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Qui intendo mostrare, ferme restando le conclusioni parziali a cui sono giunto nel paragrafo precedente, come i resoconti visionari, anche quando sembrano oramai aver assunto le fattezze di scrittura a suo modo canonica, mettano spesso ancora in luce le complesse pratiche di testualizzazione a cui sono stati sottoposti nel corso della loro lunga storia. Ciò si deve principalmente al loro contenuto il più delle volte allusivo, che sfugge a normalizzazioni troppo rigide, funzionando come vera e propria fi nestra immaginativa dal valore psicotropo.

Studi recenti stanno sempre più chiarendo come l’idea che gli antichi avevano della traduzione sia molto diversa dalla nostra; non vi erano quasi mai implicati concetti come fedeltà o letteralità (Bettini, 2012; Prinzival- li, 2019, spec. pp. 131-229). Maurizio Bettini (2012, spec. pp. 239-47), più in particolare, ha sottolineato come il processo avviato con la cosiddetta Bibbia dei lxx, la traduzione in greco della Bibbia ebraica iniziata, secon- do la tradizione, ad Alessandria d’Egitto sotto Tolomeo ii Filadelfo (308- 246 a.C.), segni una netta frattura tra la cultura classica e quella successiva. Se nel mondo greco-romano gli uomini possedevano la parola sulle divini- tà, per cui l’aedo, pur ispirato dalle Muse, conservava una sua autonomia – da cui derivano le molteplici versioni dei racconti sulle divinità – nella Bibbia, invece, Jhwh sembra parlare direttamente agli uomini servendosi dell’instrumentum della scrittura, tanto che tradurre la sua parola ha posto i suoi seguaci di fronte a sfi de e problemi del tutto inediti. Bettini enfa- tizza molto la testimonianza di un documento in greco proveniente dal

milieux alessandrino, la Lettera di Aristea, di datazione abbastanza incerta,

secondo cui i membri più ragguardevoli della comunità giudaica riuniti ad Alessandria d’Egitto alla corte di Tolomeo Filadelfo avrebbero composto una traduzione autorevole, ma non ancora perfetta; nelle versioni succes-

sive del racconto15, attraverso i paradigmi culturali del calco, del rapporto

parentale, della reliquia, si giunge sempre più a una perfetta coincidenza fra le traduzioni dei singoli traduttori, che operano in maniera autonoma l’uno rispetto all’altro, e il testo ebraico originale, coincidenza che san- cisce la natura divina dell’originale e la guida dello spirito nell’opera di trasposizione da una lingua all’altra.

Al di là del racconto con cui la resa in greco della Torah appare legitti- mata – un’operazione mitopoietica che serve a rendere ispirata la versio- ne di un testo fondativo in e per particolari contesti, in primis quello del giudaismo alessandrino, e successivamente l’uso della medesima versione da parte dei seguaci di Gesù – i lxx non si allontanano, e non potrebbe essere altrimenti, dai metodi di traduzione che sono propri della cultura antica. La questione è ben evidente stando alle rifl essioni di Agostino di Ippona (395-430) e Girolamo; se per il primo le discrepanze tra le varie traduzioni della Bibbia hanno valore profetico e nascondono quindi al- legorie, per Girolamo (che traduce a sua volta in latino la Bibbia diretta- mente dall’ebraico) i lxx, vissuti prima di Gesù, hanno espresso in modo impreciso ciò che non potevano conoscere, per cui l’Antico Testamento va letto e, quindi, tradotto alla luce del Nuovo.

Occorre certamente sottolineare come circolassero, nel mondo medi- terraneo antico, varie versioni greche di scritti della Torah e di altri testi successivamente assunti come canonici, in cui entrano inevitabilmente in gioco processi di riadattamento, riscrittura, adeguamento e rimodella- mento, peraltro di testi originali spesso diversi ed estremamente variegati. Per quanto concerne il libro di Daniele, è possibile confrontare diff e- renti riformulazioni greche di uno scritto semitico più antico (la cui pre- coce circolazione è peraltro testimoniata dai frammenti aramaici rinvenuti a Qumran)16. Le versioni greche presentano innanzitutto sezioni, quasi si- curamente autonome in una prima fase, assenti nel testo ebraico e aramai- co approntato in epoca tardoantica (la cosiddetta Masorah, o anche testo masoretico) e che sono state ricucite all’interno del testo tradotto: il salmo di Azaria nella fornace e il cantico dei tre giovani (3,24-90) – entrambi derivati da preesistenti preghiere aramaiche –, la storia di Susanna (13) e i racconti di Bel e del serpente (14), evidenti satire del politeismo. Queste aggiunte, tutte in un modo o nell’altro legate alla resistenza di personaggi perseguitati da non Ebrei, funzionano come vere e proprie apologie per sostenere i Giudei durante la fase di rifondazione del culto di Gerusalem- me in chiave politeistica sotto Antioco iv.

Ma anche il confronto di singoli passi e brani nelle diff erenti versio- ni permette di mostrare come ogni traduzione sia, sempre e comunque, un processo di adattamento e manipolazione che risponde a particolari esigenze. Un caso emblematico è rappresentato da un passaggio di Dn 7. Siamo nell’ambito del famoso sogno di Daniele, in cui si vedono quattro grandi bestie corrispondenti a quattro potenze straniere, quella babilone- se, quella dei Medi, dei Persiani e quella greca. Nel caso dell’ultima bestia, questa presenta dieci corna (7,7), quasi certamente i re della dinastia dei Se- leucidi, tra cui spunta un corno più piccolo (7,8) che abbatte tre delle prime corna, un evidente riferimento all’importanza via via assunta da Antioco iv, assurto al potere dopo essersi sbarazzato di alcuni contendenti scomodi. A questo punto Daniele assiste a una scena in cui vengono collocati troni su cui siedono un vegliardo e una vera e propria corte preposta all’apertura dei libri (7,9-10). La bestia viene uccisa ed è allora che al veggente si mostra un essere simile a un uomo; il vegliardo dà potere, gloria e regno a questo personaggio, un potere eterno che non sarà mai distrutto (7,13-14). La vi- sione è spiegata nel prosieguo: le quattro bestie rappresentano, come già accennato, quattro re che sorgono dalla terra (7,17), mentre l’essere umano allude ai «santi dell’Altissimo» (7,18), evidentemente una promessa di re- staurazione per coloro che rimangono fedeli ai dettami del dio di Israele.

Una questione apparentemente minuta si pone per il mezzo di traspor- to di questo essere simil-umano (Dn 7,13; cfr. Ceriani, 2019, pp. 1120-1; cfr. anche Meadowcroft , 1995, pp. 287-8, 306):

Aramaico (testo masoretico)

lxx Teodozione

Guardando ancora nel- le visioni notturne, ecco apparire, sulle [oppure in concomitanza con le] nubi del cielo, uno, simile a un essere umano […]

Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco ap- parire, sulle nubi del cielo, uno, simile a un fi glio di uomo […]

Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco ap- parire, con le nubi del cielo, uno, simile a un fi glio di uomo […]

Purtroppo le scoperte di Qumran non hanno restituito frammenti di que- sta specifi ca sezione del testo; dobbiamo perciò accontentarci della ver- sione contenuta nel testo masoretico, che però, nella sua veste defi nitiva, è successiva alle versioni greche, per cui non possiamo sapere con assoluta certezza se prima della sua resa greca il testo circolasse in modo diverso o

in versioni più vicine alla successiva trasposizione di Teodozione. A ogni modo, quest’ultima versione, che di norma riporta espressioni che ricalca- no più esplicitamente una struttura linguistica di matrice semitica, appare in questo caso più vicina alla versione preservata nel testo masoretico che non i lxx, e ciò soprattutto per quanto concerne il modo in cui il perso- naggio giunge sulla scena (insieme alle o sulle nubi del cielo?). In aramaico troviamo ‘m, che può signifi care sia “sopra” sia “in concomitanza con”; ciò vuol dire che il testo aramaico lascia aperta, almeno potenzialmente, la possibilità di intendere che l’essere simil-umano giunga in concomitanza

con le nubi del cielo, o comunque insieme a esse. I lxx interpretano tale

indeterminatezza (almeno per noi lettori moderni) optando, stando alme- no alla maggioranza dei manoscritti, per l’idea che l’essere simil-umano (il greco traduce l’espressione aramaica che indica proprio l’essere umano,

bar ‘enash, con huios anthrōpou, letteralmente “fi glio di uomo”) giunga

“sopra” (in greco epi) le nubi del cielo, rileggendo il senso della visione in chiave eminentemente teofanica e individuale, per cui il personaggio che si mostra a Daniele è non solo assimilabile a un vero e proprio essere (semi) divino (la nube, nella tradizione ebraica, è uno dei mezzi con cui Jhwh si manifesta o uno dei mezzi che introducono i suoi inviati), ma è in un certo senso qualcuno che appartiene alla corte celeste, ritenendo di poter colle- gare questo simile a un essere umano all’altro “uomo” che nel capitolo 10 ingaggia una guerra con il principe di Persia, una allusione a un confl itto angelico di tipo cosmico (cfr. 10,12-21).

L’operazione dei lxx sposta inevitabilmente il senso della visione del capitolo 7 verso una più accentuata valenza angelica e cosmica, pur ri- manendo assodata la lettura collettiva fornita nel prosieguo; ma questa collettività, almeno nel testo greco che vede il personaggio venire “sulle” nubi del cielo, sembra per certi versi trasfi gurata in senso angelico, visto che nel capitolo 10 l’essere sovrumano visto da Daniele appare ugualmen- te con sembianze simil-umane. Teodozione, da par suo, pare mantenersi maggiormente sulla linea della concomitanza temporale, utilizzando meta (“con”) per indicare che l’essere simil-umano giunge con le nubi del cielo. Già stando a questo esempio, si comprende come le successive tradizioni cristiane abbiano accordato una sostanziale priorità al testo dei lxx, vista anche l’importanza che l’espressione “(il) fi glio d’/dell’uomo” assumerà nelle molteplici rifl essioni legate all’identità del Gesù umano e/o celeste.

L’espressione “uomo/(il) fi glio di-dell’uomo”, in ebraico ben ’adam, in aramaico bar ‘enash, si trova spessissimo nel libro del profeta Ezechiele, e lì

indica un particolare modo con cui esseri provenienti dall’oltremondo si rivolgono al profeta in quanto persona direttamente connessa al divino o comunque capace di svelarne i misteri più profondi; si tratta di una vera e propria parola chiave che identifi ca lo speciale rapporto che il visionario è in grado di instaurare con l’oltremondo, pur rimanendo assodata la sua ca- ratterizzazione di essere totalmente umano. Daniele, proprio per enfatizza- re la specifi cità di ciò che si mostra nella visione notturna rendicontata nel capitolo 7, sottolinea che, rispetto alle bestie che sono apparse in preceden- za, ciò che si fa avanti nel prosieguo è un qualcosa che assomiglia a un essere umano, con evidente scarto rispetto all’orrore precedente. Tale asimmetria rispecchia la totale diff erenza tra un mondo dominato da esseri malvagi e un futuro che vedrà il completo sovvertimento della situazione attuale, in cui a regnare sarà proprio il popolo che mette in pratica i dettami di Jhwh. Emerge con evidenza la dimensione di vera e propria fi nestra immagi- nativa collegata a un resoconto di natura visionaria, anche in una fase in cui questo appare in via di scritturalizzazione. Le successive discussioni legate all’identifi cazione dell’essere simil-umano della visione di Dn 7, oscillanti spesso tra dimensione collettiva e rilettura in chiave cristologica, saranno condotte proprio tenendo in conto il fatto che questo personaggio giunge sopra o con le nubi del cielo. L’Apocalisse di Giovanni, che rilegge ampia- mente Dn 7 e lo riutilizza per dare corpo al suo particolare resoconto di contatto diretto con il divino, in 1,7 cita abbastanza esplicitamente il pas- so facendo riferimento alla versione che vede il personaggio venire con le nubi, mentre in 14,14, allude a un essere umano seduto su una nube (Lupie- ri, 1999, pp. 8-9, 62-3). Una ulteriore rilettura del passo si trova in un altro scritto protocristiano, la Didaché, una raccolta di norme e insegnamenti riconducibile all’ambiente siriaco della fi ne del i secolo d.C., nella cui parte fi nale (16,8) – un resoconto visionario evidentemente aggiunto per meglio sancire il contenuto precedente – troviamo un’allusione al testo di Dn 7 secondo la versione che vede il Signore (non il “simile” all’essere umano) venire sopra le nubi del cielo (cfr. trad. it. in Simonetti, 2010, pp. 74-5).

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