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È possibile ritenere che fenomeni e patologie categorizzabili come sta- ti alterati di coscienza possano essere interpretati, anche solo da alcuni all’interno di un dato sistema socioculturale, come elementi costruttivi o costitutivi di un qualche signifi cato religioso o più generalmente cultu- rale, dunque, come stati alterati di coscienza dal punto di vista religioso (Religiously Altered States of Consciousness, rasc) o anche stati alterati di coscienza interpretati dal punto di vista religioso (Religiously Inter-

preted States of Consciousness, risc; cfr. Segal, 2004, pp. 323-4; 2010, spec.

pp. 366-7). L’approccio ai fenomeni religiosi secondo le scienze cognitive (ma sarebbe meglio dire secondo la Cognitive Science of Religion, csr), a ogni modo, proprio per il suo forte impianto inter- e transdisciplinare, sta cercando di ridefi nire gli stessi confi ni delle discipline storico-religiose sulla base della interazione tra scienze naturali, antropologia, storia e so- ciologia. In tale ambito, forte rilevanza assume (e non poteva essere altri- menti!) l’elemento culturale, visto soprattutto come vero e proprio indica- tore delle modalità con cui gli attori di un dato sistema sociale riplasmano e ridisegnano stimoli evolutivi, e dunque appartenenti alla storia profonda di Homo sapiens, come modalità di azione culturalmente e socialmente condivise.

Il punto di partenza di un tale approccio risiede nella possibilità di ri- pensare l’universalità dei meccanismi interni di Homo sapiens in prospet- tiva evolutiva ma salvaguardando, al tempo stesso, le inevitabili specifi cità contestuali con cui determinati stimoli biologici appaiono rideclinati in particolari sistemi storico-culturali (Franks, 2011). Per questo, al di là della estendibilità, almeno in chiave storico-culturale, di concetti come stato alterato di coscienza, sia esso religiosamente declinato o reinterpretato in chiave religiosa, ciò che voglio qui sottolineare è che i testi apocalittici giu- daici, pur con tutti i limiti legati a una documentazione in parte lacunosa proprio sugli aspetti connessi alle esperienze a essi sottese, possono rien-

trare nei fenomeni di contatto diretto con l’oltremondo, fenomeni che nel mondo antico sappiamo essere raggiunti e/o ottenuti da un insieme di prassi spesso categorizzabili come stati alterati di coscienza e che, come tali, agiscono su stimoli che il singolo riconfi gura e verbalizza all’interno del e in risposta al proprio sistema sociale e culturale di appartenenza.

Il termine “esperienza” è senz’altro al centro di un complesso crocevia di approcci, le cui prime e per certi versi statutarie teorizzazioni si tro- vano nelle opere di William James (1842-1910) e Rudolph Otto (1869- 1937). Prima del xix secolo, l’espressione “esperienza religiosa” era usata soprattutto in senso teologico, intendendo con essa un tratto proprio e caratteristico di una religione già di per sé formata. James (1905) è stato si- curamente tra i primi a interessarsi dell’esperienza religiosa svincolandola da un sistema religioso già dato, soprattutto quello cristiano, per trattarla come fatto autonomo e prettamente umano. Per James, l’esperienza reli- giosa rappresenta un elemento fortemente creativo rispetto al formarsi e al consolidarsi di tradizioni religiose e al loro successivo svilupparsi come sistemi dominanti. Più spostata sul versante teologico, invece, risulta la ri- fl essione di Otto (1917; trad. it. spec. pp. 201-34), che defi nisce l’esperienza del “sacro/santo” come polarità, concentrata in concetti come numinoso o anche mistero, oscillante tra il tremendum e il fascinans; in tale oscilla- zione, l’esperienza religiosa, intesa soprattutto come momento irrazionale e ingovernabile in cui l’individuo si trova preda della totale alterità del sacro/santo, si pone come medium totalmente sui generis e irriducibile a qualsiasi altra esperienza quotidianamente vissuta dall’essere umano. Se il limite della ricerca di James, di natura eminentemente psicologica e fon- data, come tale, in maniera pioneristica sull’uso di test e interviste, sta so- prattutto nella parzialità di uno sguardo derivante, quasi esclusivamente, del panorama religioso tra xix e xx secolo (il libro Th e Varieties of Reli- gious Experience, per espressa dichiarazione dell’autore, intende dare gros-

so risalto alle esperienze di uomini di genio connotate in senso propria- mente qualitativo e come esemplifi cative per la defi nizione dell’esperienza religiosa determinante dal punto di vista storico), quella di Otto risente dei limiti connessi a una esplicita ammissione della completa irriducibilità dell’esperienza religiosa in quanto tale.

L’approccio secondo la csr ha ridisegnato e problematizzato il con- cetto stesso di esperienza religiosa. Il carattere fenomenico dell’esperien- za presenta diverse “qualità” che, nell’insieme, costituiscono il carattere dell’esperienza stessa; queste qualità includono le modalità con cui le cose

appaiono e vengono percepite (cfr. Czachesz, 2017, spec. pp. 143-9). Stati mentali come le percezioni, le sensazioni corporali, le reazioni interiori o le emozioni presentano tratti specifi ci e vengono per questo automatica- mente associati a signifi cati condivisi. Se per alcuni studiosi l’esperienza religiosa in quanto tale è mediata da alcune strutture cerebrali e da alcu- ni meccanismi neuronali specifi ci – per cui la religione sarebbe connessa con il sistema cerebrale preposto all’elaborazione delle informazioni nello spazio extrapersonale, o con alcuni processi neurali che si concretizzano in una riduzione dei meccanismi di intenzionalità (McNamara, 2009) – per altri quello di esperienza religiosa è un concetto eminentemente in- terpretativo e psicologico, per cui il signifi cato religioso non è altro che il prodotto di un processo di attribuzione ex post a dinamiche interne che, di per sé, non presentano alcuna eccezionalità biologico-cognitiva (Taves, 2011).

Al di là di teorie più o meno generali sull’esperienza religiosa, per quan- to concerne le esperienze e i testi visionari, gli studi prodotti nell’ambito della csr, proprio per la loro natura fortemente interdisciplinare, possono senz’altro aff rontare la questione da una prospettiva capace di chiarire i meccanismi fi sici dei fenomeni a essi sottesi, facendo interagire gli studi cognitivi, quelli di neurobiologia e psicologia e quelli di antropologia, so- ciologia e storia culturale. In questo senso, ciò che defi niamo religione, così come le pratiche o le esperienze cosiddette religiose, appaiono spie- gate sulla base di meccanismi cognitivi, biologici o anche neurofi siologici che vanno intesi in un continuum rispetto alle attività umane di azione e rifl essione ritenute non religiose. Ciò che entra in gioco, in maniera pre- ponderante, è quindi proprio l’elemento culturale e/o interpretativo, so- prattutto al livello dei signifi cati che esso evoca, rispetto a meccanismi di cognizione e di funzionamento privi di ogni specifi cità in senso religioso.

Il modello di analisi delle esperienze di contatto con il mondo altro sottese ai testi apocalittici giudaici e protocristiani qui proposto, in so- stanza, si basa sulla defi nizione di un processo dialettico in cui una varietà di tratti cognitivi infl uenza o assume la dimensione di altrettante creazioni culturali, o anche comunicative, provviste di funzioni specifi che nei con- testi in cui appaiono posizionate, capaci di rimodulare o anche innescare esperienze individuali interpretate come di contatto con il mondo altro. Per questo categorie come stato alterato di coscienza e simili vanno sempre e comunque ricondotte ad azioni e a pratiche socialmente riconosciute come capaci di generare esperienze a loro volta manipolabili da parte di

individui che agiscono e comunicano sulla scorta di un quadro culturale condiviso.

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