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Il punto che intendo sottolineare in questo capitolo è che i testi visionari giudaici e protocristiani emergono come una sorta di combinato dispo- sto in cui la percezione sensoriale di particolari individui sottoposti a esperienze di natura psicotropa è riutilizzata e ricodifi cata grazie a mappe mentali che – aderendo a una sorta di meccanismo memoriale di natura insieme imitativa e ricostruttiva, o anche simbolizzante – rimodella nei testi e nei resoconti quelle stesse esperienze.

Ciò permette di considerare un ulteriore aspetto, quello dei resoconti visionari come veri e propri testi “viventi” (living texts), testi che risulta- no composti da un costante riadattamento, in primis di fl ussi memoriali ritenuti fondanti – quelli che il mediatore usa per verbalizzare la propria esperienza di contatto con il mondo altro –, e di successivi e ulteriori pro- cessi di rimessa per iscritto e trasmissione, e quindi di eff ettiva “testualiz- zazione” e/o “scritturalizzazione” (cfr. infr a, spec. pp. 97-100). Quella di “testo vivente”, dunque, è defi nizione che vuole mettere in luce proprio questo processo di uso e adattamento continuo tipico di contesti sociali in cui l’oralità si trova a convivere con altre forme di comunicazione e tra- smissione del sapere.

La dinamica appena evidenziata sembra chiamata in causa in alcuni de- gli stessi testi visionari provenienti dal giudaismo e dal protocristianesimo. La conclusione dell’Epistola di Enoc si concentra sugli errori degli avver- sari del visionario e sul ruolo occupato dagli scritti enochici nello scenario escatologico. 1 Enoc, 104,9, una esortazione ai peccatori a non fare quello che il visionario sa che in un modo o nell’altro comunque faranno, funge da passaggio ponte all’interno della trattazione, mentre 104,10-13 presenta

due rivelazioni circa il tempo della fi ne, una incentrata sugli scritti ingan- nevoli di non meglio precisati devianti e l’altra su quelli legati alla fi gura di Enoc:

Ed ora io conosco tutto questo segreto: che [cioè] molti peccatori pervertono e violano la parola di rettitudine e si dicono, fra loro, parole cattive e mentiscono e, sulle loro parole, creano grandi cose e scrivono libri; e che quando, invece, scri- vono esattamente, nelle loro lingue, tutte le mie parole e non modifi cano e non sottraggono nulla dalle mie parole, ma scrivono tutto con esattezza, tutto quel che prima io ho testimoniato a loro proposito, [allora] io conosco un altro segreto: che ai giusti ed ai saggi i libri son dati per la gioia, la rettitudine e la grande saggez- za. E ad essi saranno dati i libri, ed essi avranno fi ducia in essi e si rallegreranno per essi e tutti i giusti che avranno appreso da essi tutte le vie della rettitudine, saranno ricompensati (aat i, pp. 247-8).

Il passo, così come citato, segue la versione etiopica. Un frammento greco, quello contenuto nel P. Chester Beatty xii5, riporta invece una versione alquanto diversa:

[…] della verità, pervertiranno molti e mentiranno, inventeranno grandi fandonie e scriveranno libri a loro nome. Magari avessero scritto tutte le mie parole accu- ratamente sotto i loro nomi, e non avessero rimosso o alterato queste parole, ma avessero scritto con accuratezza tutto quello che io testimonio loro. E conosco un secondo mistero, che i miei libri saranno dati ai giusti, ai pii e ai saggi per la gioia della verità. E loro crederanno e si rallegreranno in essi, e tutti i giusti saranno lieti di imparare da loro tutte le vie della verità6.

Ciò che emerge dalla versione greca è che il resoconto visionario, in quan- to vero e proprio processo di trasmissione da un mediatore a non meglio precisati altri preposti a trascrivere accuratamente quanto da lui indicato, diventa inevitabilmente un testo suscettibile di ulteriori interventi se non di autentiche manomissioni, tanto da innescare processi di vera e propria emulazione e, in alcuni casi, di appropriazione indebita. Il riferimento a un processo pseudepigrafi co non autorizzato sembra potersi iscrivere in questa stessa logica di censura chiaramente relativa, nel senso che fun- ziona come strumento di accreditamento per alcuni resoconti ritenuti più autorevoli di altri o maggiormente degni di considerazione in certi contesti.

Il passo dell’Epistola di Enoc sembra trovare un confronto degno di nota in Ap 22,18-19, dove si trova riportato quanto segue:

Testimonio io a ognuno che ascolta le parole della profezia di questo rotolo: se qualcuno aggiunge a queste cose, aggiungerà Dio a lui le piaghe, quelle scritte in questo rotolo. E se qualcuno toglie dalle parole del rotolo di questa profezia, to- glierà Dio la sua parte dal legno della vita e dalla città santa, cioè delle cose scritte in questo rotolo (trad. it. in Lupieri, 1999, pp. 99-101).

Il riferimento del visionario, in questo caso, è rivolto al contenuto racchiu- so all’interno del rotolo, dunque al resoconto visionario nella sua forma più o meno defi nitiva, quella che è giunta a rendere nel linguaggio umano ciò che, di per sé, non sarebbe esprimibile. Il veggente apostrofa coloro che ascolteranno/leggeranno il resoconto sottolineando, in maniera neanche troppo indiretta, che, in quanto testimoniato dall’angelo, e dunque mes- saggio autentico direttamente proveniente dal mondo altro, la modifi ca del suo contenuto è addirittura passibile di una sorta di legge del taglione; non è casuale che la formula di condanna sia sovrapponibile a formule analoghe che incontriamo in altri testi dal tenore fortemente normativo (cfr. Dt 4,2; 13,1; 29,19).

Entrambi i testi, al di là dell’eccesso polemico che li contraddistingue, testimoniano quanto i resoconti di natura visionaria – al pari di buona parte delle forme testuali provenienti dal mondo antico – potessero essere oggetto di svariate modalità di intervento da parte dei loro trasmissori e fruitori, interventi che potevano implicare ampliamenti, tagli, riscritture, riformulazioni, manomissioni, in una parola, rifunzionalizzazioni a tutti gli eff etti. Il tono stigmatizzante dei testi, che condanna senza mezzi termi- ni quali manomissioni, o addirittura come vero e proprio plagio, tali moda- lità di trasmissione, assolutamente ovvie in contesti in cui la scrittura non è soggetta a forme consolidate e strutturate di censura e/o di controllo in difesa del “diritto di autore”, sembra gettare ulteriore luce sui testi visionari in quanto living texts.

La diff usione e la tesaurizzazione in contesti elitari, in cui era necessario fare i conti con la non sempre agevole reperibilità del supporto scrittorio, di scritti che venivano utilizzati e, per questo, tramandati con particolari scopi performativi e culturali implicava una sorta di volatilità di ciò che veniva trasmesso; questo era di conseguenza riprodotto soprattutto con lo scopo di adattarne il contenuto al nuovo habitat di riferimento. A ciò si unisca che coloro che erano preposti al ruolo di trascrivere e, dunque, di assicurare una certa durabilità ai testi non si sentivano come meri ricopiatori, ma, semmai, come veri e propri strumenti di adattabilità dotati di autonomia decisionale,

se non altro per andare incontro alle richieste di chi commissionava la copia di un testo o per meglio rispondere alle esigenze dell’ambiente e/o del grup- po di riferimento.

Nel caso del contesto giudaico e, dunque, protocristiano, il quadro ap- pare ulteriormente complicato dalla necessità di salvaguardare la trasmis- sione di particolari scritti, considerati come autorevoli, per esigenze legate alla ritualità e alla comunicazione pubblica. Tale funzione, oltre che impli- care notevoli gradi di adattabilità e rifunzionalizzazione, vedeva in molti casi l’intervento di ulteriori fi gure legate ai canali di trasmissione cui erano sottoposti gli stessi testi, e dunque non soltanto i committenti e gli scribi, ma verosimilmente anche alcuni degli stessi lettori, in una sorta di “circuito chiuso” di interventi paralleli e spesso competitivi.

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