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Scritture e rimesse in moto visionarie

I rapporti tra contatti diretti con il mondo altro e scrittura sono ben docu- mentati in molte culture antiche e moderne. È nota, ad esempio, la stretta correlazione che intercorre tra le pratiche cosiddette medianiche e/o di possessione e i procedimenti di vera e propria scrittura automatica. Un caso di particolare interesse è senza dubbio quello attestato nel contesto dello spiritismo kardecista, dove emerge con frequenza l’immagine del

mediatore che riporta per iscritto il contenuto della propria esperienza di possessione2. L’idea che il medium sia incapace di rendersi conto di quan- to sta accadendo nel momento in cui mette per iscritto ciò che lo spirito gli suggerisce va del tutto accantonata. Un esperimento condotto a San Paolo del Brasile, in un gruppo di 110 medium kardecisti capaci di scrive- re in modalità automatica, ha rilevato che il 77,2% riteneva di essere del tutto cosciente e padrone di sé nel momento in cui produceva scrittura automatica, il 18,9% di essere in uno stato semicosciente e che solo il 3,7% sottolineava la propria assoluta incapacità di determinare che cosa stesse realmente facendo (cfr. Negro, Palladino-Negro, Louzã, 2002). A questo si unisca che alla richiesta degli intervistatori in merito alla capacità di controllare la possessione, il 63% ha sottolineato di essere sempre in grado di farlo, il 31,1% di riuscire nella maggior parte dei casi, il 5,5% di non esser- ne capace.

Lo studio appena richiamato ha ripercussioni soprattutto nel defi ni- re la percezione soggettiva delle persone coinvolte dagli intervistatori, rilevando in particolare il rapporto tra memoria e scrittura automatica e la relativa importanza dei processi memoriali profondi (l’abilità di ri- chiamare elementi legati al livello subconscio; cfr. Stevenson, 1978); ciò ridimensiona ulteriormente la possibile ripresa di un modello sciamani- co che vede nel mediatore tra oltremondo e mondo-di-qui un individuo che abbandona il suo status ordinario per perdersi in luoghi inaccessibili ai comuni individui. Non va però nemmeno trascurato un punto di di- stanza notevole che sembra segnare i procedimenti di scrittura automatica di tipo kardecista rispetto a quelli connessi alle esperienze con il mondo altro documentati nell’antichità. Nella stragrande maggioranza dei casi, i medium kardecisti sono i diretti protagonisti dell’esperienza di contatto diretto con il mondo altro e sono sempre loro a metterla per iscritto. Nel caso dei testi apocalittici giudaici, di contro, ciò che abbiamo di fronte sono testi derivanti da complesse vicende redazionali e in cui appaiono evidenti aggiunte e implementazioni susseguitesi nel tempo.

I testi apocalittici giudaici e protocristiani si presentano come veri e propri mosaici tradizionali, ovvero come assemblaggi di materiale di reim- piego di diversa provenienza, una specie di costruzione assimilabile, pro- prio per la sua natura fortemente composita, ai monumenti e agli edifi ci del periodo imperiale e tardoantico (si pensi all’Arco di Costantino!). I due aspetti, quello della scrittura del resoconto e quello della ripresa di materiale di diversa provenienza per dire, o ridire, ciò che si è visto durante

il contatto con il mondo altro, sono connessi e possono essere ricondotti ai meccanismi di memorizzazione e di reinvenzione di precedenti ritenuti autorevoli. Tale aspetto è la diretta conseguenza del particolare status con cui questi veri e propri fl ussi di trasmissione vengono tesaurizzati e conti- nuamente riproposti.

L’universo giudaico in cui prendono forma i resoconti visionari è, al- meno in linea di massima, così come tutte le società e le culture antiche e tardoantiche (almeno fi no a una certa fase), contraddistinto da modalità di assunzione e trasmissione del sapere fortemente imperniate sull’oralità; ma all’interno di questo quadro la scrittura, intesa come medium possedu- to e dominato da particolari gruppi e/o attori sociali, e come tale in molti casi oggetto di vere e proprie pratiche di ritualizzazione, assume un ruolo non di poco conto, spesso come strumento di inglobamento e riadatta- mento o anche come strumento egemonico o più semplicemente di con- trollo rispetto a canali e a mezzi di trasmissione prettamente orali avvertiti come pericolosi perché di per sé poco controllabili. Non stupisce, quindi, che forme di meditazione e di vera e propria “ruminazione” su materiali in vario modo tradizionali e ritenuti autorevoli potessero assumere una funzione realmente psicotropa e, come tale, capace di generare esperienze interpretate come di contatto diretto con il sovrannaturale3.

Filone di Alessandria, parlando dei cosiddetti Terapeuti, un gruppo di Giudei che vive in Egitto presso il lago Mareotis, sottolinea come per co- storo il signifi cato letterale delle Scritture fosse composto da “simboli” la cui natura nascosta si rivela nello studio del signifi cato a essi sotteso (cfr.

La vita contemplativa, 78; sulle connessioni tra esegesi allegorica e rivela-

zione dei misteri, cfr. Bockmuehl, 2009, pp. 75-81). Sempre Filone, nella

Migrazione di Abramo, 35, questa volta parlando di sé stesso, descrive la sua

attività di scrittura come soggetta, almeno talvolta, a una specie di ispira- zione profetica, per cui la mente, come una tabula rasa, si trova a essere letteralmente “riempita” di idee che si aff ollano sotto l’infl usso di una vera e propria possessione divina.

Il processo di decifrazione della “foresta di simboli” rappresentato da materiali e testi ritenuti autorevoli è, d’altronde, un aspetto centrale nella stessa esegesi documentata nei manoscritti di Qumran, una esegesi che si può defi nire senza mezzi termini visionaria, nel senso che – proprio at- traverso il ricorso a materiali preesistenti – intravede nei testi autorevo- li signifi cati occulti e in ogni caso diretti a situazioni e vicende diverse o lontane da quelle espressamente narrate; emblematica, in tal senso, appare

l’attività esegetica di tipo pesher, che tratta i testi dei profeti biblici come veri e propri specchi capaci di rifl ettere eventi contemporanei e che nel contempo si aprono al futuro ultimo (cfr. infr a, spec. pp. 288-9)4.

Alla luce del quadro appena abbozzato, dunque, i testi apocalittici ap- paiono come l’esito fi nale di un processo in cui un tecnico della scrittura, dopo aver vissuto particolari esperienze di contatto con l’oltremondo o dopo aver visto altri rendicontare simili contatti, spesso innescati dalla let- tura/ascolto di materiali ritenuti autorevoli, usa tali fl ussi per verbalizzare e rendere testo quelle stesse forme di vissuto.

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