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Nel dibattito sull’origine e la trasmissione dei testi apocalittici ha per mol- to tempo pesato una visione rigida e a compartimenti stagni dei corpora testuali provenienti dal mondo antico: i testi visionari sarebbero opere giudaiche nella stragrande maggioranza dei casi trasmesse e, come tali, interpolate da seguaci di Gesù oppure interamente riconducibili ad am- bienti ecclesiali tardoantichi (cfr. status quaestionis in Davila, 2005). Se- condo questo approccio, laddove è possibile dimostrarlo per via della pre- senza di testimonianze dirette (provenienti soprattutto dai manoscritti di Qumran), alcuni di questi testi sarebbero stati prima composti nel conte- sto del giudaismo del secondo tempio per poi andare perduti (e per questo noti soltanto per via diretta)26, o per essere in seguito trasmessi e, in parte (anche se non sempre), tradotti, riscritti e/o riadattati esclusivamente tra i gruppi di seguaci di Gesù.

Certamente è ancora in parte sostenibile un’ottica di questo tipo, so- prattutto se si intende fare luce sullo sviluppo dei testi visionari tra giu- daismo del periodo ellenistico-romano e mondo tardoantico, tenendo so- prattutto a mente il progressivo allontanamento del giudaismo rabbinico da scritti in massima parte utilizzati e trasmessi da seguaci di Gesù sempre più infl uenti27; ma va anche sottolineato che una simile valutazione deve mettere da parte eccessive rigidità legate al nostro modo di classifi care i

corpora e i gruppi religiosi dell’epoca, come se il giudaismo e il primo cri-

stianesimo fossero, già tra il i e il ii secolo d.C., due entità separate o se- parabili e come se le persone che si defi nivano Giudei e/o seguaci di Gesù

vivessero in una specie di bolla senza alcun tipo di rapporto con ciò che li circondava.

L’idea di complessi processi di testualizzazione e, quindi, di progres- sivi momenti tendenti a forme più o meno defi nitive di scritturalizza- zione presuppone il fatto che i resoconti visionari che ci sono pervenuti, anche quando esclusivamente riconducibili a trasmissioni ecclesiali tarde, evidenziano al loro interno una lunga e stratifi cata circolazione legata a mondi in cui oralità e scrittura sono espressione, non sempre connesse, di particolari funzioni pratiche. Cercare di piegare testi estremamente mal- leabili e fortemente legati a prassi di testualizzazione altamente incerte (e i cui esiti sono ancora osservabili nelle forme scritturalizzate pervenute) signifi ca rispondere maggiormente alle nostre manie classifi catorie e, spes- so, alle ideologie che vi sono sottese: da un lato ritenere il cristianesimo dei primi secoli una entità perfettamente formata ab ovo, dall’altro avvalorare l’idea che già esistesse un canone del tutto sovrapponibile a quello che si aff ermerà in seguito, una collezione di testi universalmente riconosciuta come tale e in cui sarebbe già di per sé evidente una chiara distinzione tra un dentro e un fuori.

I resoconti visionari ci obbligano a immaginare un mondo in cui per- sone e gruppi si appropriano di materiali tradizionali circolanti in varie forme, in cui si rimodellano pratiche di ascolto e di rilettura di predeces- sori di volta in volta costruiti e indicati come portatori di autorità, e in cui si stigmatizzano abitudini e modalità reinterpretative ritenute dannose, il tutto in un quadro fortemente situazionale e, come tale, legato agli spe- cifi ci contesti culturali e sociali in cui materiali e pratiche di trasmissione si trovano di volta in volta a essere reimpiantati e riutilizzati. In questo modo, emergono ambienti con una vita intertestuale ricca e stratifi cata, in cui si sovrappongono trasmissioni continuamente oscillanti tra inno- vazione e tendenza alla conservazione e si scopre, così, una intima fami- liarità tra vie di conservazione diff erenti (a volte solo orali, altre volte solo scritte, altre volte attraverso entrambi i canali) i cui esiti sono spes- so osservabili anche all’interno delle successive tradizioni tardoantiche (rabbiniche, cristiane e islamiche). Viene anche meno una considerazio- ne essenzialista delle identità religiose tra antichità e tardoantico, che in questo modo appaiono sempre più come costruzioni culturali forgiate in processi di continua interazione e, quindi, come strumenti di autodefi ni- zione di gruppi che negoziano il proprio stare al mondo rispetto a ciò che li circonda.

Abbiamo visto come la cosiddetta Appendice di Melchisedec che chiude il 2 Enoc (cfr. supra, pp. 136-8) o anche la versione del Testamento di Levi inclusa nei Testamenti dei xii patriarchi (cfr. supra, pp. 128-9) mostrino, in maniera abbastanza evidente, complessi processi di testualizzazione in- scindibilmente legati ad ambienti in cui coabitano e interagiscono gruppi e istanze culturali diff erenti ma, al tempo stesso, connessi; abbiamo anche visto come la produzione di veri e propri testi, si pensi al caso dell’Ascen-

sione di Isaia, sia fortemente legata a dinamiche di gruppi contigui che

nel corso della loro esistenza dibattono su temi e problemi tradizionali adattandoli e riformulandoli alla luce delle mutazioni che inevitabilmente attraversano i contesti sociali e culturali di riferimento. Rispetto alle diffi - coltà di classifi cazione di un resoconto visionario, almeno secondo i nostri soliti criteri fondati sull’esistenza di rigide settorializzazioni (giudaismo e/o cristianesimo?), i casi dell’Apocalisse di Pietro e dell’Apocalisse di Elia risultano particolarmente istruttivi.

Per quanto concerne il primo testo, proprio la versione greca contenuta nel Panopolitano dimostra come sia necessario superare categorie assolu- tamente distinte di giudaico, cristiano e pagano o particolari accezioni, in chiave eccessivamente esclusivista, di quelle stesse tassonomie. Il discorso escatologico presente nell’apocalisse pone grande enfasi sul tema della re- surrezione dei corpi, rinviando ad alcuni luoghi della Bibbia ebraica e ad alcuni materiali tradizionali accolti anche nel Vangelo di Matteo; ma alcu- ni concetti (come quelli di ekpyrosis, Acherusion, Elysion) rinviano chiara- mente al contesto culturale e religioso greco-romano.

Il quadro che emerge – confermato dalle fi gure angeliche e dai luoghi di punizione – è dunque composito: l’autore conosce gli scritti che en- treranno a far parte della Bibbia, è sicuramente infl uenzato da materiali tradizionali soprattutto di natura escatologica che ritroviamo anche nel Vangelo di Matteo, esprime particolari idee sui mondi angelici ampiamen- te presenti in resoconti visionari precedenti e coevi ma è, al tempo stesso, condizionato da concetti di chiara provenienza ellenistica, da descrizioni di matrice orfi ca dei luoghi infernali e dalla relativa etica che ne deriva (cfr. Nicklas, 2017; cfr. anche infr a, pp. 184, 255, 368-9).

Per quanto concerne l’Apocalisse di Elia, va sottolineato che il testo è attestato da quattro manoscritti copti e da un frammento papiraceo gre- co tutti incompleti (cfr. aat iii, pp. 114-6; otp i, pp. 728-9), per cui è possibile ricostruire il contenuto della nostra apocalisse solo integrando le diverse testimonianze.

Nonostante le diffi coltà connesse alla ricostruzione di uno stemma che renda conto della storia tradizionale dell’apocalisse, si ha l’impres- sione che i manoscritti copti, come del resto anche il frammento greco, rappresentino diverse recensioni del testo e non diff erenti testimonianze di una Vorlage comune. A ogni modo, la complessa vicenda redazionale e trasmissiva dell’Apocalisse di Elia appare come una ulteriore prova dei pro- cedimenti di rimessa in moto a cui sono sottoposti i resoconti visionari nel corso della loro testualizzazione o della loro successiva scritturalizzazione. Per quanto concerne l’occasione di composizione e/o ricucitura del testo in una sua forma più o meno defi nitiva, nonostante le diffi coltà con- nesse a una sua ricostruzione univoca, una proposta di soluzione è venu- ta da David Frankfurter (1993), secondo cui l’Apocalisse di Elia sarebbe un testo prodotto in alcuni ambienti di seguaci di Gesù attivi nell’Egitto del iii secolo d.C. attingendo a motivi e temi tipici della plurimillenaria tradizione egizia. Ciò non toglie che tale opera di rimessa in moto visio- naria sia stata condotta sulla base di materiale tradizionale circolante in altri ambienti non strettamente riconducibili a seguaci di Gesù ma ugual- mente legati a processi di reinvenzione di fl ussi di trasmissione preesisten- ti. Eusebio di Cesarea ricorda, nella sua Storia ecclesiastica (7,24), come nella regione di Arsinoe si fosse sviluppato, intorno agli anni in cui fu- rono promulgati gli editti di persecuzione di Valeriano (257-58 d.C.), un movimento di seguaci di Gesù dalla forte attesa escatologica, che peraltro avvalorava tale atteggiamento di rifi uto totale del presente in vista di un imminente rivolgimento cosmico, proprio facendo esplicito riferimento alle profezie contenute nell’Apocalisse di Giovanni, sebbene interpretate in senso eminentemente letterale. L’Apocalisse di Elia copta sarebbe una testimonianza piuttosto compiuta di questo cristianesimo egiziano, un cristianesimo peraltro fortemente condannato da taluni vescovi perché ritenuto troppo radicale.

Il testo descrive, con dovizia di particolari, gli eventi che precedono lo scontro fi nale tra l’Unto di Dio e il suo avversario cosmico riadattando e riformulando frasi e immagini che troviamo nell’Apocalisse di Giovanni. Lo stato del testo dell’Apocalisse di Elia, a ogni modo, non sembra favori- re identifi cazioni e ambientazioni troppo nette; certamente l’opera, così come trasmessa in copto, rifl ette una indiscutibile ambientazione egiziana tardoantica, così come è possibile ritenere che la porzione pervenutaci in greco sia riconducibile a riadattamenti avvenuti in gruppi di seguaci di Gesù attivi nella regione di Arsinoe. Lo scritto così come ci è giunto lascia

intravedere un evidente lavoro di ricucitura di materiali di diversa prove- nienza, in cui troviamo associati riferimenti a pratiche di natura corporale come l’investitura profetica (1-2) e il digiuno (12-27) presenti in contesti piuttosto variegati – greco-romani, giudaici e protocristiani – e immagini e clichés descrittivi e narrativi tipici dei resoconti di contatto diretto con il mondo altro giudaici e protocristiani che, a loro volta, riassemblano e rimodellano elementi di provenienza tradizionale piuttosto diff usi (aat iii, pp. 131-3). Va anche detto che, nonostante indizi importanti in questa direzione, il testo copto non sembra mai fare riferimento esplicito alla fi - gura di Gesù (un accenno più chiaro si trova solo in Apocalisse di Elia, 5-6), alludendo invece, in uno sfondo fortemente dualistico, a un inviato celeste che, dopo essersi opposto al suo antagonista noto come “fi glio dell’iniqui- tà”, trionferà dopo aver annientato il nemico e aver compiuto il giudizio fi nale (20-39 = ivi, pp. 153-4).

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