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La cosiddetta Appendice di Melchisedec e il cosiddetto Martirio di Isaia

Estremamente discusso rimane, tra gli specialisti, il problema se 2 Enoc ab- bia inglobato al suo interno una vera e propria Appendice di Melchisedec (2 Enoc, 69-73), una narrazione che vede al suo centro la fi gura del mi- sterioso sacerdote di Gen 14,17-24 (cfr. Orlov, 2007, pp. 423-39). Ciò che possiamo trarre da quanto sottolineato fi nora è che porre il problema nei termini di una contrapposizione tra testo unitario e composito, per quan- to concerne le modalità di composizione e/o redazione dei testi apocalit- tici, può essere fuorviante, soprattutto se si accetta l’idea di una complessa fase di testualizzazione che fi nisce con il riverberarsi, quasi inevitabilmen- te, anche nell’oggetto fi nale oramai scritturalizzato.

2 Enoc racconta un viaggio di Enoc al cielo, svolto nel suo ultimo anno

di vita e compiuto sotto la guida di due angeli che lo prendono con sé e lo conducono fi no alla presenza di Jhwh nel settimo cielo. Enoc percorre, uno per uno, tutti i cieli intermedi, e può così vedere il mondo celeste; questo mondo presenta due caratteristiche fondamentali: è la sede dei cor- pi celesti, degli angeli nonché di Dio, ma è anche il luogo dove si svolgerà il giudizio fi nale. Giunto al settimo cielo e passato sotto la guida di angeli superiori, Enoc è portato alla presenza stessa di Dio, che egli può vedere. Dio stesso parla per svelargli il segreto della creazione, ignoto perfi no agli angeli. A questo punto l’arcangelo Vereveil (nome che deriva dall’Uriele menzionato in 1 Enoc) detta a Enoc tutti i segreti della creazione, da cui nascono i 360 libri di Enoc, in cui è contenuto tutto lo scibile. Enoc è riaccompagnato sulla terra, dove potrà rimanere ancora per un mese per insegnare ai fi gli tutto ciò che ha visto nei cieli.

Dopo che Enoc si è allontanato dalla terra, il popolo chiede a Matusa- lemme di assumere il ruolo di sacerdote, che egli accetta. Quando giunge il momento della sua morte, Matusalemme ha un sogno in cui Dio lo invita a trasmettere il suo sacerdozio al nipote Nir, fratello altrimenti ignoto di Noè. Nir ha una moglie, Sofonim, e questa concepisce un bambino gra-

zie al diretto intervento di Dio; il neonato viene alla luce con le insegne sacerdotali ed è già capace di esprimersi compiutamente come un adulto. Nir rinuncia subito al sacerdozio per far posto a questo sacerdote, che sarà «sacerdote dei sacerdoti per sempre». Il bambino, di nome Melchisedec, nasce in concomitanza al diluvio che sta per travolgere anche Nir e la sua stirpe, ed è per questo che l’arcangelo Michele porta il bambino nell’Eden, dove vivrà per sempre.

Come per le sezioni precedenti di 2 Enoc, anche la parte fi nale dedicata a Melchisedec è in linea di massima attestata nelle due diff erenti recen- sioni, testimonianza del fatto che la parte fi nale era già sicuramente par- te integrante dello scritto alla base delle ulteriori rielaborazioni attestate nella successiva tradizione. Nonostante ciò, appare abbastanza chiaro il disegno che governa il racconto: relativizzare il ruolo sacerdotale di Enoc affi ancandogli una fi gura che, sebbene genealogicamente collegata a lui, deve assolvere a prerogative cultuali più marcate rispetto a quelle del suo predecessore. Se Enoc è un mediatore tra il mondo divino e quello umano, nel senso che svela quanto ha visto durante il suo viaggio oltremondano, Melchisedec è un sacerdote inviato da Dio stesso per fondare un culto eterno che sveli l’essenza stessa del vero sacerdozio. Appare, dunque, plau- sibile l’idea di collegare i capitoli fi nali a un tentativo di testualizzazione di uno scritto più o meno associabile alla prima parte dell’attuale 2 Enoc, spostando il focus sulle connessioni tra Enoc, una fi gura che coagula su di sé pretese scribali e profetiche, tratti sacerdotali e addirittura messianici, e Melchisedec, qui assunto come sacerdote inviato direttamente da Jhwh.

È altresì possibile ritenere che la risistemazione di 2 Enoc con l’aggiunta della sezione su Melchisedec vada collegata a una polemica contro talune ri- letture della stessa fi gura portate avanti da alcuni seguaci di Gesù così come le ritroviamo, in una forma più o meno compiuta, nella Lettera agli Ebrei (cfr. Attridge, 2012). Il dato sembra emergere soprattutto da 2 Enoc, 71-72 e dal modo in cui la fi gura di Melchisedec riesce a conciliare la discendenza enochica e il suo essere garante del “vero” sacerdozio. In Eb 7,1-28 il punto di partenza della rifl essione è il racconto di Gen 14,17-24, dove Melchise- dec è detto re di Salem e sacerdote del dio Altissimo. L’autore specifi ca an- che che questo personaggio «è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fi ne di vita», il che lo rende «simile al Figlio di Dio» e «sacerdote in eterno» (Eb 7,3). Sulla base di queste premesse, la lettera può avallare l’idea che Melchisedec sia una fi gura che preannuncia quella di Gesù: Melchisedec è un sacerdote che non aff erisce alla linea di

Levi e di Aronne, per cui egli diventa espressione di una linea sacerdotale che va oltre quella tradizionale; allo stesso modo Gesù, venendo dalla tri- bù di Giuda (della quale «Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio»: Eb 7,14), è sacerdote eterno che è venuto per mutare la legge.

La Lettera agli Ebrei parte da un dato comunque presente nel testo della Genesi (il principale riferimento dell’autore in questa sezione): Mel- chisedec non è dotato di alcuna linea genealogica che possa contribuire a identifi care la sua funzione o il ruolo; è questo l’elemento che lo rende par- ticolarmente adatto a slargamenti e a focalizzazioni in chiave cristologica. La prospettiva del 2 Enoc, in questo quadro, sembra entrare in dialettica con una simile valutazione, dotando Melchisedec di una linea genealogica che, risalendo fi no a Enoc, lo rende espressione di un sacerdozio diretta- mente connesso a uno dei mediatori par excellence tra mondo umano e divino.

Per quanto concerne il resoconto visionario propriamente detto pre- sente in Ascensione di Isaia, 6-11 (cfr. supra, spec. pp. 84-7), abbiamo già ricordato che possediamo due versioni che sembrano trasmettere la sezio- ne come opera autonoma (dunque priva dei capitoli 1-5), una latina nota dall’edizione di De Fantis (cfr. Bettiolo et al., 1995, pp. 211-3), e una pa- leoslava, trasmessa a sua volta da diversi manoscritti; in slavo, inoltre, si conservano alcune profezie ricondotte a Isaia inquadrate in racconti di ascensione celeste, dipendenti proprio dal resoconto di Ascensione di Isaia (ivi, pp. 237-84). Fin dalla sua riscoperta moderna a partire dal 1819, l’A-

scensione di Isaia è apparsa come la fusione di due scritti, uno corrispon-

dente agli attuali capitoli 1-5, in cui si narra l’uccisione di Isaia da parte del re Manasse e del suo profeta Bechira, l’altro corrispondente a 6-11, il resoconto del viaggio ultramondano compiuto da Isaia alla presenza del padre di Manasse, il re Ezechia. L’idea che per molto tempo ha dominato è che la prima parte doveva corrispondere a un testo giudaico incentra- to proprio sull’uccisione di Isaia, mentre la seconda era costituita da uno scritto cristiano, o cristianizzato, interamente incentrato sulla visione avu- ta da Isaia prima della sua uccisione. L’edizione critica del testo pubblicata nel 1995 ha segnato un fondamentale passaggio, mettendo in luce che è piuttosto improbabile ipotizzare, dietro Ascensione di Isaia, 1-5, un testo giudaico preesistente e autonomo, il cosiddetto Martirio di Isaia (cfr. già Pesce, 1984; Norelli, 1994, spec. pp. 35-59).

Lo scritto che oggi compone 1-5 si pone chiaramente come il prosieguo di quanto si ritrova in 6-11, dato che la visione avuta da Isaia nella camera

del re Ezechia sembra essere la causa che conduce il re Manasse e Bechira a condannare a morte il profeta; dal punto di vista letterario, 6-11 off re una narrazione analettica rispetto a 1-5, mentre appare evidente lo stretto col- legamento tra la conclusione (11,41-43) e la prima parte dell’opera. Isaia ha profetizzato a Ezechia che il fi glio Manasse distoglierà tutto Israele dalla fede dei padri, e che lui stesso sarà messo a morte da Manasse, cosa che appunto si verifi ca dopo la morte di Ezechia. Spinto dal suo consigliere Bechira, un profeta samaritano che Isaia ritiene senza mezzi termini un impostore, Manasse fa arrestare e segare in due Isaia. L’autore insiste an- che sul fatto che è il diavolo, qui chiamato Beliar, ad animare Manasse e Bechira nella loro apostasia e in particolare a scatenarli contro Isaia. Beliar è infuriato contro il profeta perché, attraverso la sua visione, questi è stato in grado di svelare l’impostura per la quale egli ha preteso di farsi adorare dagli uomini come il vero Dio.

Come già accennato, Ascensione di Isaia, 6-11 è una analessi che ci riporta al ventesimo anno del regno di Ezechia padre di Manasse. Mentre presiede a una vera e propria liturgia profetica nella casa del re a Gerusalemme, Isaia cade in uno stato di trance durante la quale è portato in visione attraverso il fi rmamento e i sette cieli sino alla dimora di Dio nel settimo cielo. Là egli assiste alla liturgia celeste, guidata da un Cristo preesistente e dall’an- gelo dello Spirito e gli è quindi concesso di assistere alla discesa di Cristo attraverso i cieli e alla sua venuta sulla terra, dove assume forma umana. La fi nzione pseudepigrafi ca legata a un personaggio come Isaia, vissuto molto tempo prima la venuta di Gesù, permette di ripercorrere, come in una sorta di fl ashforward, le vicende di Gesù: nato a Betlemme, egli deve nascondere la sua identità al diavolo; ma costui, mosso dall’invidia per i segni da lui compiuti, lo fa mettere a morte dagli Israeliti. Gesù scende così agli inferi, dove, svelando la gloria che aveva fi no a quel momento nascosta, distrugge l’angelo della morte, gli sottrae i giusti defunti tenuti prigionieri e risale prima sulla terra e poi attraverso i cieli. Solo a questo punto lo spirito di Isaia ritorna sulla terra, per narrare ciò che ha vissuto soltanto al re Ezechia e ai profeti che hanno assistito alla sua uscita dal sé.

Riassumendo i dati ricavabili soprattutto dagli studi di Norelli (spec. 1994, pp. 11-67; cfr. anche infr a, spec. pp. 369-70), emerge che l’Ascensio-

ne di Isaia rappresenta uno scritto protocristiano sorto in alcuni gruppi

della Siria del i-ii secolo d.C. composti in massima parte da profeti (ivi, pp. 235-48). Abbiamo visto come lo scritto si presenti in due sezioni; que- ste rispecchiano due fasi della storia di un gruppo protocristiano che, in

una prima fase, appare interamente fondato sull’autorità profetica e che successivamente sembra invece scavalcare tale forma di legittimazione a vantaggio di forme di autorità di natura istituzionale o anche presbiteriale (ivi, pp. 93-113). In questo quadro, Ascensione di Isaia, 6-11 (o materiale più o meno assimilabile a esso) è quasi certamente il resoconto attorno a cui si coagula tale scontro e che spinge alla successiva aggregazione di 1-5. La parte 6-11 rappresenta, dunque, la più antica e originariamente indipen- dente dell’opera così come trasmessa soprattutto dalla tradizione etiopica, mentre 1-5, che non si fonda su nessun Martirio giudaico preesistente, do- cumenta uno sviluppo ulteriore in cui l’autorità profetico-visionaria in- comincia a vacillare di fronte all’avanzare dei presbiteri e dei vescovi, che per questo hanno necessità di “correggere” o quanto meno di riorientare il contenuto di 6-11, documento ritenuto normativo e fondativo all’interno dello stesso gruppo di riferimento.

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