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Perché i seguaci di Gesù hanno scritto delle apocalissi?

Sia l’Apocalisse di Giovanni che il Pastore di Erma, come anche l’Ascensio-

ne di Isaia e l’Apocalisse di Pietro, vanno collocate, nella loro redazione più

o meno defi nitiva, tra la fi ne del i e il ii secolo d.C., per cui è ragionevole ritenere che, subito dopo la morte di Gesù, una delle principali “vie di fuga” rispetto a tale evento traumatico – l’idea di un imminente ritorno del leader – abbia reso particolarmente evanescenti le forme di tesauriz- zazione delle esperienze di contatto diretto con l’oltremondo vissute dai suoi seguaci.

Negli scritti prodotti dai primi seguaci si trovano molte aff ermazioni sul ritorno di Gesù alla fi ne dei tempi, un evidente portato della trasfor- mazione a cui sono stati sottoposti alcuni ricordi legati a parole e detti variamente riconducibili a lui. Dopo la morte di Gesù, i seguaci hanno continuato a credere che il regno sarebbe arrivato e che in questo evento Gesù avrebbe avuto una funzione di primo piano. L’idea del ritorno di un Gesù plenipotenziario o aff erente ormai alla dimensione celeste deve essere stata teorizzata molto presto e non doveva apparire come un qual- cosa di estraneo rispetto alla cultura giudaica del tempo ma, semmai, come una particolare rideclinazione di elementi propri di quella stessa cultura legata a specifi che esperienze religiose individuali vissute da particolari agenti aff erenti all’universo giudaico e capaci di rendere particolarmente appetibili – all’interno dei rispettivi contesti di riferimento – tali ridecli- nazioni culturali della propria religione vissuta (cfr. Rüpke, 2016, trad. it. spec. pp. 209-58).

1 Ts 4,15-17 testimonia innanzitutto della ripresa e del riadattamento, nel contesto occasionale della lettera, di un immaginario di tipo visionario e legato a esperienze di contatto diretto con il mondo divino in cui Gesù assume una assoluta centralità12. Molti scritti dei credenti in Gesù fanno luce su riposizionamenti e riattualizzazioni di dialoghi svoltisi durante le cosiddette apparizioni del Gesù risorto, che proprio Paolo testimonia es- sere stata una modalità di relazione tra Gesù e i suoi seguaci abbastanza frequente già alla metà del i secolo. Si osserva, nei vari racconti delle ap- parizioni, una struttura abbastanza standardizzata: il dubbio e la dispera-

zione dei discepoli, una fi gura che appare ma che non è immediatamente riconosciuta, l’aff ermazione dell’esistenza che continua e del carattere ol- tremondano dell’essere apparso.

Questo schema ricorrente – che va ben oltre quelli che si possono con- siderare come meri paralleli letterari e che evidentemente ripropone i trat- ti di esperienze di natura psicotropa vissute e culturalizzate in vario modo da diversi agenti culturali – si riallaccia a casi di apparizione presenti nella letteratura greca e nella stessa Bibbia ebraica: Apollonio di Tiana, Romo- lo, Aristea di Proconneso, Cleomede di Astupalea, Pellegrino Proteo e al- tri theioi andres, o uomini divini (la vicinanza nello schema del racconto è piuttosto evidente soprattutto per la storia di Emmaus; cfr. Lc 24,13-53), ma anche elementi propri delle teofanie bibliche, come l’iniziativa inatte- sa e la chiamata di Jhwh, le promesse a un singolo individuo e al popolo, nonché la conseguente missione o compito sia per l’individuo che per il popolo (Gen 18; Es 3; Gdc 5,13; Tb 5,12) o anche quelle legate al ritorno di personaggi autorevoli della tradizione non morti ma rapiti da Dio stesso direttamente in cielo (i casi di Enoc ed Elia).

In 1 Cor 15,5-8 Paolo racconta che, dopo la sua morte, Gesù sarebbe ap- parso diverse volte: a Cefa, ai Dodici, a cinquecento persone riunite insie- me, a Giacomo, a tutti gli apostoli e anche a lui. Simili esperienze singole o collettive sono quasi certamente la conseguenza di azioni ritualizzate di natura psicotropa e hanno molto probabilmente portato a mettere insie- me e a trasmettere soprattutto raccolte di testimonia e veri e propri fl ori- legi in cui si riteneva di intravedere riferimenti all’imminente ritorno del

leader, sebbene in altra forma rispetto a quella storica o terrena13. Le stesse apparizioni, in un simile contesto, potevano talvolta essere interpretate come anticipazioni del secondo e defi nitivo ritorno di Gesù: l’invocazione «Vieni, Signore Gesù!» attestata in 1 Cor 16,22, Ap 22,20 e Didaché, 10,6 – nonostante i riadattamenti funzionali cui è stata sottoposta14 – testimo- nia proprio di questa ambiguità di fondo, un invito al Signore a giungere per compiere la fi ne del tempo prettamente umano ma anche una sorta di ripetizione collettiva, di natura sostanzialmente psicotropa, che doveva innescare contatti diretti con l’oltremondo a loro volta ricordati e rimessi in circolo come visioni dirette di Gesù che anticipavano, in qualche modo, la sua venuta ultima.

Con il passare del tempo, l’idea di una imminenza del ritorno fi nale di Gesù si è però andata via via affi evolendo. Il Vangelo di Luca pensa che «la venuta del regno sia certa, ma non imminente» (Bovon, 1991-2001, trad.

it. vol. ii, p. 885) e polemizza con chi crede che Gesù attendesse “subito” la venuta del regno al momento dell’ingresso a Gerusalemme (Lc 19,11). La polemica di Luca dimostra che questa attesa era stata rilevante tra i seguaci di Gesù. È probabile che i credenti di Gesù della seconda e terza genera- zione non avessero a disposizione delle parole chiare del loro leader sul ritardo del regno, per cui gli scritti che iniziano a formarsi in maniera più o meno compiuta ricorrono soprattutto alle raccolte di testimonia profetici o a resoconti, piuttosto scarni, di esperienze di contatto diretto con Gesù, reinterpretandoli e riformulandoli per dare conto di questo fondamentale scarto tra necessità dell’imminenza e inevitabile ritardo del suo ritorno nella gloria. Da qui la posizione che troviamo, ad esempio, in At 1,7, dove l’attesa del regno non è più l’oggetto principale, per cui i discepoli devo- no occuparsi dei tempi che «il Padre ha riservato alla sua scelta». Anche nel Vangelo di Giovanni troviamo un netto spostamento di prospettiva: dall’attesa del radicale rivolgimento operato dal regno futuro si passa alla ricerca di una rinascita interiore, in modo che ciascuno possa conquistarsi una vita nuova ed eterna (Gv 1,12).

I processi di selezione e di sostituzione di prospettive nuove a quelle del passato messi in atto dai seguaci di Gesù – «un’operazione continua, svolta per lo più senza regole codifi cate o piani sistematici» (Geertz, 1995, p. 51) – hanno verosimilmente portato i diversi credenti a rifl ettere e a mettere in campo strategie di ricomposizione e di adattamento delle esperienze di contatto diretto con Gesù provenienti dal passato, spesso integrandole con nuove esperienze ritenute di natura analoga. L’opera di rimessa in moto di frammenti visionari o di resoconti di accesso in prima persona all’oltre- mondo di matrice tradizionale (molto spesso, a loro volta, il prodotto di complesse pratiche di rilettura di materiali preesistenti non necessariamen- te derivanti da gruppi di seguaci di Gesù), trasmessi secondo forme di te- stualità piuttosto evanescenti e comunque fortemente debitrici dell’oralità, ricompatta e ricodifi ca il problema del rapporto tra il permanere di questo mondo e le esperienze di visione diretta del Gesù che verrà alla fi ne.

La produzione di scritti visionari che articolano e ridisegnano tale nesso in modo più o meno organico rappresenta, dunque, una risposta di taluni alle elaborazioni e alle trasformazioni di diff erenti messaggi di volta in volta ricondotti a “diff erenti” Gesù, quello della storia – che ha verosimilmente detto e fatto determinate cose durante la sua esistenza terrena – e quello visionario, quel Gesù che è visto giungere e che riar- ticola, in funzione di questa sua venuta, il passato, il presente e il futuro.

Il tempo dell’esperienza e la sua rievocazione

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