• Non ci sono risultati.

Narrazioni ed emozioni, cultura e religione

Alla narrazione apocalittica così come attestata nei testi giudaici e proto- cristiani mi pare solo in parte applicabile ciò che secondo Shmuel Lissek (2012) il concetto stesso di apocalittica sembra inevitabilmente evocare: una reazione di paura come emozione “di partenza” di fronte al suo svol- gersi, una paura che però non per tutti è paurosa, divenendo rassicurante, in quanto conosciuta, soprattutto per coloro che hanno vissuto particolari traumi. Lissek ha sottolineato che l’idea di un fato superiore e crudele, da cui non ci si può sottrarre, appare per alcuni come una sorta di panacea al proprio malessere, assumendo tratti e contorni che rimandano sempre e comunque a una risoluzione del male presente. Avere indicazioni chiare sul come il mondo fi nirà rende la minaccia chiara e prevedibile, evitando quindi che si debba preoccuparsene e mostrandone anche il più o meno defi nitivo scioglimento. È evidente che Lissek fonda la sua analisi su quel- lo che “apocalisse” signifi ca soprattutto oggi, in quanto costrutto culturale inscindibilmente legato alla interpretazione dell’escatologia propria della teologia cristiana e, come tale, in parte riversatasi anche in quel complesso amalgama rappresentativo e immaginativo che è l’apocalisse secolarizza- ta propria della cinematografi a distopica (il cui principale capostipite va certamente ravvisato nel fi lm del 1927 Metropolis, del regista Fritz Lang [1890-1976]). In quanto resoconti che pretendono di fondarsi sulla visio- ne diretta dell’oltremondo, le rivelazioni giudaiche e protocristiane “in- scenano”, al loro interno, diff erenti livelli di reazioni emotive, un vero e proprio coacervo che viene rinarrato e messo per iscritto sulla scorta di analogie e rimandi a esperienze concretamente vissute da particolari attori sociali; le apocalissi riformulano, in un modo o nell’altro, diverse modalità di contatto diretto di un singolo o di un gruppo con ciò che è ritenuto, in quei particolari quadri culturali, come l’«innegabilmente plausibile» (cfr. Rüpke, 2016, trad. it. spec. p. 43), l’oltremondo o il mondo altro.

La questione tocca, come è facile immaginare, problemi di enorme diffi coltà e, non a caso, da tempo al centro dei dibattiti sociologici e an- tropologici in merito a quei discussi e complessi oggetti che chiamiamo religione e cultura. Ovviamente non posso qui neanche accennare a simili

problemi, limitandomi a defi nirli in maniera assolutamente generica e, so- prattutto, in funzione dello specifi co che riguarda la mia indagine.

Le complesse reti di relazione che congiungono emozioni, religione e cultura hanno visto una notevole rifl essione teorica soprattutto nei lavori di Robert Bellah (1970) e Cliff ord Geertz (1973, trad. it. pp. 137-84), seb- bene in queste analisi soprattutto il concetto di emozione soff ra di una certa indeterminatezza defi nitoria. In questo quadro si sono innestate le ricerche portate avanti da John Corrigan e fondate su un ampio lavoro di stampo interdisciplinare che ha visto il coinvolgimento di storici, socio- logi, psicologi, studiosi di critica letteraria e neuroscienze (cfr. Corrigan, Crump, Kloos, 2000; Corrigan, 2004; 2008).

Le diffi coltà connesse a uno studio delle emozioni sono facilmente evi- denziabili se si pensa alla dicotomia che viene spesso chiamata in causa: sono, le emozioni, un elemento universale che contraddistingue la natu- ra umana in quanto espressione dell’evoluzione di Homo sapiens, o sono, invece, fattori sempre determinati storicamente e, dunque, defi nibili solo ed esclusivamente in termini di variabili storico-culturali (cfr. in merito quanto rilevato da Corrigan, 2004, spec. p. 7)? In questa sede non mi pare particolarmente fruttuoso partire dalla dicotomia tra la prospettiva “uni- versalista” e quella “storico-costruzionista”. Come sottolineato di recente anche da Stephen C. Barton (2011), l’emozione, o ciò che defi niamo emo- zione, non va intesa come un qualcosa che si oppone alla ragione; essa è la risultante di particolari modalità cognitive che, in quanto tali, appaiono inevitabilmente soggette a stimoli, infl ussi e modifi che derivanti dal parti- colare ambiente in cui sono inserite (cfr. anche Nagy, Boquet, 2015, trad. it. 2017, spec. pp. 21-44). In questo senso, le emozioni non concernono sol- tanto la vita interiore dell’individuo, ma vanno pensate e comprese come pensiero incorporato, e dunque come strutture relative ai molteplici aspet- ti della vita umana, da quelli più individuali a quelli strettamente istitu- zionali. I complessi emozionali, dunque, non riguardano solo l’individuo, sebbene pure questo aspetto abbia una sua fondamentale rilevanza, e non aff eriscono semplicemente alla vita personale e privata, ma si inseriscono nel contesto stratifi cato dei discorsi e delle pratiche che costituiscono la cultura e la conoscenza locali; non rappresentano, quindi, un qualcosa di marginale rispetto alla relazione che si instaura tra il sé e il contesto sociale di appartenenza, ma un vero e proprio coinvolgimento personale nel, e insieme una risposta al processo sociale, un prendere parte a particolari forme di azione e a complesse reti relazionali.

È importante richiamare, a tal proposito, anche uno studio di Ole Riis e Linda Woodhead che, partendo dalla prospettiva sociologica secondo cui le emozioni sono «orientamenti psicofi sici e adeguamenti all’interno di contesti relazionali» (Riis, Woodhead, 2010, p. 21), off re una prospet- tiva multidimensionale volta a contestualizzare le reazioni emozionali in una complessa rete in cui interagiscono agency (nel senso della capacità di agire) individuale, gruppi sociali e oggetti simbolici:

La vita sociale è un campo di forze composto di energie emozionali. Per questo le emozioni non sono confi nate al cuore o al cervello dell’agente individuale, ma sono integrate nel fl usso della vita sociale e simbolica. Nel momento in cui noi agiamo negoziando nel mondo, in quel preciso istante ci troviamo immersi in un range di diff erenti campi emozionali, muovendoli ed essendo mossi da essi all’in- terno dello stesso processo [di interazione sociale] (ivi, p. 22).

La visuale di Riis e Woodhead poggia saldamente sull’idea di Émile Durkheim (1858-1917) che le emozioni sono fatti eminentemente sociali; ma questa prospettiva appare ulteriormente arricchita da quella di Georg Simmel (1858-1918), secondo cui gli oggetti simbolici (ad esempio le scrit- ture fondative per una particolare collettività o gli edifi ci di culto) sono «parte del processo in cui le emozioni si trovano a essere catturate, stabi- lizzate, coltivate, comunicate e rinforzate» (Barton, 2011, p. 577).

Esistono veri e propri “regimi emozionali”, un ampio sistema di rela- zioni sociali e materiali in cui si collocano gli individui e le aggregazioni micro- o macrosociali. Questi regimi non sono ovviamente monolitici o monopolistici: possono essere sovvertiti, per cui gli individui arrivano spesso ad abitarne molti contemporaneamente e a muoversi tra di essi in maniera trasversale, e non sono neanche restrittivi, nel senso che possono far emergere, al loro interno, nuovi e inaspettati strumenti capaci di imple- mentare un particolare range emozionale.

Una simile visuale integrata dei complessi emozionali come vero e pro- prio coagulo di strutture cognitive interne e rimodulazioni ambientali o, anche, ecosistemiche, non può che presupporre defi nizioni di religione e cultura estremamente ampie e malleabili e che, per certi versi, si compene- trino. Tale operazione, per lo specifi co del contesto giudaico e protocri- stiano che qui ci interessa, è resa ancora più agevole se si pensa a quanto rilevato con forza da Daniel Boyarin: il giudaismo precristiano, e dun- que i gruppi di seguaci di Gesù almeno fi no alla svolta costantiniana non

possono essere pensati come una religione autonoma; il concetto stesso di religione, derivante soprattutto dal quadro uffi ciale greco-romano e come tale ripreso e rimodulato dalle Chiese cristiane postcostantiniane, non sembra in grado di defi nire il modo in cui il giudaismo del periodo ellenistico-romano ha pensato sé stesso e le numerose modalità di relazio- ne con il proprio dio Jhwh, con i propri simili e nei riguardi degli “altri” (cfr. soprattutto Boyarin, 2019). A ogni modo, in questa sede i concetti di religione e cultura verranno usati, in maniera pressoché intercambiabile, soprattutto alla luce della defi nizione proposta da Geertz nel suo studio sulla Religione come sistema culturale: si può defi nire come “religione”, e quindi come “cultura”,

un sistema di simboli che opera […] stabilendo profondi, diff usi e durevoli stati d’animo e motivazioni negli uomini per mezzo […] della formulazione di concet- ti di un ordine generale dell’esistenza e […] del rivestimento di questi concetti con un’aura di concretezza tale che […] gli stati d’animo e le motivazioni sembrano assolutamente realistici (Geertz, 1973, trad. it. p. 137).

Certamente questa defi nizione, estremamente ampia eppure non esente da talune rigidità, non può e non deve mettere da parte la fondamenta- le rilevanza che, in un sistema come quello giudaico antico, avevano le capacità di manipolazione e di rimodulazione propriamente individuali. In un quadro in cui la distinzione tra uffi ciale e marginale era porosa e non sempre chiara, va inevitabilmente concesso un certo peso all’azio- ne individuale e alla sua più o meno relativa disseminazione comunica- tiva. Sempre Geertz ha sottolineato che i simboli e le strutture “sacre” inducono, in vario modo, una enorme varietà di stati emozionali che si spalmano su una lunga scala che va dall’esaltazione più sfrenata alla de- pressione più acuta. Le tessere che compongono il mosaico dell’esperien- za e delle emozioni religiose, e che trovano così forma in racconti e testi individuali disseminati come diretta relazione tra un singolo e la fonte più alta della conoscenza, il mondo «innegabilmente plausibile» del divino, sono costituite da concetti, credenze, rituali che possono essere sempre rimodulati e riformulati per aderire a particolari necessità comunicative. Esiste quindi una profonda interconnessione tra esistenza in un partico- lare sistema socioculturale, esperienza individuale, rimodulabile o rimo- dulata da un individuo che vive in un particolare sistema, ed espressione o narrazione, in cui il sistema socioculturale e il singolo per certi versi si

ricongiungono, dato che l’universo di segni e signifi cati rappresentato dal sistema appare inevitabilmente manipolato per le necessità comunicative che hanno spinto il singolo a raccontare e a descrivere.

Nel complesso, dunque – ma questo lo vedremo meglio nel prosieguo –, si può aff ermare che la visione diretta del mondo altro, così come si pre- senta nei testi apocalittici del giudaismo del periodo ellenistico-romano e del protocristianesimo, si caratterizza, tra gli altri, per due aspetti rilevan- ti: tale pratica, da un lato, assume la forma di uno strumento conoscitivo formidabile delle realtà oltremondane, dando la possibilità a un singolo di vedere direttamente come è l’oltremondo; dall’altro, permette di ogget- tivare dimensioni interiori e/o interiorizzate, connesse a un’esperienza di contatto diretto con il mondo altro che si ritiene sia stata precedentemente vissuta e che trova forma compiuta in un racconto.

La visione, in quanto complesso connotato sia come performance, sia come testo o racconto, permette di rendere visibile il mondo altro e di farlo presente. Questo spiega la ricca rete di movimenti e reazioni inte- riori che, in un modo o nell’altro, questi testi paiono documentare (il visionario e/o chi assiste alla visione pregano, piangono, gioiscono, si prostrano, si umiliano ecc.). Ma in quanto vera e propria riconfi gurazione in complessi testuali volti a disegnare un’immagine sistemica del mondo e delle dinamiche che lo determinano, la visione diretta del mondo altro implica e presuppone rappresentazioni e narrazioni fortemente connota- te a livello tradizionale assunte come generatori di senso all’interno dello specifi co sistema socioculturale in cui un particolare visionario si trova ad agire.

Se l’esperienza di contatto diretto con il mondo altro appare, per così dire, innescata in prima istanza da pratiche culturali più o meno condivi- se, essa stimola però immediatamente le modalità cognitive del singolo, che rimodellano come vero e proprio resoconto visionario ciò che egli ha eff ettivamente vissuto o ciò che ritiene che altri abbiano eff ettivamente vissuto. Il visionario si pone alla ricerca di un nesso tra le cose che sono davanti e intorno a lui e la materiale esistenza nel mondo. Così facen- do, rende l’esperienza comunicazione, inserendola in un fl usso plurale di possibilità, negoziate da coloro a cui si rivolge o a cui intende rivolgersi. Siamo in un contesto in cui un singolo altamente tecnicizzato riesce a trasformare e a far proprie le risorse simboliche attive nel suo mondo e in cui produzione e consumo – agendo in un universo condiviso – possono scambiarsi i ruoli.

Outline

Documenti correlati