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Stati alterati di coscienza ed esperienze religiose

In uno scritto visionario di cui ci occuperemo più diff usamente in seguito (cfr. infr a, pp. 112-6, 124-6), il 4 Esdra, vediamo che il personaggio che nel testo parla in prima persona, dopo che ha digiunato e pianto per sette gior- ni, si trova a vivere in una condizione di profonda oppressione e tristezza; solo dopo egli riacquista «lo spirito di intelligenza» (spiritus intellectus) ed è in grado di rivolgere una preghiera all’Altissimo, a cui segue una nuo- va visione dell’angelo che lo ha già visitato la notte precedente e che è stato incaricato di istruirlo (cfr. 5,20-22). Il testo ci mette di fronte una dinami- ca emozionale estremamente complessa, dove alla presenza di meccani- smi che innescano una serie di reazioni emozionali negative – soprattutto dolore e pianto – si sussegue il tentativo di capire ciò che il protagonista delle visioni sta vivendo, tentativo che si scontra con la diffi coltà legata all’impossibilità di carpire tutto ciò che riguarda la dimensione dell’oltre- mondo:

Egli mi disse: “Sei uscito così di mente per Israele? Oppure credi di amarla più di Colui che l’ha creata?” Dissi: “No, signore, ma ho parlato per il dolore, perché le mie reni mi torturano ogni momento, dato che cerco di comprendere le vie dell’Altissimo, e di esplorare il decreto del suo giudizio”. Egli mi disse: “Non puoi”. Dissi: “Perché, o signore? E perché allora sono nato, e perché il grembo di mia madre non è diventato per me un sepolcro, in modo che non vedessi la fatica di Giacobbe, e la stanchezza della stirpe di Israele?”. Egli disse: “Contami coloro che non sono ancora venuti, raccoglimi le gocce disperse, rinverdiscimi i fi ori secchi, aprimi i depositi chiusi e fammi venire fuori i venti che vi sono rinchiusi; oppure mostrami il volto di coloro che non hai mai visto, oppure l’immagine della voce: [solo] allora ti spiegherò quell’enigma che desideri tanto sapere!”. Dissi: “Signo- re e padrone, chi è mai che può sapere queste cose, se non Colui che non abita assieme agli uomini? Io invece, stolto e misero come sono, come potrei dire di quelle cose delle quali tu mi hai chiesto?” Mi disse: “Come non puoi fare nessuna delle cose che sono state dette, così non potrai scoprire il mio giudizio, o il fi ne dell’amore che ho promesso al mio popolo” (4 Esdra 5,33-40 = aat i, pp. 419-21). All’inizio dell’Apocalisse di Giovanni, il protagonista delle visioni, che sappiamo chiamarsi Giovanni, accenna rapidamente alle circostanze bio- grafi che che fanno da cornice alle visioni successivamente descritte nell’o- pera. Giovanni sembra recarsi a Patmos proprio per avere delle visioni e dare così vita al testo che noi conosciamo come l’Apocalisse. Il veggente, nel presentarsi, accenna alla relazione che lo lega ai suoi destinatari come a

un rapporto di fratellanza e a un legame solidale e coesivo, precisando che si tratta di una condivisione di alterazione interiore evidentemente dovuta al fatto che i destinatari, in un modo o nell’altro, sperimentano anch’essi quasi quotidianamente movimenti di contatto diretto con il sovrannatu- rale (thlipsis); in questo quadro, il testo precisa:

Fui in spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce grande, come di tromba, che diceva: Ciò che vedi scrivi in un rotolo e manda alle sette chiese, a Efeso e a Smirne e a Pergamo e a Tiatira e a Sardi e a Filadelfi a e a Laodicea (Ap 1,10-11; trad. it. in Lupieri, 1999, pp. 8-9).

L’espressione egenomēn en (letteralmente “fui in”, “mi trovai”) segnala il passaggio da una condizione mentale a un’altra, mentre la presenza del ter- mine pneuma (“spirito”), in questo contesto, potrebbe derivare dall’impli- cito contrasto con «la sarx, o anche con il sōma o l’anthrōpos ricorrenti in altre espressioni parallele e opposte» (Tripaldi, 2012, pp. 102-3). Ciò che il veggente sta descrivendo, in sostanza, è una sorta di uscita dal proprio sé, un passaggio a uno stato di coscienza non ordinaria, «non condizionata cioè da funzioni, facoltà e fattori caratteristici della vita normale del corpo, che introduce alla visione dell’essere celeste» (ivi, p. 103).

Un caso più o meno analogo si trova nell’Ascensione di Isaia, sebbene non si possa considerare il testo nella sua interezza come un vero e proprio resoconto visionario, dato che questa modalità di relazione con l’oltre- mondo appare in maniera esplicita soltanto nella sezione 6-11, quella in cui un visionario che si nasconde dietro la maschera pseudepigrafi ca di Isaia vive una vera e propria esperienza di trance che lo porta attraverso il fi rmamento e i sette cieli, fi no alla dimora di Dio dove si svolge una litur- gia celeste guidata dal Cristo preesistente e dall’angelo dello spirito8.

In Ascensione di Isaia, 6, il personaggio che parla in prima persona e si identifi ca in Isaia entra da solo nella camera del re dove inizia un colloquio personale con lui, mentre i dignitari, che si sono radunati nell’anticamera regia e che in precedenza hanno accolto il veggente in piedi, si accomo- dano sui loro seggi, insieme a quaranta profeti convenuti anch’essi per l’occasione. Quando Isaia incomincia a profetare, il re fa entrare i profeti e la gente che si trova nelle stanze contigue alla sua, compresi i dignitari, e tutti restano nella stanza fi nché cessa l’estasi di Isaia. Egli siede sul letto del re e si mette a profetare a gran voce. Per indicare la nuova azione del veggente le versioni del resoconto ricorrono tutte all’espressione «parlare

nello spirito» (cfr. 6,10 delle versioni etiopica, latina e slava) e «profeta- re» (cfr. 7,2 delle versioni etiopica, latina e slava)9. La parola profetica di Isaia suscita una reazione immediata negli ascoltatori: essi si pongono in ginocchio e innalzano a Dio un canto di lode per il dono di tale parola. L’esultanza degli astanti non interrompe subito il discorso profetico del veggente, ma solo poco dopo, e abbastanza improvvisamente, alla parola ispirata succedono il silenzio e la vera e propria uscita dal sé. Isaia è rapito in alto e riceve una visione e il fatto divide l’assemblea, per cui, se i qua- ranta profeti si rendono esattamente conto di quanto sta avvenendo, gli altri ritengono che Isaia sia morto (cfr. 6,10-15). Al termine dell’estasi, il veggente espone le rivelazioni che ha ricevuto nel suo contatto diretto con l’oltremondo, ma la comunicazione è riservata a un gruppo abbastan- za ristretto, composto dai profeti, dal re e dai dignitari, a cui sembrerebbe spettare il compito di mettere per iscritto la narrazione stessa (cfr. 8,16-17 della versione etiopica). Come si vede da questi esempi, i testi apocalitti- ci tendono a presentarsi come resoconti di esperienze di contatto con il mondo divino che alcuni mediatori, perlopiù nascosti sotto la maschera pseudepigrafi ca di grandi personaggi del passato giudaico, dichiarano di aver vissuto in prima persona.

Nonostante la forte letterarietà dell’impianto generale, questi testi rendicontano esperienze (che si presentano in forme narrative piuttosto variegate: estasi, viaggi ultramondani, possessione da parte della divinità, dialogo vis-à-vis con il mondo altro ecc.) che sembrano trovare ampio ma- teriale di confronto in molte culture del passato e del presente. John Pilch (1996; 2011) ha sottolineato come in 437 sulle 488 società da lui analizzate (dunque il 90%), di ogni parte del mondo e di ogni epoca, siano attestate forme più o meno istituzionalizzate di quelli che lui interpreta come veri e propri “stati alterati di coscienza” (Altered States of Consciousness, ascs); la percentuale, prosegue Pilch, per il solo mondo mediterraneo sembra atte- starsi all’80%. Eppure, al di là della rilevanza del dato statistico, non va sot- tovalutata la problematicità di un uso indiscriminato, almeno in chiave di ricostruzione storica, del concetto stesso di stato alterato di coscienza10. È noto che con esso si intendono tutti quegli stati mentali, indotti da agenti fi siologici, psicologici o farmacologici, identifi cati dalla persona che li vive o da un osservatore esterno come una “deviazione”, in termini di esperien- za soggettiva dell’attività psicologica, rispetto alle norme dettate dall’espe- rienza soggettiva di questo stesso individuo nello stato di “normalità” (cfr. Ludwig, 1966, ripreso da Dobroruka, 2014, spec. p. 9). Gli stati alterati

di coscienza possono essere volontari, nel caso della meditazione, dell’u- tilizzo di sostanze psicotrope e dell’ipnosi consenziente, oppure indotti o passivi, come il coma in seguito a un trauma, lo stato onirico, i disturbi del sonno, l’ipnosi non consenziente, la deprivazione sensoriale, la reclu- sione in isolamento. Essi includono fenomeni di “uscita” dal corpo (Out-

of-Body Experiences, obes), caratterizzati da una sensazione di separazione

tra il corpo e il sé osservante e da una serie di anomalie rispetto al modo in cui alcuni soggetti si rapportano al proprio stato corporale e al suo po- sizionamento e orientamento nello spazio (cfr. Brugger, Mohr, 2009), ed esperienze di prossimità alla morte (ndes, da Near-Death Experiences), per le quali sono attestate sensazioni di pace ineff abile e assoluta, oltre alla percezione e alla visualizzazione di una serie di elementi piuttosto comuni, come ad esempio la celebre visione del tunnel luminoso, dovuta all’ische- mia retinale (una condizione che insorge in seguito alla riduzione di ossi- geno; cfr. Mobbs, Watt, 2011; Greyson, 2013).

Le percezioni di uscita dal corpo si riferiscono a un gruppo relativamen- te defi nito di processi neurologici, concernenti soprattutto la localizzazio- ne e l’unità del proprio sé e della propria corporeità. Questi implicano alterazioni nelle sensazioni vestibolari come la fl uttuazione, l’elevazione e la rotazione, o anche illusioni visuali rispetto a talune parti del corpo (cfr. Blanke et al., 2004, pp. 243-58). Studi in merito hanno sottolineato che è la giunzione temporoparietale destra (il lato destro del cervello in cui si congiungono i lobi parietali e temporali) a connettere i tre aspetti fondamentali dell’autopercezione, la prospettiva visuale e spaziale, l’au- tocollocazione nello spazio e l’unità spaziale percepita; aree cerebrali vici- ne, inoltre, giocano un ruolo cruciale nella percezione del sé, governando ad esempio la percezione vestibolare (legata all’orientamento spaziale e all’equilibrio), l’integrazione multisensoriale e l’autocoscienza del corpo e delle parti che lo compongono. Tutte queste componenti, se debitamen- te esercitate soprattutto in virtù di particolari forme di autorifl essione o anche di autocollocazione nello spazio, possono condurre a esiti immagi- nativi e percettivi associabili a quelli sperimentati in situazioni di natura strettamente patologica (cfr. Braithwaite et al., 2011).

Lo stesso può dirsi dei fenomeni di prossimità alla morte. Questi im- plicano una notevole varietà di elementi insieme neurologici ed esperien- ziali, e sebbene siano spesso associati alla cosiddetta sindrome di Cotard, una condizione in cui i pazienti, dopo un particolare trauma, o anche in stadi particolarmente avanzati di alcune malattie, credono di essere morti

(Mobbs, Watt, 2011, p. 448), possono venire riattivati in particolari situa- zioni esistenziali e ambientali anche da parte di soggetti che non mostrano alterazioni permanenti di natura patologica (cfr. Facco, Agrillo, 2012).

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