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Rendicontare un’esperienza di contatto diretto con il divino signifi ca riar- ticolare e riformulare particolari reazioni interiori spazializzandole. Que- sto processo implica la proiezione, nella dimensione del resoconto visio- nario, di rappresentazioni di luoghi e spazi provenienti il più delle volte da ambiti tradizionali ritenuti portatori di una particolare autorità.

Un caso di particolare evidenza, in questo quadro, è dato dalla riartico- lazione degli spazi come eff ettivi luoghi di culto. In 1 Enoc, 14 il visiona- rio, per raggiungere il trono di Jhwh, deve passare attraverso due case che appaiono come veri e propri santuari (aat i, pp. 72-5). Questi due spazi aff erenti al mondo altro si presentano come una sorta di rimodulazione, in chiave espressamente visionaria, di elementi tradizionalmente ricon- ducibili a un tempio. In 1 Re 6,3 il tempio fatto costruire da Salomone è

rappresentato come un edifi cio composto da un atrio, da una costruzione di più piani posta lungo un muro di cinta e da una camera interna (il co- siddetto santo dei santi). Lo stesso immaginario strutturale ritorna nella descrizione del cosiddetto secondo tempio fatta da Giuseppe (Guerra giu-

daica, 5,207-219) e nella Mishnah (m. Middot, 4,7). Va sottolineato (cfr.

Himmelfarb, 1993, pp. 14-6) che 1 Enoc, 14 menziona una terza struttura (14,9), che nella versione etiopica appare come un semplice muro e che in quella greca si presenta come una costruzione di pietre preziose e fuoco, uno spazio aff erente alla dimensione celeste, che riproduce anch’esso la tripartizione del tempio di Salomone.

Gli edifi ci celesti di 1 Enoc, 14 appaiono composti di elementi forte- mente oppositivi (fuoco, cristallo, acqua, neve, fulmine); questi possono coesistere soltanto nella dimensione visionaria del testo, ma si trovano variamente assemblati anche nella descrizione del tempio fatta da Flavio Giuseppe (Guerra giudaica, 5,222-223), descrizione che – sebbene riferita al tempio di Erode – a sua volta reinventa il luogo alla luce di un ricco simbolismo cosmico. Ciò nonostante, se è abbastanza evidente che la de- scrizione di 1 Enoc vuole in qualche modo riecheggiare un vero e proprio luogo di culto, questo non sembra corrispondere nei dettagli ad alcun particolare edifi cio così come lo troviamo descritto nei testi inclusi nella Bibbia ebraica o in altri ambiti tradizionali del giudaismo del periodo ellenistico-romano; proprio le attività compiute dagli angeli in questo luogo (canto e venerazione continua sebbene a debita distanza dalla Grande Gloria; cfr. 1 Enoc, 14,18.22.23 = aat i, pp. 74-5) rimandano in modo abbastanza evidente ad azioni tipiche di chi svolge mansioni di na- tura cultuale. Anche l’epilogo della descrizione, con Enoc che entra «in quella casa, calda come il fuoco e fredda come neve» e che viene colto da «spavento e timore», tanto da cadere faccia a terra davanti al trono (14,13-14 = ivi, p. 74), è un riadattamento abbastanza chiaro di preceden- ti autorevoli, in particolare le visioni di Ezechiele, in cui regolarmente il visionario, compiendo un’eff ettiva azione cultuale, cade di fronte alla Gloria di Jhwh.

L’immagine dei cieli come di un enorme luogo di culto ritorna, in ma- niera abbastanza esplicita, anche nel Testamento di Levi. Qui le «porte dei cieli» si aprono alla visione del «tempio santo e dell’Altissimo sopra il trono di gloria» (5,1 = aat ii, p. 386, nota 1 [ramo β della tradizione ma- noscritta greca]). L’ascesa di Levi ai cieli è seguita da una seconda visione (8 = ivi, pp. 389-91) in cui sette angeli ungono il visionario, lo rivestono

delle vesti sacerdotali e gli preannunciano il futuro della sua discendenza. Il processo di unzione e vestizione si svolge in due momenti: prima gli angeli invitano Levi ad alzarsi e a indossare «la veste del sacerdozio, la corona della giustizia, il pettorale dell’intelligenza, la stola della verità, il diadema della fedeltà, la mitra † della testa † e l’efod della profezia» (8,2 = ivi, p. 389), mentre ciascuno di essi porta un oggetto per la vestizione; nella seconda parte ciascuno dei sette angeli, a turno, mette in atto una vera e propria consacrazione (8,4-10 = ivi, pp. 389-91).

Molti degli elementi della seconda parte della descrizione derivano dal- le istruzioni bibliche inerenti ai sacerdoti e da attività cultuali connesse ad ambiti propriamente sacerdotali1. Va sottolineato come una scena simile a quella dell’ultima parte della visione sia sopravvissuta anche nel docu- mento aramaico di Levi ritrovato a Qumran (su cui cfr. Drawnel, 2004; Greenfi eld, Stone, Eshel, 2004)2, che mostra un evidente spostamento, riconducibile a processi di testualizzazione piuttosto labili e stratifi cati, rispetto alla versione preservata in greco.

Alla fi ne del discorso rivolto a Levi (4Q213, fr. 3, ll. 4-5)3, il frammento aramaico dipinge una consacrazione compiuta da Giacobbe che, in terra, riproduce e per certi versi continua quella che nella dimensione visionaria è compiuta dagli angeli; nella versione greca, invece, l’atto di consacra- zione avviene solo nella dimensione celeste e visionaria, e non vi è alcun cenno a una sua riproduzione nella dimensione terrena (cfr. Himmelfarb, 1993, p. 37). In entrambi i resoconti, comunque, l’ascesa di Levi ai cieli è seguita da una consacrazione che identifi ca il particolare spazio in cui si svolge come un luogo di culto, ancorché completamente aff erente alla dimensione dell’oltremondo.

In 2 Enoc (nella recensione breve) la riformulazione dell’immagine dei cieli come luogo di culto emerge dalla prominenza accordata alla de- scrizione di una sorta di liturgia angelica, così come si svolge soprattutto nel sesto e nel settimo cielo (19-23 = aat i, pp. 543-9), dove l’off erta di preghiere è l’unica attività compiuta dai vari angeli che popolano la visio- ne, sebbene in precedenza il veggente si sia meravigliato del fatto che nel quinto cielo (18,2 = ivi, pp. 541), quello dove si trovano gli angeli egregori (termine che tradisce il greco egregoroi, traduzione del semitico ‘ir, “vi- gilante”), non si odano voci che rimandano a servizi liturgici; la frase di

2 Enoc, 18,2 («Non c’era servizio che avesse luogo al quinto cielo» = ibid.)

sottolinea abbastanza chiaramente che i cieli dovrebbero essere uno scena- rio per azioni cultuali di preghiera (cfr. Himmelfarb, 1993, p. 39). A ciò

si unisca che in 2 Enoc, 22,7-10 (aat i, pp. 547-8) Enoc è sottoposto a un reale processo di “angelifi cazione”, che emerge come una versione vi- sionaria e celeste dell’investitura sacerdotale; il passaggio si inserisce, tra l’altro, in una costellazione di riferimenti che associano a Enoc funzioni sacerdotali (in 21,3 [ivi, p. 545] egli è prescelto da Dio per porre rimedio ai peccati umani, mentre i capitoli conclusivi dell’opera – quelli dedicati a Melchisedec [cfr. 69-73 = ivi, pp. 592-606] – proprio perché incentrati sulla successione sacerdotale di Enoc derivante dalla sua ascensione cele- ste, implicano comunque che Enoc abbia già in qualche modo svolto fun- zioni sacerdotali).

Anche l’Apocalisse di Giovanni tende a rappresentare il cielo come luogo in cui si svolge un vero e proprio culto. In Ap 8,2-5, all’apertura del settimo sigillo, il veggente vede un angelo che sta dritto sull’altare dei sa- crifi ci, con un incensiere d’oro, a cui vengono dati aromi per off rirli «alle preghiere di tutti i santi sull’altare dei sacrifi ci, quello d’oro, quello di fronte al trono» (8,3; trad. it. in Lupieri, 1999, p. 35).

L’Apocalisse presuppone l’esistenza, in cielo, di un solo altare per i sacrifi ci (il termine usato da Giovanni è thysiasterion; cfr. anche Ap 6,9), sebbene secondo una certa visione confl uita nella Bibbia ebraica (cfr. Es 27,2; 38,2; 1 Re 8,64; 9,25 ecc.) nel tempio dovessero esserci due altari, quello dei sacrifi ci, cioè delle off erte cruente, rivestito di rame (o bron- zo), e quello degli incensi, usato esclusivamente per l’off erta degli aromi, rivestito d’oro (cfr. Es 30,1-10; 37,25-28; 1 Re 6,22; Nm 4,11). Il veggente sembra sottolineare, in questo modo, che il culto che si svolge nello spa- zio celeste comporta l’utilizzo di un solo altare, dove ha luogo una off er- ta sacrifi cale fatta di aromi, o anche di preghiere; è come se il sacrifi cio cruento avesse completamente ceduto il passo a un culto di preghiere, in cui gli attori dell’oltremondo svolgono un ruolo centrale (cfr. anche Ap 9,14).

Il meccanismo visionario riesce a trasfi gurare pratiche ascrivibili all’u- niverso sacerdotale giudaico. Nei cosiddetti Canti degli olocausti del sabato rinvenuti a Qumran4, vere e proprie forme di preghiera “mistica” (Nitzan, 1994, p. 273), tutti gli arredi del tempio celeste sono interpretati come real- tà spirituali oranti, nonostante il testo presupponga attività sacrifi cali con- dotte dalle stesse schiere angeliche che in qualche modo competono con il culto che si svolge nel tempio; simili valutazioni si associano ai riferimenti a un culto «senza la carne dell’olocausto e senza il grasso del sacrifi cio» (1QS 9,3-6 e CD 4,12), in cui il sacrifi cio dell’empio è condannato senza

mezzi termini come abominio, ovunque esso venga “azionato”, a vantaggio dell’off erta gradita costituita dalla preghiera del giusto5.

All’inizio del Libro delle parabole, Enoc è trasportato direttamente in cielo. Preghiere e liturgie celesti occupano un ruolo di primo piano nella descrizione visionaria: Enoc vede i giusti pregare per l’umanità (1 Enoc, 39,5; trad. it. in Chialà, 1997, pp. 87-8), lo stesso Enoc off re una preghiera a Dio (39,9-12; ivi, pp. 89-90), mentre gli angeli, a loro volta, gli rivolgono preghiere (39,13; vediamo anche i quattro arcangeli elevare preghiere: 40; ivi, p. 90). Il resoconto visionario mostra come la compartecipazione alla liturgia svolta da agenti superumani sia un modo per esprimere la meta- morfosi e lo status raggiunti dal veggente stesso (39,9-13), e quindi da colo- ro a cui egli si rivolge, per cui il riferimento ai «vestiti di gloria» – defi niti anche «vestiti di vita» – indica che i giusti raggiungeranno uno status an- gelico dopo la morte (62,15-16; ivi, p. 121). Proprio l’enfasi sul giudizio dei giusti e degli empi implica anche l’assunzione di un immaginario spaziale che associa i cieli a una corte reale e, insieme, giudicante.

Una forte localizzazione dello spazio visionario in questa direzione si trova già in Dn 7, dove il riferimento ai troni (al plurale; cfr. Dn 7,9) allude chiaramente a una caratterizzazione degli agenti sovrumani come membri di una corte sottoposta a un vero e proprio monarca divino. Le descrizio- ni del concilio divino provenienti da Ugarit già parlano dei troni degli dei (cfr. Himmelfarb, 1993, p. 58). L’immaginario di uno spazio insieme regale e di giudizio trova espressione a suo modo compiuta anche nel Te-

stamento di Abramo (nella cosiddetta recensione breve), specialmente in

11,6-11 (aat iv, p. 64), una descrizione parzialmente ripresa anche dalla recensione lunga (13 = ivi, pp. 88-91), dove la visione del giudizio con una ambientazione regale si trova a essere rimodulata alla luce dell’immagina- rio connesso in qualche misura alla fi gura e all’azione dell’assessor romano (cfr. supra, pp. 69-70).

Anche nell’Ascensione di Isaia l’immaginario spaziale di matrice cul- tuale e quello regale-giudiziario si trovano fortemente connessi, e ciò so- prattutto in virtù dell’ambientazione pseudepigrafi ca che colloca le visio- ni avute da Isaia nella stessa residenza del re Ezechia. Proprio perché il giudizio dell’anima non viene esplicitamente visualizzato durante il viag- gio di Isaia attraverso i cieli, ciò sembra implicare l’assenza di una chiara e diff usa descrizione inerente a una corte che si asside in giudizio. Eppure il libro (o i libri) che Isaia vede nei cieli6 può apparire come una sorta di

Il concilio divino di Dn 7,10 consulta libri che devono contenere giu- dizi su tutte le nazioni (cfr. Himmelfarb, 1993, p. 58), e così avviene anche nel Testamento di Abramo (nella recensione lunga; cfr. aat iv, pp. 86-8, dove al libro si associa anche l’immagine della bilancia quale strumento di misurazione delle azioni umane) e in Ap 20,11-12 (cfr. trad. it. in Lupieri, 1999, p. 89). Anche per quanto concerne l’Apocalisse di Sofonia, il tema centrale di quel che rimane di questo scritto7 è, quasi certamente, il giudi-

zio delle anime. Il giudice sembra essere Dio stesso, sebbene nel testo egli non venga mostrato mentre presiede a un vero e proprio processo (forse a causa della lacuna di due pagine che segue alla scena in cui un angelo porta un secondo rotolo; cfr. 7,1-11 = ivi, pp. 177-8). A ogni modo, l’Apocalisse di

Sofonia concepisce i cieli come una sorta di corte; proprio perché il giudice

è il re dei re, i cieli appaiono come popolati da una corte regale e, come tali, connotati da oggetti legati a questo stesso immaginario8, mentre gli ange-

li svolgono un importante ruolo giudicante, annunciando i risultati della valutazione e indirizzando le anime al premio o al castigo (cfr. 10-12 = ivi, pp. 180-2).

L’idea dei cieli come luogo di culto, dunque, si trova evocata anche nell’Ascensione di Isaia e nell’Apocalisse di Sofonia. Isaia si unisce alla pre- ghiera angelica (10,19 [secondo la versione etiopica]; trad. it. in Bettiolo

et al., 1995, p. 114) e gli viene detto che una veste è per lui riservata al di

sopra di tutti i cieli (7,22 [nella versione etiopica]; ivi, p. 86); anche So- fonia riceve una veste e si unisce agli angeli nella loro preghiera (8,2-4 = aat iii, p. 179). La corte regale e giudicante e il luogo di culto sono dif- ferenti aspetti dell’incontro diretto con l’oltremondo (cfr. Himmelfarb, 1993, p. 59), o sono anche modalità di localizzazione avvertite come com- plementari per dare un signifi cato culturalmente condiviso o condivisibile a percezioni spaziali reinterpretate come di natura visionaria.

Nello specifi co dell’Ascensione di Isaia, ma il dato è perfettamente os- servabile già in Daniele e nel Libro delle parabole, oltre che nell’Apocalisse

di Sofonia e nell’Apocalisse di Giovanni, l’enfasi descrittiva sul giudizio

degli esseri umani implica necessariamente un appoggiarsi alla localizza- zione legata all’immaginario della corte regale, vista la particolare ambien- tazione dello scritto; questa però non riesce a scalzare o a mettere del tutto da parte quella di tipo cultuale, che risulta particolarmente adatta a svelare una determinata dimensione connessa all’esperienza del mondo divino come luogo in cui è possibile vedere in atto il prototipo di tutti i culti ter-

reni e che, come tale, rimanda al “reale” signifi cato delle strutture rituali in cui agiscono o pretendono di agire, hic et nunc, gli esseri umani.

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