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La successione degli imperi tra diacronia e sincronia

In due saggi dell’ultimo Momigliano (2016, pp. 35-42, 105-20) appare una fondamentale valutazione dell’idea di storia quale sembra emergere da- gli scritti apocalittici provenienti soprattutto dal giudaismo ellenistico- romano, idea che il cristianesimo avrebbe defi nitivamente fatto sua grazie al precedente incontro avvenuto tra giudaismo e mondo ellenistico. Alla base di tale valutazione ci sarebbe quella netta diff erenza tra concezione ciclica del tempo, propria della storiografi a greco-romana, e visione lineare tipica soprattutto della rifl essione sul passato giudaica e protocristiana, di- cotomia peraltro divenuta patrimonio quasi comune per infl usso di Mir- cea Eliade (1949), che su questa stessa distinzione ha giostrato buona parte della sua ricerca comparativo-fenomenologica e storico-ermeneutica.

Arnaldo Momigliano ha sottolineato che non è aff atto vero che la no- zione del tempo ciclico sia stata l’unica opzione disponibile per i Greci. Ne consegue che soprattutto per gli storici greci il futuro non entra a de- terminare epistemologicamente la successione degli eventi, nonostante nella loro concezione vi fossero immagini lineari di successione di età e imperi. Momigliano ha individuato una netta diff erenza tra la storiografi a classica e quella biblica, nonostante quest’ultima, soprattutto in seguito ai

processi di ellenizzazione del giudaismo, avesse vissuto forti dinamiche di assimilazione rispetto alla cultura dominante. Tra gli elementi che defi ni- scono i tratti propri della storiografi a biblica, uno dei più rilevanti sarebbe proprio quello legato ai nessi tra storia e profezia, che appaiono in maniera perfettamente strutturata nell’opera visionaria legata a Daniele, non a caso riconducibile proprio all’epoca tardoellenistica.

Nel saggio su Apocalissi ed esodo nella tradizione ebraica (originaria- mente pubblicato nel 1986), Momigliano ha messo anche in luce come la “rivelazione apocalittica” includa «passato e futuro, quello che fu e sarà, la fi ne della storia e il principio della storia» (Momigliano, 2016, p. 36); la rivelazione della vera fi ne – sottolinea Momigliano – porta anche alla rive- lazione del vero principio, tanto che «l’Eden anteriore al peccato si tocca con l’Eden della redenzione» (ibid.), nonostante lo studioso noti anche come nel giudaismo vi fosse una storia passata che ha valore paradigmatico e utopico senza per questo essere proiettata nel futuro ultimo o implicare la fi ne del mondo, quella dell’Esodo9.

È piuttosto evidente che una ricostruzione di questo tipo fi nisca con il riproporre quella dicotomia tra visione ciclica e lineare del tempo che ha nutrito soprattutto le discussioni teologiche novecentesche incentrate su quell’insieme di dottrine comunemente defi nite come “escatologiche”. Con il termine “escatologia” di solito si intende la dottrina sulle cose ul- time, vale a dire l’insieme delle rappresentazioni che il mito, le religioni o altre forme culturali hanno elaborato come interpretazione del destino ultimo dell’uomo e del mondo. Tali costruzioni, ritenute attestate, sebbe- ne in vario modo e con diff erenti gradi, in culture antiche diverse, sono state assunte, soprattutto a partire dalla rifl essione teologica moderna, come elemento tutto sommato uniforme e monolitico attraverso cui con- testualizzare il cambiamento di rotta innescato proprio dalla resurrezione di Gesù rispetto alla visione del tempo delle culture politeistiche. In que- sto senso, il concetto di escatologia, non a caso comunemente impiega- to negli approcci fenomenologici allo studio delle religioni antiche (ad esempio, cfr. Albinus, 2000, p. 9), nel contesto della rifl essione teologica cristiana (in senso molto lato) non appare solo come uno strumento euri- stico comparativo, ma come un fondamentale tassello di un’impalcatura teologica di natura sistemica, che ha per oggetto le questioni del destino ultraterreno dell’anima e del giudizio cui essa verrà sottoposta alla fi ne del tempo umano o storico. Il costrutto teologico dell’escatologia cristiana, assumendo come punto di partenza la insanabile diff erenza tra tempo ci-

clico politeistico e tempo lineare giudaico, vede pertanto nella letteratura apocalittica un bacino di raccolta di concezioni e dottrine generalmente riconducibili all’ambito escatologico, che il cristianesimo avrebbe succes- sivamente realizzato e sintetizzato al massimo grado nella fi gura di Gesù. Come cercherò di mostrare qui e anche nel prosieguo (cfr. infr a, spec. pp. 223-6), è necessario dismettere le lenti con cui si guarda all’escatologia giudaica come a un tutto organico e monolitico, concentrandosi invece sulla strutturazione interna propria di ciascun resoconto.

Daniele ricorre alla schematizzazione del passato sulla base della te- oria di successione dei sovrani in due punti del testo, il capitolo 2 e il capitolo 7 (cfr. Flusser, 1972; Collins, 1993, pp. 167-9). Il primo passo, che sembra potersi riferire a un’epoca di poco antecedente alla rivolta sotto Antioco iv Epifane (epoca in cui il testo è stato probabilmente ricucito in una forma più o meno defi nitiva), interpreta il sogno di Nabuconodosor sulla statua costituita di quattro metalli diff erenti (una successione di me- talli, sebbene per indicare vere e proprie ere e non regni, si trova in Esio- do, Le opere e i giorni, 1,109-201). L’interpretazione fornita dal testo è che i quattro metalli rappresentano quattro regni, quello dei Babilonesi, dei Medi, dei Persiani e dei Greci di Alessandro Magno e dei suoi successori. Qui la successione degli imperi mira, quasi inevitabilmente, all’interven- to diretto del dio di Israele che giunge per sostituire i regni terreni con quello divino al termine delle vicende umane (immagine rappresentata con la pietra di Dn 2,34-35.44-45 che colpisce i piedi della statua frantu- mandoli).

L’altro punto del testo in cui ritorna una visione della storia come suc- cessione di sovrani è il capitolo 7, dove all’immagine della statua si sosti- tuisce quella degli esseri mostruosi. Questo capitolo è quasi certamente collocabile all’epoca della redazione fi nale del libro di Daniele, intorno al 164-163 a.C. (cfr. infr a, pp. 340-3). La sezione appare come una compila- zione di materiali di diversa natura e sicuramente preesistenti, riassemblati per aderire a una delle molteplici strategie di resistenza intragiudaiche lega- te soprattutto alla prima fase della rivolta maccabaica (cfr. Portier-Young, 2011, pp. 223-79). Soprattutto nel caso di Dn 7, la teoria di successione dei regni sfocia in un’immagine di liberazione che coincide con la fi ne del tempo umano e l’avvento della sovranità di Jhwh così come di coloro che ne propagano i dettami (Dn 7,9-14.26-27).

Una teoria della successione dei regni fortemente debitrice nei confronti della descrizione del libro di Daniele si trova in due resoconti visionari rin-

venuti a Qumran, 4Q246, detto anche 4QApocalisse aramaica o 4QPseudo-

Danieled, e 4Q552-553, detto anche 4QQuattro regni.

Il primo testo, databile su base paleografi ca alla fi ne del i secolo a.C., appartiene con buona dose di verosimiglianza a un vero e proprio “ciclo danielico” (nonostante il nome di Daniele non appaia mai all’interno dei frammenti), una serie di scritti che rimodulano e riformulano immagini ed episodi ugualmente attestati nel libro di Daniele (cfr. Collins, 1996; per la trad. it. dei testi qumranici riconducibili a un vero e proprio “ciclo danieli- co” cfr. tq, pp. 250-3, 473-6). Qui la successione non è imperniata sul nume- ro quattro ma è più generica, dato che il sopraggiungere di una fi gura regale e insieme oltremondana designata come «fi glio di Dio» o anche «fi glio del grande Dio» e «fi glio dell’Altissimo» (cfr. i 8 e ii 1) e fortemente le- gata a una collettività che benefi cerà del suo governo vedrà una inevitabile decadenza dei regni umani paragonati a stelle cadenti (cfr. ii 1-2). Ciascuno di questi regni manterrà il potere per un certo periodo d’anni, mentre «un popolo ne distruggerà un altro, e una provincia un’altra», fi nché «sorgerà il popolo di Dio e tutti abbandoneranno la spada» (ivi, p. 251).

L’altro testo è sempre un resoconto visionario scritto in aramaico, da- tabile su basi paleografi che alla seconda metà del i secolo a.C., in cui un re (forse Belshazzar o lo stesso Nabuconodosor) riceve una visione di quattro alberi, ciascuno associato a un essere proveniente dall’aldilà. Ogni albero rappresenta un regno, ma lo stato altamente frammentario del manoscritto ha permesso solo l’identifi cazione certa del primo, coincidente con Babele e la Persia (cfr. fr. 1, col. ii, l. 5; ivi, p. 252). L’uso di alberi per rappresentare i regni ha paralleli nella letteratura profetica (cfr. Ez 17 e Zc 11,2) e affi anca l’uso di altri simboli come animali, corni e metalli. Va ricordato, a tal pro- posito, che in Dn 4 Nabuconodosor ha un sogno in cui vede «un albero di grande altezza in mezzo alla terra. Quell’albero divenne alto, robusto, la sua cima giungeva al cielo ed era visibile fi no all’estremità della terra» (4,7). Successivamente Daniele informa il re che l’albero rappresenta il re stesso e il suo regno, sebbene il testo nel prosieguo non sviluppi ulteriormente que- sta associazione, per cui non è possibile sapere se scritti come 4Q552-553 si siano proposti il compito di sanare quella che appariva a tutti gli eff etti come una evidente lacuna all’interno dei materiali autorevoli circolanti nei loro contesti di riferimento.

Nel 4 Esdra (11,1-12,51) il veggente ha un sogno in cui un’aquila con do- dici ali, otto contro-ali (che fuoriescono dalle precedenti) e tre teste (di cui una più alta delle altre) sale dal mare (cfr. Bizzarro, 2014). L’aquila vola su

tutta la terra e la domina con le ali che, obbedendo a una voce che viene fuori dal corpo dell’aquila, vegliano a turno (11,9 = aat i, p. 467). Le ali sulla parte destra regnano una dopo l’altra, con la seconda che dura più delle altre, e poi scompaiono, mentre quelle del fi anco sinistro in parte ten- gono il potere per poco, in parte scompaiono senza tenerlo aff atto, così come due delle otto contro-ali (o “alette”).

Delle sei contro-ali rimaste, due si mettono sotto la testa, mentre quat- tro meditano di regnare, ma scompaiono quasi subito o vengono divorate dalla testa di mezzo, che è la più grande. Quest’ultima regna a sua volta «più di tutte le ali che c’erano state prima» (11,32 = ivi, p. 469), per poi scomparire. Allora la testa di destra divora quella di sinistra, ma improv- visamente si vede uscire da una foresta un leone che con voce umana rim- provera all’aquila di avere oppresso brutalmente il mondo e la condanna a scomparire, liberando così i popoli. Viene allora meno l’unica testa rima- sta, e le due contro-ali superstiti tentano di regnare, «ma il loro regno era debole e pieno di disordini» (12,2 = ivi, p. 471), mentre l’aquila prende fuoco (12,3).

L’angelo spiega a Esdra che l’aquila è «il quarto regno apparso in vi- sione a […] Daniele» (12,12 = ivi, p. 471), sebbene la sua interpretazione, ora, debba essere diversa da allora (12,13): il regno prefi gurato da Daniele si riferisce, in realtà, a dodici re, dei quali il secondo durerà più di tutti; la voce uscita dal mezzo del corpo indica che verso la metà del periodo vi saranno disordini che saranno però superati e le otto contro-ali indicano otto re ancora più violenti degli altri, «i cui regni saranno brevi e i cui anni rapidi» (12,20 = ivi, p. 472) e due di questi saranno serbati per la fi ne. Le tre teste sono tre re ancora più violenti, di cui solo uno morirà nel suo letto (la testa che scompare), mentre gli altri saranno uccisi, e il primo per mano del secondo. Il leone è l’inviato di Jhwh, che annienterà l’aquila e libererà Israele (12,33-34), mentre le dodici ali rappresentano probabilmente i do- dici Cesari (Cesare, Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone, Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano, Tito e Domiziano), sebbene l’autore sembri identifi care i tre imperatori Flavi anche con le tre teste e ripetere alcuni dei Cesari minori in relazione alle contro-ali.

Non siamo di fronte a un testo storiografi co, per cui è piuttosto dif- fi cile cercare di rinvenire all’interno della visione riferimenti puntuali a vicende meglio note da altri documenti10; ciò che appare evidente, a ogni modo, è una forte ripresa dell’idea della successione degli imperi rifun- zionalizzata in chiave intraromana, nel senso che questa appare sostan-

zialmente circoscritta ai soli imperatori di Roma (il cui potere è rappre- sentato icasticamente proprio dall’immagine dell’aquila). Nel 4 Esdra, dunque, la teoria della successione dei sovrani si presenta come l’esito estremo della teoria danielica di successione dei regni, e anche in questo caso essa appare come uno strumento narrativo funzionale allo sciogli- mento della vicenda umana che si concretizza nell’avvento di un inviato divino a cui spetta il compito di inaugurare la defi nitiva aff ermazione di Jhwh e del suo popolo.

Lo schema della successione dei sovrani si trova anche nel Testamen-

to di Mosè, sebbene in una forma meno cadenzata (non più “quattro” so-

vrani, ma più genericamente re «che eserciteranno il dominio»: 6,1-9 = aat iv, pp. 221-3). Se è legittima l’ipotesi di una datazione abbastanza alta almeno per una buona parte del testo, riconducibile più o meno all’epoca di Antioco iv, il capitolo 6 appare come una sorta di inserzione succes- siva riconducibile all’epoca erodiana (37 a.C.-4 a.C.). In tale quadro, si comprende come un’inserzione che ha a che vedere con la successione di sovrani sia apparsa particolarmente effi cace proprio per delineare uno scioglimento delle vicende umane che troverebbero così una loro risolu- zione facilmente adattabile anche a una fase della storia umana diversa da quella narrata nella parte precedente del testo ma che è ritenuta stretta- mente connessa alla prima.

Se, come abbiamo peraltro già visto, è senz’altro vera l’aff ermazione secondo cui sono ravvisabili, nei testi visionari giudaici, ambiti tradizio- nali in cui i tempi fi nali si confi gurano come una fase di cesura netta tra il passato e la fase che vedrà la defi nitiva coabitazione tra Jhwh e i suoi fede- li, è altrettanto importante sottolineare che questo tempo appare talvolta come il frutto di quella vera e propria possibilità che taluni hanno di in- travedere, hic et nunc, gli eventi che si svolgeranno alla fi ne e gli eff etti che questi avranno sui propri correligionari. Il tempo fi nale o anche l’eschaton, in questo senso, appare come uno stratagemma narrativo di natura pri- smatica in cui il passato e il futuro risultano riconfi gurati per rifl ettersi reciprocamente e riprodurre così la dimensione propria dell’esperienza psicotropa e i relativi processi di reintegrazione e rievocazione. In sostan- za, l’escatologia intesa come insieme di dottrine funzionale allo sviluppo della teologia propriamente cristiana non è altro che l’elevazione a sistema di una modalità di ricostruzione narrativa, utilizzata da alcuni prosumers, derivante o in qualche modo legata a esperienze di natura psicotropa più o meno ritualizzate.

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