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La pervasività del modello sciamanico

L’idea che esperienze di contatto con il mondo altro siano sempre e co- munque generate da stati alterati di coscienza molto deve alla tradizio- ne di studi sulle religioni di stampo fenomenologico su quel complesso e controverso fenomeno che è lo sciamanesimo, soprattutto inteso come in- sieme di caratteristiche e funzioni che, combinate insieme, risulterebbero tipiche di un particolare e ben defi nibile specialista religioso (Townsend, 1997, pp. 431-2). Tale modello sembra presupporre, tra le altre cose, una distinzione piuttosto rigida dei ruoli socio religiosi, su cui si fonda la stessa separazione tra le funzioni cosiddette sacerdotali, proprie di un operato- re religioso attivo in contesti istituzionali o altamente istituzionalizzati, e quelle di natura “estatica” o “mistica”, esclusivo appannaggio di fi gure anch’esse di mediazione ma non confi nate ad ambiti di azione specifi ci11.

Il termine “sciamanesimo” oscilla tra varie interpretazioni, da speciali- sta della trance nel corso della quale l’anima abbandona il corpo per intra- prendere ascensioni celesti o discese infernali (in estrema sintesi, la posi- zione di Eliade, 1951), a quella di fi gura capace di elaborare modalità non ordinarie di conoscenza (Comba, 2001). Per lo specifi co della letteratura apocalittica giudaica, Ioan P. Couliano, in una serie di studi espressamen- te dedicati al tema, ha ritenuto di individuare, soprattutto nella prassi e nel motivo del viaggio ultramondano, una radice sciamanica dalla tenace quanto antichissima persistenza, diff usasi nella cultura greca grazie agli Sciti e in quella giudaica in seguito alla ellenizzazione della Palestina (iii- ii secolo a.C.), soprattutto per il tramite di fi gure di iatromanti e guaritori non immuni da rapporti con il platonismo più antico (Couliano, 1989; 1991). Tale visione si è riversata in alcuni studi successivi volti a leggere in chiave sciamanica alcune esperienze documentate nelle varie tradizioni letterarie giudaiche – epifanie, visioni, trance, possessione profetica, viag- gi ultramondani – attribuite a patriarchi, profeti e re come Abramo, Gia- cobbe, Giuseppe, Mosè, Samuele, Isaia, Ezechiele, Enoc, senza tralasciare i successivi sviluppi della merkavah e della letteratura hekhalotica e quelli documentati nei manoscritti di Qumran (cfr. spec. Davila, 2001; Craff ert, 2008)12.

Couliano, pur prendendo le distanze dalla visione dello sciamanesimo di Eliade, e mostrando una maggiore propensione per l’analisi proposta da Carlo Ginzburg (2017)13, ha visto nello sciamanesimo una sorta di struttu- ra culturale attraverso cui connettere momenti storici disparati a un pas- sato antichissimo per non dire originario. Questa posizione, nonostante l’inedita apertura a discipline come le scienze matematiche, fi siche e in- formatiche, nella sostanza non sembra in grado di smarcarsi del tutto da un certo primitivismo assolutistico à la Eliade – riassumibile nella celebre identifi cazione tra sciamanesimo e tecniche (arcaiche) dell’estasi – se non altro per il tentativo di comprendere all’interno dello sciamanesimo un numero di fenomeni ancora più ampio rispetto a quanto non facesse lo stesso Eliade. Rimane, al di là di tutto, nella prospettiva di Coulianu, no- nostante alcune contraddizioni e aporie, la tendenza a valorizzare il ruolo dell’immaginazione nella produzione di taluni sistemi religiosi fondati sulla visione dell’oltremondo, immaginazione che coincide con quella che lo studioso rumeno chiama “quarta dimensione” o iperspazio, in cui val- gono diff erenti e specifi che regole spazio-temporali.

Un uso indiscriminato del termine “sciamanesimo” – quasi come una sorta di «bacchetta da rabdomante»14 – va guardato con sospetto, e ciò per non incorrere in quella visione quasi mitologica con cui soprattutto Eliade, indiscutibilmente uno dei padri fondatori del concetto stesso, ha guardato a esso. Quella di sciamanesimo, in realtà, emerge sempre più come una categoria generalizzante sostanzialmente etnocentrica e intrisa di valutazioni di matrice primordialista, oltre che tendente a una visio- ne della storia sostanzialmente lineare e teleologica (cfr. Ambasciano, 2014).

All’associazione tra sciamanesimo e stati alterati di coscienza sembra soggiacere, in un modo o nell’altro, e nonostante i più recenti affi namenti metodologici che intendono il concetto stesso di sciamanesimo come un insieme stratifi cato di pratiche in cui il corpo è reso veicolo di “extra-ordi- narietà” (Botta, Ferrara, 2017, spec. p. 7), uno dei problemi metodologici fondamentali rispetto a defi nizioni derivanti dalla psicanalisi o anche dalla psicologia che già Claude Lévi-Strauss metteva in luce nel 1950:

È comodo paragonare lo sciamano in trance o il protagonista di una scena di pos- sessione a un nevrotico. Lo abbiamo fatto noi stessi e il parallelo è legittimo nel senso che, nei due tipi di stati, intervengono verosimilmente elementi comuni. Si impongono tuttavia alcune limitazioni: in primo luogo, i nostri psichiatri, posti

di fronti a certi documenti cinematografi ci relativi a certe danze di possessione, si dichiarano incapaci di ricondurre questi comportamenti a una qualunque delle forme di nevrosi che formano l’oggetto abituale delle loro osservazioni. D’altra parte e soprattutto, gli etnografi in contatto con stregoni o con soggetti posseduti abitualmente o occasionalmente, negano che questi individui, sotto tutti gli aspet- ti normali, al di fuori delle circostanze socialmente defi nite in cui si abbandonano alle loro manifestazioni, possano essere considerati come malati. Nelle società in cui hanno luogo sedute di possessione, la possessione è un comportamento aperto a tutti; le sue modalità sono fi ssate dalla tradizione, il suo valore è sanzionato dalla partecipazione collettiva. In nome di che cosa si dovrebbe aff ermare che indivi- dui, che corrispondono alla media del loro gruppo, che sono dotati, negli atti della vita ordinaria, di tutti i loro mezzi intellettuali e fi sici, e che manifestano occa- sionalmente un comportamento signifi cativo e approvato, devono essere trattati come anormali? (Lévi-Strauss, 1950, trad. it. p. xxiii)

L’idea dello stato alterato di coscienza, proprio per la sua applicazione a contesti storico-culturali in cui l’esperienza di accesso al mondo altro non implica una totale sospensione del conoscere e dell’agire sociale, ma semmai ne amplifi ca alcuni tratti inverandoli, permette di fornire una du- plice risposta all’interrogativo evocato da Lévi-Strauss nella parte fi nale del brano riportato: o la trance e la possessione, che una lunga tradizione di studi ha spesso associato ai cosiddetti sciamani, non hanno nulla a che spartire con i comportamenti che, nella nostra società, sono ritenuti di na- tura psicopatologica, oppure vanno ritenuti perfettamente sovrapponibili, ma in questo caso il collegamento con gli stati patologici andrebbe visto come meramente contingente e risultante dalla particolare società in cui si verifi cano.

In quest’ultimo caso, comunque, ci troveremmo di fronte a un ulte- riore bivio: sia che le malattie mentali debbano essere considerate come incidenze sociologiche sul comportamento di individui parzialmente dissociati dal gruppo, sia che si riconosca, in queste persone, la presenza di uno stato patologico di origine fi siologica, ci ritroveremmo comunque di fronte a qualcosa di manipolabile dalla stessa interpretazione sociale e culturale. Il punto sostanziale, secondo Lévi-Strauss, concerne il rapporto tra il singolo, o anche i singoli, e i sistemi culturali in cui questo o questi si trovano a vivere, intesi come sistemi simbolici che agiscono sulla realtà fi sica e sociale e, ancor di più, «le relazioni che intercorrono tra questi due tipi di realtà e quelle che intercorrono tra gli stessi sistemi simbolici» (ivi, p. xxiv).

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