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reità e, di conseguenza, su quanto essi riferiscono in seguito all’alterazione del proprio sé.

Il caso più interessante, e per certi versi ovvio, riguarda particolari esperienze di ritualità pubblica e la loro rievocazione in chiave simboli- ca. Il rito o, meglio, le azioni ritualizzate hanno da tempo un importante ruolo nelle teorizzazioni antropologiche e sociologiche sul tempo e sulle costruzioni culturali a esso connesse: Georges Gurvitch (1894-1965), ad esempio, ha visto nelle pratiche rituali un importante strumento di analisi per la sua classifi cazione del tempo “sociale” in otto diff erenti tipologie (tempo durevole o anche di rallentamento di lunga durata, tempo fallace, tempo irregolare legato all’incostanza tra l’apparizione e la scomparsa dei vari impulsi naturali da cui prende le mosse, tempo ciclico, tempo ritar- dato, tempo di alternanza o anche alternato tra ritardo e anticipo, tempo che spinge in avanti, tempo “esplosivo”) e nella relativa considerazione del tempo “ecologico” come forma sociale corrispondente all’ambiente ester- no (Gurvitch, 1964). Maurice Bloch, da par suo, ha sottolineato che se il tempo rituale è ideologicamente orientato e socialmente costruito, quello “mondano” appare fondato su universali cognitivi e sull’osservazione dei processi naturali ed è, quindi, in parte slegato da formulazioni proprie dei contesti sociali (Bloch, 1977).

Negli studi della csr sulle pratiche ritualizzate, le religioni oscillano in una sorta di continuo dinamismo tra modalità di azione “dottrinali”, accomunate da organizzazioni su larga scala che sostengono processi di normalizzazione in chiave ortodossa e di routinizzazione, e “immagini- fi che”, a loro volta caratterizzate da gruppi più piccoli che mettono in pratica azioni fondate sull’eccitazione e sulla compartecipazione emoti- va (White house, 2004; Czachesz, 2017, spec. pp. 62-87; cfr. anche supra, pp. 33-7). In tale quadro, la costruzione del tempo appare strettamente connessa ai diff erenti sistemi memoriali chiamati in causa: quello episo- dico, fondamentale nella codifi cazione delle tradizioni immaginifi che, e quello semantico, centrale nella trasmissione dei modi di religiosità dottri- nali; dunque, nessun dualismo o nessuna polarità, ma semmai modelli di azione che spesso convivono in uno stesso ecosistema e che inevitabilmen- te implicano diff erenti percezioni della temporalità a seconda dei gruppi e degli individui che agiscono in esso.

Tempo e memoria sono elementi strettamente connessi: le persone devono essere capaci di ricordare le azioni ritualizzate che costituiscono una particolare tradizione religiosa e devono essere motivate a trasmetter-

le. Nelle modalità di natura dottrinale, la motivazione si indirizza verso la creazione di un regime trasmissivo altamente ripetitivo, per cui la co- noscenza appare codifi cata soprattutto all’interno del sistema memoriale semantico (quello preposto al recupero del bagaglio cognitivo più genera- le). Nel caso delle modalità di azione immaginifi ca, di contro, i praticanti appaiono motivati dalla messa in atto di rituali che procurano grande ec- citazione ma che, al tempo stesso, si svolgono con minore frequenza o che avvengono in particolari momenti. Qui il sistema memoriale chiamato in causa è quello episodico, connesso al recupero di particolari eventi della vita e, come tale, maggiormente sottoposto a massicci fenomeni di mani- polazione e di reinvenzione discorsive.

Nel caso dei testi visionari, ciò che spesso abbiamo di fronte sono pro- cessi di simbolizzazione che tentano di riprodurre, come in uno specchio opaco, fenomeni di discronia o di sfasamento temporale legati a partico- lari esperienze di natura psicotropa. Tale riproduzione è però inscindibil- mente connessa a un invasivo processo di simbolizzazione, evidentemente legato alle complesse opere di testualizzazione e scritturalizzazione cui sono stati sottoposti questi stessi resoconti. Il concetto di simbolizzazio- ne, in questo quadro, va inteso alla luce della rifl essione condotta da Dan Sperber (1974), secondo cui ciò che chiamiamo simboli non sono altro che particolari forme cognitive che vengono “trattate” simbolicamente, per- ché diffi cilmente compatibili con il nostro consueto modo di ragionare. È quando una proposizione, che proviene da fonti autorizzate o viene inglo- bata nel corpus delle fonti autorevoli, resiste a ogni tentativo di spiegazio- ne secondo il sistema comune di ragionamento che il dispositivo di sim- bolizzazione si attiva; la fi ducia riposta nei meccanismi di autorizzazione impedisce al sistema cognitivo di escludere tutte quelle informazioni non iscrivibili nell’orizzonte di comprensione ordinario e che, come tali, sono memorizzate nello stock delle rappresentazioni simboliche. Il processo di simbolizzazione, pertanto, emerge come una forma di “sigillatura” o come una vera e propria iscrizione cognitiva in un formato diverso, processo che Sperber defi nisce anche con la metafora della messa tra virgolette o della messa in quarantena.

Il simbolo, o i processi di simbolizzazione emergono come una sorta di compensazione a “guasti” cognitivi, come sono ad esempio le percezio- ni temporali sfasate connesse a particolari fenomeni di ritualità o, più in generale, a esperienze di natura psicotropa, per cui il cervello estrae dai propri sistemi memoriali tutte quelle informazioni che, riattivate e rimesse

in moto, il più delle volte in maniera spontanea, provvedono ad aggiustare il tiro e a colmare il gap tra l’extra-ordinario e il consueto o il normativo.

Nei testi apocalittici, esperienze di natura psicotropa si trovano a essere “evocate”, secondo la visuale di Sperber, come risoluzione a un problema interpretativo, alla luce di un universo di senso ritenuto rappresentativo del giudaismo; sia per quanto concerne le esperienze rendicontate da par- ticolari individui che le verbalizzano come contatti diretti con l’oltremon- do, sia per coloro che le hanno messe per iscritto, così come per coloro che le hanno sottoposte a processi di vera e propria testualizzazione e/o scritturalizzazione, i rendiconti visionari si presentano come simbolizza- zioni fondate su evocazioni condivise, che Sperber defi nisce come la “co- lonna vertebrale” simbolica di un gruppo, off erta da tutto un materiale tradizionale (testuale e rituale) rimesso in circolo per dare conto di espe- rienze reinterpretate come di contatto diretto con l’oltremondo. Ciò che ne risulta, per quanto concerne la costruzione temporale, è un modello a spirale, un tempo non rigidamente lineare, che spesso contempla un ritor- no ciclico di momenti critici, o particolarmente sensibili, e, insieme, una tensione verso una fi ne risolutiva dell’intera vicenda cosmica e umana (cfr. Flannery-Dailey, 1999).

Nonostante la letterarietà dell’impianto generale e la complessità delle trasmissioni a cui sono stati sottoposti, i testi apocalittici giudaici e proto- cristiani possono fornire spie capaci di illuminare un aspetto abbastanza comune in quelli che defi niamo come resoconti di contatto diretto con l’oltremondo: la continua oscillazione tra passato, connesso il più delle volte alla rievocazione dell’esperienza vissuta, e la dimensione continuati- va nel presente di ciò che si è sperimentato durante l’esperienza visionaria; o anche quella della contingenza in cui il protagonista rievoca e racconta ciò che ha vissuto. Tali aspetti avvicinano in parte il resoconto del contatto diretto con il divino a una sorta di rievocazione autobiografi ca.

Nel Libro dei vigilanti, a un certo punto, troviamo quanto segue: Io me ne andai e me ne stetti sulle acque di Dan, in Dan che è a destra della regio- ne occidentale di Armon e mi misi a leggere l’appunto della loro preghiera fi no a che mi addormentai. E allora mi venne un sogno, caddero su di me delle visioni ed ebbi la visione del castigo divino da dire ai fi gli del cielo [che] dovevo rimpro- verare (1 Enoc, 13,7-8 = aat i, p. 72).

Il testo pone Enoc, il personaggio a cui vengono messe in carico le visioni, in una dimensione storica primordiale, come d’altronde esplicitato in 1

Enoc, 12,1, in cui è chiaramente detto che «fi n da prima di tutto ciò, Enoc

sparì e non vi era, di tra i fi gli degli uomini, chi sapesse dove si era nasco- sto, dove fosse e che gli fosse successo» (ivi, p. 70); qui si lascia intendere che Enoc è stato rapito in cielo prima di quel peccato angelico a cui pure il testo fa in più di un punto riferimento e che Enoc stesso è chiamato in qualche modo a sanzionare per volere di Jhwh.

La scena di 1 Enoc, 13,7-8 richiama molte audizioni cosiddette profeti- che presenti in materiali confl uiti nella Bibbia ebraica (ad esempio, Ez 1,1 e Dn 10,4-5): Enoc, dopo aver letto l’appunto di preghiera che i vigilanti hanno scritto affi nché lui interceda presso Jhwh (a livello fenomenologico, il testo sembra riecheggiare un’esperienza psicotropa di lettura di un testo considerato autorevole), piomba in un sonno profondo, a cui seguono le visioni, che letteralmente “cadono” sul veggente mentre è in uno stato di incoscienza, visioni che hanno a che vedere con il rimprovero nei confron- ti degli angeli trasgressori.

La versione greca dello stesso passaggio ci mette davanti una dinamica che, proprio per le caratteristiche intrinseche alla lingua greca, può essere utile ai fi ni di questa discussione: il testo riporta «Allora dei sogni venne- ro su di me e visioni cadevano su di me» (1 Enoc, 13,8, nella versione pre- servata dal codice Panopolitano), alternando l’uso dell’aoristo (helthon, «vennero») e quello dell’imperfetto (epepipton, «cadevano»: Black, 1970, p. 27). Il testo, in questo caso, traduce sulla carta una dinamica che vede separarsi il momento del sogno, trattato come punto di innesco ri- spetto alla “caduta” delle visioni, e quello della vera e propria esperienza di contatto diretto con il mondo altro, qui resa come una sorta di fl usso continuo che ha inerenza non solo in un passato oramai defi nitivamente concluso, ma in un presente inteso come “canale di ricaduta” della stessa esperienza vissuta in precedenza.

Un’ulteriore spia della dinamica temporale connessa al contatto diret- to con l’oltremondo è ravvisabile nell’espressione kai idou (letteralmente “ed ecco”) che ritroviamo spessissimo in resoconti di questo tipo1. Quasi per nulla presente nel greco classico, si tratta di una formula che ripro- duce una espressione semitica dal signifi cato più o meno corrispondente (wehinnēh, usata per attirare l’attenzione su qualcosa degno di nota)2, e che in greco assume una coloritura più espressamente legata all’idea del vedere (si tratta, forse, di una forma dell’imperativo aoristo del verbo horao, “ve- dere”; come è noto, l’imperativo aoristo, in greco, indica un valore aspetti- vo dell’azione, legato a un particolare momento).

L’espressione introduce, di norma, qualcosa che deve catalizzare l’at- tenzione oppure segnala un punto in cui l’ascoltatore e/o il lettore devono stare particolarmente attenti; nel caso dei resoconti apocalittici, essa cerca di tradurre il momento durante il quale si para davanti al visionario qual- cosa di inatteso ed extra-ordinario, momento vissuto nel passato ma di cui si cerca di trasmettere l’eccezionalità rispetto a coloro che, in particolari

hic et nunc, ascoltano e/o leggono lo stesso resoconto visionario.

Maschere enochiche: dal presente ai primordi,

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