoterà la creazione (32,5-6). Tornato nuovamente presso il «luogo santo», dopo un breve lamento (35), Baruc cade addormentato e ha una visione in cui viene rappresentata la lotta in cui periranno le nazioni al venire dell’inviato celeste (50). Altre due volte Baruc sarà presente presso il popolo riunito in assemblea: quando rinnova l’esortazione, rivolta a pochi, di fedeltà alla Torah (44), e nella sezione parenetica dedicata alle sventure presenti come monito alla metamorfosi del sé. Poco prima, il testo ha sottolineato che Baruc resterà insieme agli Israeliti per 40 giorni, per poi salire sulla montagna dove avrà nuove vi- sioni e sarà condotto da questa terra «alla custodia dei tempi» (76,2 = ivi, p. 334).

Nel complesso, possiamo osservare una continua oscillazione tra un “fuori” e un “dentro” che ha come punto focale, sempre e comunque, la città di Gerusalemme: il “fuori” è il luogo dell’esperienza di rivelazione, dello svelamento dei misteri celesti, dell’ottenimento del vero senso del male presente; il “dentro” è invece il luogo della comunicazione, del tenta- tivo di far comprendere ad altri il senso di quanto sta avvenendo.

Una dinamica più o meno simile si trova nel 4 Esdra. Il veggente si reca in un campo e prega il Signore, aff ermando che, se muoiono coloro che hanno custodito la Torah, essa comunque non può perire. Il concet- to è ben illustrato dalla visione che segue immediatamente, quella della donna in lacrime che scompare per lasciare posto a «una città costruita» (10,27 = ivi, p. 463). Per ordine dell’angelo, Esdra rimane sul posto, dove ha altre esperienze di contatto diretto con il divino: la notte successiva ha un sogno (quello dell’aquila con dodici ali, otto contro-ali e tre teste: 11,1-12,51 = ivi, pp. 466-75; cfr. supra, pp. 170-1), mentre dopo altri sette giorni ne sopraggiunge un altro (quello dell’uomo che sorge dal mare; cfr. 13,1-58 = ivi, pp. 476-82), dopo di che riceve la grande visione del rovo da cui si leva una voce che gli ordina di andare a istruire e rimproverare il popolo, dato che la fi ne dell’età si sta sempre più avvicinando (14,1-48 = ivi, pp. 482-7).

In quella che di fatto è l’ultima visione di cui si compone il 4 Esdra, al veggente viene ordinato di prendere con sé cinque scribi e di condurli in un luogo isolato, dove scrivere quello che gli è stato rivelato. Esdra fa

così, dopo aver promesso al popolo la salvezza per chi si comporta secondo certi dettami, per ritirarsi per 40 giorni insieme alle fi gure preposte alla trascrizione del contenuto delle rivelazioni da lui ottenute e che, come tali, verranno inviate e lette a coloro che nel frattempo sono rimasti in città.

Anche nella mappa mentale disegnata dal testo dell’Apocalisse di Gio- vanni, appare abbastanza evidente l’importanza del deserto e dei monti come «luoghi di prova e protezione, liberazione e vaglio, purifi cazione e rinnovamento» (Tripaldi, 2012, p. 172)10. La donna minacciata dal drago rosso (12,1-6), nella simbolizzazione giovannea una entità collettiva aff e- rente alla dimensione primordiale (l’Israele prototipico) perseguitata da un’entità anch’essa primigenia ma di natura demoniaca, fugge nel deserto, «dove ha là un luogo preparato da Dio, perché là la nutrano per mille due- cento sessanta giorni» (12,6; trad. it. in Lupieri, 1999, p. 51). In 17,3 il veg- gente è condotto nel deserto «in spirito», e lì vede forse la stessa donna di Ap 12, ma questa volta «seduta su una bestia scarlatta, ripiena di nomi di bestemmia, con sette teste e dieci corna» (17,3; trad. it. ivi, p. 71), una rap- presentazione del processo di degradazione dell’Israele primordiale che si è evidentemente contaminato con forme di paganesimo e che, come tale, ha messo da parte quella dimensione di elezione che dovrebbe connotar- la fi n dalla creazione e che si è ulteriormente concretizzata nell’adesione all’insegnamento di Gesù. In 21,10 Giovanni è invece condotto «in spirito su un monte grande ed elevato», da dove può osservare «la città, la santa Gerusalemme che scendeva dal cielo, proveniente da Dio» (ivi, p. 93), la più completa e perfetta simbolizzazione della coabitazione ultima e defi - nitiva tra Dio e i suoi seguaci, che si realizza grazie all’adesione alla fede in Gesù così come portata avanti da Giovanni.

In questo quadro, Giovanni vede nelle città umane il cuore della con- taminazione, almeno fi no al rinnovamento che sta per realizzarsi nel tem- po fi nale con l’apparizione di una Gerusalemme che, non a caso, è vista discendere direttamente dal cielo. L’immagine del giudaismo corrotto, perché immerso negli ambienti urbanizzati greco-romani e ritenuto com- piacente rispetto alle strategie di integrazione nell’egemonia imperiale e nel suo sistema economico (che sui centri cittadini appunto si impernia- va), è perfettamente riassunta dalla raffi gurazione di Babilonia, «avvolta di porpora e scarlatto, e indorata con oro e pietra preziosa e perle» (17,4; ivi, pp. 71-3). La questione, a ogni modo, emerge in tutta la sua forza già nel settenario delle lettere con cui si apre il resoconto visionario (2-3), veri e propri messaggi indirizzati ai vari credenti che vivono nelle città dell’A-

sia Minore (Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfi a, Laodicea) e tutti in qualche modo toccati da questioni derivanti dalla più o meno diretta integrazione in pratiche e in modi di vivere ritenuti non in linea con una particolare adesione al giudaismo.

La stessa Babilonia, quindi, appare come il prototipo della città nemica di Dio per eccellenza (cfr. Is 14,4-17; Ger 20,4, 21,10, 51,41.49.60; Ez 17,12, 30,25; Dn 4,27 ecc.), che nella dimensione simbolica del resoconto visio- nario dell’Apocalisse emerge come una Gerusalemme corrotta e lasciva, una sorta di degenerazione dell’Israele rappresentato in Ap 12 (quello ori- ginario), nettamente opposta alla Gerusalemme celeste, l’unica davvero degna di ricevere questo nome e, non a caso, rappresentata come «sposa» (21,9), l’antitesi della prostituta-Babilonia (cfr. 18,2-3). D’altronde, anche altrove Giovanni cela la Gerusalemme storica, quella corrotta, sotto un altro nome, Sodoma, che, insieme all’Egitto, indica chiaramente il luogo «dove […] il loro signore fu crocifi sso» (11,8; ivi, p. 47). In questo caso, Sodoma, anch’essa, come Babilonia, città corrotta per eccellenza (cfr. so- prattutto Gen 19,1-29), e che ha assunto questo nome «spiritualmente» (pneumatikōs, come dice espressamente Giovanni), allude alla funzione per lui più profonda svolta dalla città dove lo stesso Gesù è stato messo a morte, chiaramente la Gerusalemme storica ma al tempo stesso trasfi gura- ta come simbolo o emblema dell’urbanizzazione greco-romana.

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