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Milieux paleoslavi e rimesse in moto visionarie

L’universo cristiano che si è espresso in paleoslavo (la lingua usata dai cri- stiani bulgari della Macedonia e successivamente diff usasi in Moravia, nel principato sloveno di Pannonia e poi in Bulgaria) ha trasmesso importanti testi visionari legati a una pseudepigrafi a che chiama in causa autorevoli personaggi della storia ebraica delle origini e che ci sono giunti il più delle volte in versioni che evidenziano una lunga preistoria linguistica e compo- sitiva. Non è chiaramente questa la sede per ripercorrere, anche per sommi capi, le origini e gli sviluppi dei gruppi di seguaci di Gesù impiantati in territori legati alla diff usione della lingua paleoslava. Va però qui segnala- ta la presenza, a partire dal ix-x secolo e almeno fi no al xiii, di gruppi fortemente legati a una teologia di matrice dualista, i cosiddetti bogomili, in cui grande spazio sembrano aver avuto, nonostante la stigmatizzazio- ne e la relativa stereotipizzazione messe in campo da cristiani tendenti ad autodefi nizioni di marca ortodossa, speculazioni di natura angelologica e demonologica, oltre a una forte polemica nei riguardi di forme di ritualità come il battesimo, la celebrazione eucaristica, la confessione, il culto delle immagini e della croce e la venerazione della Vergine. Non stupisce che in simili ambienti testi come quelli visionari, spesso interamente dedicati a descrivere combattimenti tra angeli e demoni, oltre che a mettere nero su bianco la struttura e la costituzione dei regni oltremondani e svelare le identità e i modi di azione degli esseri che li popolano, abbiano avuto un certo ruolo e a loro volta siano stati veri e propri generatori di testi di con- tenuto e tenore affi ni22.

Il 2 Enoc appare come una traduzione in paleoslavo, molto probabil- mente dei secoli x-xi (aat i, p. 498), di un testo greco perduto e del quale non restano altre testimonianze23. Il testo si presenta in due recensioni, una lunga e una breve (ivi, pp. 491-501; otp i, pp. 91-4). Dopo la scoperta e la pubblicazione del maggior numero di manoscritti, gli studiosi hanno in un primo momento ritenuto più antica la recensione lunga, che sarebbe stata successivamente condensata in quella breve. Altri, però, hanno soste- nuto la maggiore antichità della recensione breve, dipendente, a loro dire, da un originale ebraico o aramaico prodotto in Palestina prima della ca- duta del tempio di Gerusalemme intorno al 70 d.C. (cfr. status quaestionis in Böttrich, 2012; Navtanovich, 2012). Francis I. Andersen ha avuto il me- rito di uscire da questa sorta di impasse e porre il problema in una nuova luce. Per Andersen emerge con una certa chiarezza il fatto che ci troviamo

di fronte a diverse recensioni e non a versioni divergenti; ciò implica che va lasciata quanto meno nell’ambito delle possibilità l’idea che alcuni dei passi che si trovano solo nella versione lunga preservino tradizioni più an- tiche, alcune delle quali potrebbero essere contemporanee, o addirittura parte del testo più antico (cfr. otp i, spec. pp. 93-4).

Nel 2009 il problema delle diverse recensioni di 2 Enoc è stato al cen- tro dell’Enoch Seminar svoltosi a Napoli, i cui atti sono stati pubblicati tre anni dopo (Orlov, Boccaccini, 2012). Se alcuni dei partecipanti si sono attenuti alla classica distinzione tra recensione breve e recensione lunga, sottolineando la maggiore antichità ora dell’una, ora dell’altra, la tendenza generale sembra essersi assestata, nella sostanza (ma correggendola in alcu- ni punti), sulla tesi di Andersen. Andrei A. Orlov, più in particolare, sulla base di una accurata analisi dei manoscritti, ha rilevato come la stessa tradi- zione paleoslava in cui il testo ci è giunto mostri notevoli oscillazioni al suo interno. In linea di massima, nel milieux slavo si traducono e si trasmettono testi o tradizioni giudaiche precedenti come parti di collezioni o compendi storiografi ci, morali o liturgici più ampi, in cui materiali ideologicamente marginali e quelli di tipo mainstream si trovano associati. Per quanto con- cerne 2 Enoc, solo un piccolo numero di manoscritti trasmette il testo più o meno completo, mentre gli altri ne off rono uno tagliato o selezioni ampia- mente rielaborate (cfr. Orlov, 2005, pp. 357-8; 2007, pp. 423-39).

Appare piuttosto plausibile ritenere che entrambe le recensioni rap- presentino gli esiti di molteplici interventi di riattivazione visionaria che hanno visto l’inserimento, in alcuni casi, di materiali diversi o il taglio, o anche la vera e propria rielaborazione, in altri, di porzioni di testo. Al di là della questione fi lologica o più generalmente genetica, dunque, rimane che le diff erenze tra le due recensioni sembrano derivare soprattutto da manipolazioni e interventi legati a processi di rivisualizzazione che han- no evidentemente avuto una lunga gestazione e i cui esiti sono osservabili proprio nelle diverse redazioni paleoslave del testo.

Un confronto con l’Apocalisse di Abramo, un altro testo giuntoci sol- tanto in paleoslavo, mostra come questi diff erenti milieux abbiano ma- nipolato e riformulato precedenti fl ussi di trasmissione visionaria utili a costruire o a ricostruire una tradizione più o meno autorevole. Sotto il profi lo linguistico, l’Apocalisse di Abramo si presenta come una traduzione paleoslava di un testo greco, giunta grazie a manoscritti di redazione rus- sa tutti posteriori al 1300 (cfr. aat iii, pp. 69-71; Kulik, 2005, pp. 97-8). L’opera è stata verosimilmente tradotta in Macedonia all’inizio del x se-

colo, come sembrano testimoniare alcuni termini usati nel testo e tipici di questa regione (cfr. aat iii, p. 69). Dalla Macedonia-Bulgaria, l’Apocalisse

di Abramo è stata, come altri testi paleoslavi, portata in Russia, quasi certa-

mente a Novgorod, e non è un caso che i manoscritti mostrino anche tratti linguistici comuni di quest’area (ivi, p. 70).

Il testo completo è conservato in sei manoscritti che si possono distin- guere in due famiglie. Alla prima appartengono due manoscritti, di cui uno completo, che presentano l’Apocalisse di Abramo come un’opera in- dipendente e con un titolo proprio (sebbene comunque accostata ad altre opere). Gli altri manoscritti, riconducibili a una seconda famiglia testuale, inseriscono l’apocalisse nella cosiddetta Paleja Commentata, una raccolta commentata di episodi della Bibbia dedicati ad Abramo con aggiunta di leggende, commenti ed excursus di polemica antigiudaica. In tale contesto narrativo, l’Apocalisse di Abramo appare per certi versi come un comple- tamento delle vicende legate alla giovinezza di Abramo, perdendo la sua autonomia e il relativo titolo per assumere le vesti di una biografi a del pa- triarca; ciò si deve in parte al contenuto della prima parte dell’apocalisse, incentrato sul passato politeistico di Abramo e sulla sua “conversione” al “vero” dio.

Il caso dell’Apocalisse di Abramo testimonia, in modo abbastanza evi- dente, come la tradizione paleoslava si comportasse di fronte a quei fl ussi di trasmissione non dotati di autorevolezza canonica ma evidentemente utili a fornire una sorta di sfondo, spesso competitivo rispetto ad altri modi di leggerle e interpretarle, alle opere successivamente accettate come canoniche; una sorta di oscillazione tra tesaurizzazione e manipolazione, o anche una dialettica continua e costante tra preservazione e modifi ca- zione, ma sempre e comunque rispetto a un testo, o a una serie di materiali testuali oramai ricevuti come tali e, come tali, espressione di una vera e propria scritturalizzazione.

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