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Come ho già avuto modo di notare, complessità e stratifi cazione sono elementi che contraddistinguono anche la storia trasmissiva del 4 Esdra, sebbene la tesi prevalente ritenga di poter identifi care, dietro le diff eren-

ti versioni dell’opera, un originale semitico e, dunque, un testo giudaico composto quasi certamente dopo la caduta del tempio di Gerusalemme del 70 d.C. Il testo ci è pervenuto in una pluralità di traduzioni e versioni, molte delle quali dipendenti da una mediazione greca (non sappiamo se singola o doppia, e probabilmente moltiplicatasi addirittura in sei recen- sioni diff erenti), in latino, in siriaco, in etiopico, in arabo, in armeno, in georgiano e in copto, e ciascuna di queste versioni si presenta al suo inter- no con notevoli rimaneggiamenti e riadattamenti17.

Il caso delle diff erenti lingue in cui ci è giunto il 4 Esdra dimostra come anche i processi di traduzione di resoconti visionari, avvenuti tutti in con- testi riconducibili in un modo o nell’altro a credenti in Gesù di epoca tar- doantica e medievale, presentino tracce di reali processi di rimessa in moto visionaria analizzabili sulla lunga durata proprio in quanto generati da un testo utilizzato come fi nestra immaginativa (un testo che letteralmente apre a nuovi adattamenti e a ulteriori interpretazioni); anzi, proprio il pro- cedimento della traduzione testimonia della necessità di tramandare, e al tempo stesso reinventare testi ritenuti autorevoli in funzione di particolari prassi di rivisualizzazione. Per questo non è casuale che nella vera e propria Babele rappresentata dai diff erenti rami di trasmissione del 4 Esdra (un te- sto, come abbiamo visto, presente nella stessa Vulgata e, dunque, dotato di autorevolezza sostanzialmente canonica almeno fi no al Concilio di Trento [1545-63], e che non a caso continuerà a essere incluso nelle versioni della Bibbia stampate anche in seguito, sebbene in appendice ai testi canonici), appaiano interventi che rendono materialmente evidenti quelle che sono a tutti gli eff etti spie di testualizzazione e/o scritturalizzazione sulla lunga durata (cfr. Bergren, 1996).

Per quanto concerne il testo di 4 Esdra della Vulgata, in 7,28 leggiamo «Infatti sarà rivelato il mio fi glio Gesù» (aat i, p. 433), mentre in tutte le versioni orientali la menzione di Gesù è assente ed è attestata solo la frase «Sarà infatti rivelato il mio [fi glio il] Messia», chiaramente il punto di innesco della successiva interpretazione in chiave cristologica (l’etiopico in 7,29 ha «servo», il siriaco «fi glio»).

Una inserzione ancora più illuminante, forse proprio per la natura meno esplicita, si trova nella versione armena di 4 Esdra, 6,1 (Bergren, 1996, p. 111, che dipende da Stone, 1979):

Lui [scil. l’angelo] rispose e mi disse: «L’Altissimo verrà e agirà e insegnerà, ma questo popolo è di dura cervice e incirconciso riguardo a ogni cosa e provvisto di

scarsa fede fi no alla fi ne, per cui il male si abbatterà su di esso». Io risposi: «Come verrà l’Altissimo, o quando è prevista la sua venuta?». E lui disse: «Prima di tutto, egli verrà per poco tempo nelle sembianze di un fi glio d’uomo e insegnerà cose nascoste: ed essi lo disonoreranno e lo respingeranno, compiendo il male. E dopo ciò, aumenteranno gli atti di empietà e lo spirito dell’errore li farà sviare…». Il riferimento è alle vicende dell’incarnazione (Stone, 1990, p. 145) e qui assume le fattezze di una specie di glossa che ricalca espressioni di matrice liturgica. In questa stessa porzione di testo anche le altre versioni presen- tano segni evidenti di rimaneggiamento; l’etiopico, ad esempio, off re un

incipit diverso da quello armeno e abbastanza coincidente con quello la-

tino: «Mi disse: “All’inizio del mondo, attraverso il Figlio dell’uomo ma alla fi ne da me stesso, prima ancora che ci fosse il mondo, che esistessero le porte del mondo […], [già] allora io pensavo a questo”» (4 Esdra, 6, 1-6 = aat i, pp. 423-4).

Non tutti i codici etiopici presentano il riferimento all’essere simil- umano/fi glio dell’uomo, ma la versione siriaca ha «attraverso la mano del fi glio dell’uomo/dell’uomo». Si potrebbe pensare a un sottotesto giudai- co che prende posizione contro l’idea della mediazione nella creazione, con evidente accenno polemico rispetto ad alcune rifl essioni riconducibili al i-ii secolo d.C. in cui degli esseri mediatori rappresentati come Sapienza o Parola (si pensi allo stesso Gesù nella veste di logos) hanno in qualche modo agito nel processo creativo originario (Orlov, 2017, spec. pp. 58, 126, 140-1, 196, 209, 222, 238), polemica che evidentemente le versioni orientali hanno cercato di smussare e che il latino ha invece messo da parte riorga- nizzando il contenuto diversamente.

Oltre a quello del 4 Esdra, un caso di particolare importanza è rappre- sentato dal 3 Baruc. L’opera in greco è tramandata da due manoscritti gre- ci, il British Museum Add. 10073 (fi ne xv-inizio xvi secolo) e il n. 46 del Monastero di Hagia (inizio del xv secolo). Possediamo però una versione dell’apocalisse in slavo, di cui il primo editore, Montague R. James (1897), conosceva un unico testimone, un manoscritto serbo del xv secolo. Sco- perte successive hanno rivelato l’esistenza di almeno dodici manoscritti slavi, classifi cabili in due famiglie, quelli di origine settentrionale o russa, in cui è presente un testo più breve, e quelli meridionali, con un testo più lungo (cfr. Kulik, 2010, pp. 23-6).

La versione slava dipende da un testo greco probabilmente diverso da quello pervenutoci, e almeno la recensione più breve non sembra presen-

tare interventi che piegano in maniera troppo esplicita il senso del reso- conto in relazione alla fi gura di Gesù, nonostante la probabile provenienza da ambienti monastici; diverso il caso del testo slavo più lungo, dove sono presenti inserzioni indubbiamente più ampie18. Ciò nonostante, è proprio la versione greca di 3 Baruc a presentare una sezione in cui appare piut- tosto evidente la rimessa in moto visionaria in qualche modo riferita alla fi gura di Gesù, il capitolo 4 (cfr. aat iii, pp. 213-20).

Ci troviamo in una descrizione di uno dei cieli in cui si vedono una pia- nura e un serpente identifi cato in un drago che divora i corpi di coloro che trascorrono male la vita (cfr. anche infr a, pp. 163, 240-1); il luogo descritto si rivela essere l’Ade, e in questo contesto viene anche mostrato l’albero della caduta, identifi cato chiaramente in una vite (4,8 = ivi, p. 216), idea che ritroviamo anche nell’Apocalisse di Abramo (23) e nella letteratura rab- binica. A questo punto, il testo presenta una digressione in cui si cerca di spiegare il motivo per cui la vite, da albero nefasto, abbia assunto un ruolo così importante. Il motivo viene ravvisato nel fatto che al tempo del dilu- vio Dio ha gettato via dal paradiso un tralcio di vite che, rinvenuto da Noè al riaffi orare della terra, dopo un consulto con esseri mediatori inviati da Dio stesso, è stato piantato insieme ad altre piante. Il motivo per cui Dio decide di permettere la crescita di questo albero è esplicitamente indicato nel prosieguo:

Allora Dio mandò l’angelo Sarasaele, e questi gli disse: «Su, Noè, pianta il tral- cio, poiché così dice il Signore: la sua asprezza sarà trasformata in dolcezza, la sua maledizione si tramuterà in benedizione e il suo frutto diventerà sangue di Dio; e, come per causa sua la stirpe degli uomini fu condannata, così grazie ad esso, per mezzo di Gesù Cristo, l’Emmanuele, gli uomini possono ricevere il segnale di richiamo e l’accesso in paradiso» (4,15 = ivi, p. 218).

Gli elementi riferibili a Gesù sono piuttosto evidenti soprattutto nella porzione di testo in cui si fa riferimento all’interpretazione eucaristica del vino. La versione slava riporta l’episodio di Dio che getta fuori dal paradiso il tralcio di vite rinvenuto da Noè, collegando la narrazione con quanto se- gue in modo sicuramente meno macchinoso ed enfatizzando che la pianta ha continuato a conservare un suo lato oscuro per via dell’uso smodato che alcuni fanno del suo frutto (Kulik, 2010, pp. 187-8). Lo stacco con quan- to riportato in 4,16, dove si riprende a parlare del valore negativo della pianta in quanto strumento di condanna per Adamo, nella versione greca

è senz’altro più evidente, e il confronto con la versione slava permette di considerare tutta la digressione sul valore positivo della vite come il frutto di due aggiunte, una che si focalizza sul possibile signifi cato civilizzatore della pianta e una successiva in cui questo elemento appare chiaramente connesso al valore assunto dal vino nella ritualità cristiana. A ogni modo, la digressione evidenzia in maniera abbastanza netta il procedimento della rimessa in moto visionaria, che utilizza resoconti di contatto diretto con il mondo altro come vere e proprie fi nestre di accesso a nuove esperienze di visualizzazione, i cui lasciti non solo si agganciano a testi trasmessi come autorevoli, ma appaiono come realmente fagocitati all’interno degli stessi processi di scritturalizzazione.

Un ulteriore caso di rimessa in moto visionaria che ha lasciato trac- ce evidenti nella trasmissione sulla lunga durata è sicuramente quello del

Testamento di Levi, uno scritto incluso nei Testamenti dei xii patriarchi.

La collezione, che ha avuto vicende estremamente complesse, ci è giun- ta per via cristiana in tre diverse redazioni, greco, armeno e paleoslavo. Nonostante sia possibile confrontare alcuni elementi inclusi nelle reda- zioni cristiane con excerpta ebraici e aramaici rinvenuti a Qumran e nella Genizah del Cairo, il greco è molto probabilmente la lingua di origine della stragrande maggioranza della raccolta che, come la leggiamo oggi, è senza dubbio riconducibile a mani cristiane (sebbene vi si trovino sezioni molto prossime a un contesto protocristiano o direttamente al giudaismo del periodo precedente).

A livello testuale, la versione greca dei Testamenti dei xii patriarchi è trasmessa da due famiglie di manoscritti, riportanti l’una un testo più bre- ve, l’altra una versione più lunga. I manoscritti più antichi risalgono più o meno al x-xi secolo, per giungere fi no al xvii-xviii; le versioni armena e paleoslava, riconducibili all’xi o al xii secolo, mostrano coincidenze più o meno forti soprattutto con i manoscritti che preservano il testo più lungo, nonostante l’armeno tenda in molti casi a sintetizzarlo. Se il quadro delle diff erenti versioni mette in luce come la genesi della raccolta, così come la leggiamo oggi, vada ricondotta a un processo avvenuto in ambienti cri- stiani che mostrano addentellati molto forti con contesti giudaici tardo- antichi (per cui non è impossibile escludere che del materiale organizzato come parte di una collezione più ampia circolasse già intorno al ii-iii seco- lo d.C.)19, proprio il caso del Testamento di Levi dimostra come l’opera di rimessa in moto visionaria sia avvenuta, almeno nel caso di un resoconto visionario stricto sensu, sulla scorta di veri e propri testi o excerpta testua-

li giudaici piuttosto antichi, ripresi e ampliati come strumenti di innesco per esperienze di contatto con il mondo altro ulteriormente soggette a procedimenti di testualizzazione e/o scritturalizzazione in e per ambienti diversi.

Prima della scoperta dei manoscritti di Qumran, gli studiosi conosce- vano alcuni dei materiali inclusi e riadattati nel Testamento di Levi greco, in particolare due aggiunte greche provenienti dal monte Athos e alcuni frammenti provenienti della Genizah del Cairo (e oggi conservati a Cam- bridge e a Oxford; cfr. aat ii, pp. 529-40). Le scoperte di Qumran hanno ampliato il quadro delle nostre conoscenze, off rendoci la possibilità di leg- gere, sebbene in maniera estremamente frammentaria, un’opera aramaica su Levi che presenta talune coincidenze con passaggi inclusi nel Testamen-

to di Levi greco; l’opera è presente in alcuni frammenti ritrovati nella grot-

ta 1 (1Q21) e nella grotta 4 (4Q213-214), databili rispettivamente alla metà e alla prima metà del i secolo e alla fi ne del ii secolo a.C.20 In particolare, 4Q213, fr. 3, ll. 1-5 presenta coincidenze abbastanza forti con Testamento

di Levi, 8,18-9, 4, tanto che la versione greca sembra quasi una riscrittura

dell’episodio della visita a Isacco, dove per la prima volta la dimensione sacerdotale di Levi emerge in tutta la sua evidenza (l’episodio è raccontato anche in Giubilei 31,1 ss.).

Senza dubbio più generiche appaiono le connessioni tra 4Q213 fr. 5, col. iii, ll. 1-12 e Testamento di Levi, 14,1-8, nonostante in entrambi i passi si faccia riferimento alle empietà commesse dalla discendenza sacerdotale di Levi. Il ramo lungo della tradizione greca coincide con il documento qumranico, oltre che in una serie di topoi escatologici (come i riferimenti alla luna e alle stelle), nel richiamare la fi gura di Enoc che attesta la futura empietà del sacerdozio di Israele21.

Testamento di Levi, 14,2 fa riferimento a Israele che è «puro dall’empie-

tà dei Sommi Sacerdoti»; a questo punto, però, la tradizione manoscritta greca è quasi unanime nell’immettere un riferimento abbastanza esplicito alle vicende della passione di Gesù, aggiungendo una specifi ca rispetto ai sacerdoti empi, «che stendono le mani contro il salvatore del mondo» (ivi, p. 395). L’accenno appare soggetto, almeno in alcuni casi, a ulteriori slargamenti ermeneutici, come avviene ad esempio nel Cod. Gr. Z. 494 (= 331) proveniente dalla Biblioteca nazionale Marciana di Venezia (della metà del xiii secolo; cfr. De Jonge, 1975), che, proprio in riferimento a questo accenno, lo glossa con «profezia sull’unto/su Cristo» (De Jonge

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