Un meccanismo che tenta di far fronte a uno shock emotivo dovuto a un evento avvertito come realmente catastrofi co, per reindirizzarlo in un par- ticolare universo di senso, si intravede nella letteratura visionaria giudaica sorta in seguito alla caduta del tempio di Gerusalemme intorno al 70 d.C., dove la pretesa di rivestire i panni di personaggi del passato di Israele che incarnano una particolare idea di adesione alla Torah trova una sua forte e ulteriore simbolizzazione.
Baruc è il segretario di Geremia testimone della caduta di Gerusalem- me per mano dei Babilonesi del 587 a.C., mentre Esdra è uno dei prota- gonisti della restaurazione al ritorno dall’esilio grazie all’intervento dei Persiani; a queste fi gure sono ricondotte alcuni resoconti visionari in cui il parallelismo tra distruzioni passate e quella presente appare nelle sue complesse sfaccettature. Abbiamo già visto che sotto il nome di Baruc sono pervenute due apocalissi, una in siriaco (2 Baruc) e un’altra in greco (3 Baruc; come già ricordato, di questa possediamo anche una versione paleoslava); Esdra, a cui sono ricondotti numerosi scritti, è indicato come l’autore di un’opera conservata in latino e in numerose altre versioni nota con il titolo di 4 Esdra; anche l’Apocalisse di Abramo (ricordata anche poc’anzi) sembra appartenere allo stesso periodo, ma qui appare assente il collegamento con un evento di distruzione del passato ritenuto speculare a quello presente e che funge da specchio in cui si rifl ette un hic et nunc che, proprio per il fatto di “essere osservato” da un punto indietro nel tem- po, risulta come una sorta di contingenza proiettabile in una dimensione futura e risolutiva.
2 Baruc appare come opera complessa e strutturata solo in un mano-
scritto siriaco della Bibbia ebraica scoperto nel 1886 dal curatore della Bi- blioteca ambrosiana di Milano Antonio M. Ceriani (1828-1907; cfr. Ce- riani, 1871)7. Si tratta di uno scritto che procede tornando ripetutamente
sugli stessi argomenti e il cui fi lo conduttore si sviluppa attraverso una serie di dialoghi e visioni, alternati ai digiuni di Baruc, della durata di sette gior- ni, e alle istruzioni che questi rivolge al popolo. Nonostante la circolarità, il contenuto appare interamente fondato sulla necessità di capire il per- ché della rovina del tempio, che si concretizza in una struttura letteraria che tende a rievocare, sebbene in forma altamente simbolizzata, pratiche di lamentazione pubblica connesse proprio alla rievocazione della caduta dell’edifi cio.
L’incipit del testo vede Dio annunciare a Baruc la presa e l’incendio di Gerusalemme da parte dei Caldei8 come conseguenza delle trasgressioni del popolo. Jhwh ordina a Baruc di abbandonare la città, insieme a Gere- mia e ad altri giusti, poiché la loro stessa presenza la sta proteggendo dalla rovina che sta per piombare su di essa. Il testo narra poi l’invasione dei Caldei e la distruzione del tempio, che Baruc contempla in visione: egli addirittura vede gli angeli abbattere le mura dopo che gli oggetti santi del tempio sono stati messi a riparo in modo che i pagani possano entrare in esso. Il libro si chiude con due lettere, una inviata tramite messaggeri ai Giudei che stanno in Babilonia, l’altra tramite un’aquila alle nove tribù e mezzo al di là dell’Eufrate (76-87).
Un altro scritto legato alla maschera pseudepigrafi ca di Baruc è, come abbiamo detto, il 3 Baruc. Il protagonista racconta che, mentre piange per la distruzione di Gerusalemme, un angelo lo invita a non disperare per le sorti della città e a prestare attenzione ai misteri che di lì a poco gli saranno rivelati nel corso di un viaggio attraverso i cinque cieli (3 Baruc, 1,3-8). Nel terzo cielo (4-9) Baruc vede un serpente di dimensioni enormi che inghiot- te i malvagi e un mostro, identifi cato con l’Ade, molto simile al serpente. Baruc domanda allora dell’albero che ha fatto cadere Adamo, ma l’angelo gli risponde che si tratta di una vite: Dio, dopo il diluvio, ha ordinato a Noè di ripiantare la vite (cfr. Gen 9,20) affi nché diventasse uno strumento di salvezza. Nel quarto cielo il protagonista vede la sorte dei giusti, rappresen- tati come grandi uccelli che cantano intorno a un lago (10) e nel prosieguo viene trasportato presso la porta del quinto cielo, che non gli è consentito oltrepassare, dove vede l’arcistratega Michele avvicinarsi con un vaso gran- de come l’universo in cui sono raccolti i meriti dei giusti, che, come fi ori, vengono trasportati in ceste dagli angeli. Al termine della visione, la porta del quinto cielo si chiude e Baruc ritorna sulla terra, dove innalza una lode al Signore per averlo ritenuto degno di vedere tali cose, mentre invita quan- ti lo ascoltano a unirsi alla sua lode (17).
Il 4 Esdra si compone di tre dialoghi tra Esdra e il Signore o un angelo che si svolgono dopo la presa di Gerusalemme in casa di Esdra, tre visioni ambientate in un campo e una rivelazione fi nale. I dialoghi sono preceduti da preghiere e digiuni (4 Esdra, 5,20; 6,35), mentre le visioni sono suc- cessive al recarsi del protagonista in un campo, dove si nutre di erbe e di fi ori (9,24; 12,51). All’inizio dell’apocalisse troviamo, a mo’ di sintesi del contenuto dell’intero resoconto, una preghiera di Esdra, in forma di la- mento, che riassume la storia passata di Israele fi no all’esilio di Babilonia;
Esdra arriva alla conclusione che il popolo ha peccato perché il suo cuore è cattivo come quello di Adamo e che Dio, pur avendogli dato la legge, non gli ha convertito il cuore (3,18-22). Eppure, continua Esdra, è incompren- sibile la ragione per cui Dio abbia consegnato Israele a un popolo ancor più malvagio (3,31). L’angelo Uriele gli risponde che non può pretendere di conoscere i disegni di Dio, insondabili per l’uomo: giungerà il tempo in cui il male sarà sradicato, ma solo quando sarà completo il numero di colo- ro che devono nascere. Questo momento è stato stabilito da Dio e sta per giungere e i segni della sua venuta saranno un incremento dell’ingiustizia, quale non si è mai visto prima, e lo sconvolgimento degli astri e della na- tura (4,37-5,12). L’età futura giungerà dopo l’avvento del messia, che vivrà quattrocento anni con i giusti per poi morire insieme a tutti gli uomini, evento a cui seguiranno sette giorni di silenzio primordiale e la fi ne dell’età corruttibile, nella quale i morti risorgeranno e avverrà il giudizio (7,26-43), in cui pochi si salveranno (8,1-9,22).
Esdra è quindi invitato a recarsi in un campo aperto, dove si nutrirà solo di fi ori, nell’attesa di nuove rivelazioni (9,23-26). Le successive visio- ni sembrano rivisualizzare, e ulteriormente simbolizzare il contenuto dei precedenti dialoghi. Specialmente la prima (9,27-10,60) mostra una donna venire al campo per piangere la perdita dell’unico fi glio – concepito dopo molti anni di sterilità – morto nel giorno delle sue nozze. Esdra la rimpro- vera per le lacrime versate e lei si trasforma allora in una città gloriosa che l’angelo interpreta come la città di Sion, mentre gli anni di sterilità sono i 3.000 anni trascorsi senza che in essa venisse celebrato il culto; il fi glio è il tempio, ora distrutto, e la città è la nuova Sion nel suo splendore futuro, che il Signore ha voluto mostrare a Esdra a motivo del dolore che egli pro- va per la rovina della città terrena.
In tutti e tre i testi menzionati, il disordine nella narrazione – che co- munque risulta fortemente impregnata di immagini, frammenti o episodi di derivazione biblica – lascia intravedere compilazioni di materiali varie- gati ma tutti, in un modo o nell’altro, riuniti all’interno di un “organismo” letterario unitario. Le apocalissi sono ambientate durante o fanno riferi- mento alla distruzione di Gerusalemme del vi secolo a.C., enfatizzando lo smarrimento derivante da un evento ricordato come profondamente traumatico e, per questo, capace di dare conto di una fase storica ritenuta speculare. In tutti e tre i testi, inoltre, troviamo frammenti letterari come il dialogo profetico, la preghiera, la lamentazione collettiva e il sogno, ri- cuciti sotto l’autorità di una maschera pseudepigrafi ca di un personaggio
del passato in un modo o nell’altro connesso all’attività scribale e vissuto durante il periodo esilico e/o postesilico (Esdra è colui che avrebbe ricon- dotto la Torah a Gerusalemme in una fase successiva all’esilio babilonese, mentre Baruc è il segretario del profeta dell’esilio babilonese Geremia). Nella loro forma fi nale, le apocalissi qui richiamate sono documenti re- dazionali, compilazioni che hanno evidentemente assorbito e riunifi cato materiale preesistente, e forse, almeno in alcuni casi, addirittura coinci- dente (da qui i forti paralleli letterari soprattutto tra il 2 Baruc e il 4 Esdra, nonostante i tentativi, piuttosto vani, di defi nire un rapporto di fi liazione diretta).
Tra questi materiali, la ripresa più o meno diretta di prassi di lamen- to collettivo ritualizzate hanno una fondamentale ripercussione nella co- struzione della temporalità propria dei tre testi. È stato osservato (Lourié, 2014) che soprattutto 2 Baruc e 4 Esdra off rono una serie di rivelazioni seguite da un periodo di 40 giorni di insegnamento (2 Baruc, 76,4) o di (ri)scrittura di libri (4 Esdra, 14). Il numero dei giorni che intercorrono tra le visioni è sempre esplicitato, e quindi entrambi gli scritti sono in- tervallati da sequenze di giorni che diffi cilmente possono apparire casuali (cfr. Van Goudoever, 1959; Bogaert, 1969, vol. i, pp. 163-9).
La presenza di rituali di lamentazione e/o espiazione collettiva nel
4 Esdra è stata notata da Daniel Boyarin (1972-73), mentre Lorenzo Di-
Tommaso (2012) ha chiaramente messo in luce il parallelismo tra le preghie- re penitenziali del 4 Esdra e quelle del 2 Baruc (spec. 58 e 54). È stato altresì rilevato una sorta di processo di assimilazione tra festività diverse, la Pasqua, la Pentecoste, la festa del vino nuovo e lo Yom Kippur, più o meno confron- tabile con quanto avviene nella Lettera agli Ebrei, secondo cui nella mor- te di Cristo si vedrebbe realizzato il valore espiatorio delle feste di Pasqua, Pentecoste e Yom Kippur; nel 3 Baruc e nell’Apocalisse di Abramo, inoltre, emergerebbe un ulteriore esito in questo processo di livellamento, dato che nel primo testo elementi in vario modo riconducibili alla festa del vino nuo- vo appaiono connessi al giudizio fi nale, mentre nel secondo lo Yom Kippur sembra coincidere proprio con il giorno della festa (cfr. Lourié, 2014).
Va anche sottolineato che 2, 3 Baruc e 4 Esdra mostrano notevoli coin- cidenze, ma anche forti diff erenze, con i testi delle Lamentazioni, la cui versione greca ha rappresentato, per alcuni ambienti rabbinici del ii se- colo d.C., uno strumento di notevole importanza con cui arginare una certa teologia della catastrofe serpeggiante in alcuni ambienti giudaici (Alexander, 2008, pp. 73-5). Non è un caso che l’unico manoscritto che
tramanda il 2 Baruc insieme al testo siriaco della Bibbia ebraica, il Codex
Ambrosianus B. 21 inf., preservi traduzioni – sempre in siriaco – di tre
scritti in un modo o nell’altro connessi alla catastrofe del 70, appunto il
2 Baruc, il 4 Esdra e il libro vi della Guerra giudaica di Flavio Giuseppe,
riuniti come in una sorta di collezione che potrebbe rifl ettere gli usi di ambienti giudaici e protocristiani precedenti proprio per commemorare gli eventi della distruzione del tempio. D’altronde, che il libro delle La-
mentazioni e quello di Baruc (molto probabilmente proprio il 2 Baruc o
ulteriori materiali visionari connessi alla fi gura del segretario di Geremia) venissero letti insieme per rievocare la caduta di Gerusalemme sotto i Ba- bilonesi, comunque intesa come vero e proprio momento topico attraver- so cui collegarsi anche a successivi momenti critici, è attestato nelle Costi-
tuzioni apostoliche (5,20), uno scritto databile tra il 350 e il 380 ca. d.C. e
riconducibile a gruppi di seguaci di Gesù che mostrano ancora forti tan- genze con ambienti giudaici.
Nelle società “tradizionali”, la manifestazione del dolore è una prassi routinizzata guidata da professionisti che possono spesso non avere alcun interesse personale per l’oggetto che costituisce lo specifi co del lamento stesso, e questo evidenzia soprattutto la dimensione performativa della pratica; per cui anche le prassi di commemorazione presupposte negli scritti apocalittici post-70, atti di forte costernazione collettiva per un evento luttuoso come la caduta del tempio di Gerusalemme, avranno avu- to una forte dimensione performativa. In questo quadro, proprio la per-
formance del lamento collettivo appare capace di innescare processi di ri-
fl essione ex post che, partendo dalla routinizzazione, generano a loro volta riproposizioni realmente ossessive che in un modo o nell’altro tentano di riposizionare ricordi che vogliano in qualche maniera recuperare l’eccen- tricità della stessa prassi ritualizzata.
Mettere in atto prassi associate al lamento, e quindi azioni ritenu- te altamente signifi cative a livello religioso e/o tradizionale e che spesso implicano stati di forte autoumiliazione o di autocolpevolizzazione, può predisporre a esperienze di diminuzione del proprio sé e della propria cor- poreità (cfr. Harkins, 2016). Se simili processi sono sostanzialmente so- vrapponibili agli stati di stress emotivo legati alla perdita di un caro o a un evento particolarmente traumatico, proprio la dimensione pubblica del rituale inevitabilmente innesca anche un meccanismo di uscita dall’auto- diminuzione o di risoluzione, che trova espressione in una sorta di proces- so di “morte e rinascita” sancito tradizionalmente, in quanto realmente
analogo, o sostanzialmente sovrapponibile, a eventi che ripropongono quello stesso processo.
Gli aspetti performativi del lamento pubblico, che nel contesto del giudaismo post-70 si riallacciano a passati ritenuti particolarmente em- blematici, sono evidenti nell’associazione tra discorso in prima persona, che fa da specchio alla situazione presente, e l’attribuzione della rievo- cazione a una maschera pseudepigrafi ca vissuta proprio in quel passato ritenuto speculare allo shock attuale; allo stesso modo, allusioni a feno- meni di prostrazione per la situazione presente vengono, per così dire, ricodifi cati grazie a esperienze aff ettive che si ritrovano in contesti tradi- zionali ritenuti autorevoli. In tale riproposizione, pratiche, esperienze e parole passate che parlano e agiscono hic et nunc diventano motori capaci di generare e/o riformulare una concezione del tempo che iscrive l’indi- viduo in una sorta di prisma che, dal passato, si congiunge direttamente alla risoluzione, che dovrebbe essere sancita dalla messa in atto del rituale collettivo.