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In un recente studio di Luther Martin (2014, pp. 254-71), si sottolinea come i riti di iniziazione misterica forniscano un chiaro esempio di im- piego di pratiche psicotrope (o, meglio, teletropiche) nell’ambito dell’a- zione propriamente rituale. Sulla base della documentazione archeolo- gica e letteraria, lo studio conclude che questi riti includevano pratiche specifi camente rivolte ad alterare la chimica corporale degli iniziati: l’i- niziazione ai misteri di Eleusi, ad esempio, era preceduta da un periodo preparatorio di digiuno, una privazione corporale che avrebbe dovuto implementare gli eff etti sensori del rito stesso e contribuire alla sua de- fi nitiva riuscita; il digiuno, a sua volta, era interrotto dall’assunzione del

kykeon, una bevanda fermentata. Tutte le tecniche sensorie del rituale nel-

la sua interezza, compresa l’entrata nella grotta e nel telēstērion (la camera dell’iniziazione) e il suono del gong, contribuivano a generare uno stato di confusione cognitiva, di vulnerabilità e di successiva riemersione alla luce (ivi, p. 259).

Come già accennato sopra, considerare le azioni e i riti come vere e proprie attività psicotrope permette di collegare alcuni punti di innesco di natura cognitiva a sistemi socioculturali in cui alcune azioni sono ritenute capaci di modifi care i comportamenti di intere collettività. Certamente non è facile defi nire che cosa sia rito e che cosa no all’interno di specifi - ci contesti culturali; e ciò soprattutto se si pensa agli studi di Catherine M. Bell volti a decostruire la categoria stessa di rito e/o rituale in favore dei processi di ritualizzazione intesi come modi di azione e strategie per la costruzione di una relazione di potere limitata e limitante (Bell, 1992, pp. 7-8). L’approccio secondo la csr alle pratiche rituali permette di rela- tivizzare, o quanto meno di contestualizzare con maggiore circospezione, contrapposizioni eccessivamente rigide rispetto a defi nizioni precostituite. A tal fi ne, appare senza dubbio rilevante la teoria di Harvey Whitehouse (2004) secondo cui le tradizioni defi nibili come religiose di norma ten- dono a svilupparsi o come organizzazioni su larga scala, caratterizzate da

processi di ortodossia e routine rituale (modello dottrinale), o come grup- pi più piccoli e incentrati su pratiche emozionali in cui la sanzione rispetto al loro signifi cato è meno rigida. Le persone che vivono in un particolare contesto storico-sociale sono ovviamente capaci di ricordare credenze e pratiche che defi niscono la propria identità culturale e religiosa; ma queste stesse persone devono anche essere motivate a trasmettere le credenze e le pratiche rituali. Ciò signifi ca che la memoria e la motivazione sono fattori costitutivi cruciali nella trasmissione delle tradizioni cosiddette religiose.

Secondo il primo modello proposto da Whitehouse, defi nito non senza qualche forzatura come “dottrinale”, tale motivazione emerge dal- la creazione di «un regime assai ripetitivo della trasmissione religiosa» (ivi, p. 295), per cui la conoscenza religiosa è codifi cata soprattutto nel- la memoria semantica (il sistema connesso al recupero della conoscenza più in generale). Nell’altro modello, quello “immaginifi co”, di contro, le persone appaiono motivate innanzitutto da pratiche performative meno frequenti e capaci di innescare ricordi piuttosto vividi e duraturi in parti- colare a livello della memoria episodica (il sistema relativo al recupero di determinati eventi vissuti e alla loro relativa manipolazione narrativa e/o memoriale).

Abbiamo visto come la tendenza dei testi visionari giudaici sia quella di inserire, il più delle volte, esperienze di contatto con il mondo altro in ca- nali comunicativo-rituali noti e, in varia misura, appartenenti al territorio dell’istituzionalizzato. Come sottolineato da Roy A. Rappaport (1999), una pratica rituale è defi nibile come ciò che mette in relazione una azio- ne e il suo carattere performativo. Ne consegue che il rappresentare una azione come rituale, o secondo stilemi che ricordano una pratica rituale, signifi ca se non altro postulare la presenza di fruitori che accettano l’in- sieme dei signifi cati presupposti dall’ordine degli eventi rappresentati. Gli studiosi hanno spesso ritenuto, non senza argomenti decisivi, che i rituali profetici e di contatto diretto con il mondo altro siano sempre, almeno a loro modo, pubblici, perché sempre svolti di fronte a collettività più o meno ampie (cfr. Lampe, 2006); questo elemento è evidente almeno per certi testi: nell’Ascensione di Isaia, ad esempio, il processo che conduce il visionario al suo viaggio celeste avviene in parte sotto gli occhi di chi partecipa a una riunione profetica (6,6-17), quindi si può presumere che anche questo momento non si concepisca come qualcosa di esclusivamen- te privato. Qualcosa di simile, nonostante l’assenza del richiamo esplicito al viaggio celeste, sembra riconoscersi in 1 Cor 14,29-33, soprattutto quan-

do si fa menzione delle sedute assembleari che prevedono al loro interno una fase di accesso diretto al mondo. Nella parte fi nale dell’appendice al testo etiopico dell’Apocalisse di Pietro (cfr. ant iii, p. 266, nota 16) è Gesù stesso, o colui che il veggente interpreta come Gesù, a vietare di esporre l’esperienza di contatto con il mondo altro a chiunque, e soprattutto ai peccatori e a coloro che non credono, mentre subito dopo viene chiarito che «il mistero» di quanto rendicontato nel testo non va rivelato se non a persone superiori e dotate di saggezza e che l’esposizione stessa, sottolinea Gesù, è di per sé un mistero nascosto. Evidentemente il testo, almeno nella sua forma attuale, distingue diversi livelli di divulgazione del messaggio, un livello, per così dire, essoterico, e uno esoterico, forse specchio di una stratifi cazione interna al gruppo che sta dietro al testo e che sembra fare riferimento a una scuola composta sia di frequentatori occasionali che di fedelissimi (per la trad. it. cfr. ant iii, pp. 232-3).

Per quanto concerne i resoconti giudaici di contatto diretto con il mon- do altro, quello che possediamo sono, in massima parte, testi in cui la posi- zione del visionario appare sempre e comunque derivazione di un proces- so di rielaborazione memoriale e letteraria in cui si sommano e associano tratti reali e posture autoritative. Non è casuale che, per Ascensione di Isaia, 6 e 11,36-40, Norelli abbia sottolineato quanto in essa contenuto «sia in certa misura frutto di wishful thinking più che di una situazione reale» (in Bettiolo et al., 1995, p. 51: si tratta del racconto dell’estasi di Ascensione di

Isaia, 6 e della relativa appendice in 11,36-40)33. La trattazione in un certo senso classica che sovrappone esperienza e testo, come se il secondo foto- grafasse in maniera esatta la prima, potrebbe sembrare l’unica strada inter- pretativa percorribile. È però possibile sottolineare, a livello generale, che i testi visionari ci mettono davanti sempre e comunque individualità che, attraverso alcuni processi cognitivi riposizionati in e per specifi ci contesti socioculturali – che però, a loro volta, infl uenzano e informano lo stesso aspetto cognitivo – rappresentano o “sono viste” rappresentare le proprie esperienze in aderenza a modelli di azione socialmente condivisi. Questa modalità di resa culturale di fattori cognitivi inevitabilmente diventa uno strumento di azione nel presente e in funzione di determinati scopi. Da qui l’impossibilità di circoscrivere l’azione visionaria come esclusiva di un solo ambito gruppale o del solo giudaismo (o di ciò che defi niamo giudai- smo) del periodo ellenistico-romano. Più che ragionare di gruppi, aspet- to pure rilevante ma non ai fi ni della defi nizione dei processi di innesco dell’esperienza visionaria in quanto tale, credo sia più corretto ragionare

delle relazioni tra il singolo e/o l’individualità che dichiarano di aver avu- to contatti vis-à-vis con il mondo sovrannaturale e le individualità che a loro volta ricompongono, trasmettono e leggono questi stessi resoconti. Siamo di fronte ad agenti capaci di manipolare esperienze per determinati scopi, mettendo a servizio di una particolare religiosità immaginifi ca ele- menti propri della cultura di riferimento; tale manipolazione, a sua volta, è capace di innescare dinamiche di salvaguardia e/o discussione a più largo raggio, a volte a servizio di coloro che appartengono al potere costitutivo, a volte di singoli e/o collettività ai margini della religiosità uffi ciale, ma comunque sempre di membri di élites dominanti o che mostrano pretese in tal senso.

Un processo di questo tipo emerge, non a caso, dagli stessi resoconti pervenutici. Di norma il visionario entra in contatto diretto con il mondo altro da solo34, in alcuni casi in compagnia di qualcun altro35, durante una

riunione o un rituale non si sa bene se direttamente preposti a questo o ad altri scopi36. Ciò non di meno, i testi premono con forza sulla diff usione

che bisogna dare al contenuto dell’esperienza di contatto diretto con il mondo altro37, che va o promulgata a voce38, o anche letta di fronte a col-

lettività più o meno ampie39. Questo presuppone una notevole pluralità di

punti di innesco individuali derivanti da diverse modalità di interazione in un contesto più o meno ritualizzato e capaci di condurre all’esperienza di contatto con il mondo altro, dalla preghiera in solitudine alla cerimonia istituzionalizzata, pluralità che appare incanalata in forme comunicative tramite le quali conferire autorità e, dunque, trasmissibilità a quanto vissu- to dai singoli mediatori, o ingenerare prese di distanza polemica e tentativi di vera e propria sanzione.

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