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31architetti e studenti che non solo

consentì l’ultimazione dell’intero complesso nel nuovo quartiere di Fuorigrotta in poco più di due anni ma collaborò a formare un’intera generazione di profes- sionisti che hanno poi prodotto il meglio di quanto realizzato a Na- poli nel secondo dopoguerra.

In tempi recenti il divario tra la formazione teorica nelle facoltà di architettura italiane e quell’a- spetto pratico, che sinteticamen- te abbiamo cercato di tracciare in questo scritto, come elemen- to complementare e necessario per una formazione completa, è dovuto anche e soprattutto a quell’immobilismo che ha rallen- tato o bloccato qualsiasi trasfor- mazione urbana e, quindi, ha portato all’assenza di cantieri.

Note:

1_Cfr. A. Castagnaro, La formazione dell’architetto. Botteghe accademie facoltà esperienze architettoniche, Liguori, Napoli 2003; G.Coppola, L’architecte et le project de construction au bas Moyen Age, in L. Callebati (a cura di), Historie de l’archi- tecte, Flammarion, Paris 1998, p.49. 2_H. Focillon, L’arte dell’Occidente, [1938], Einaudi, Torino 1987, p.152. 3_Statistiche sull’estrazione sociale degli artisti italiani tra 1420 e 1540 in P. Burke, Culture and Society, cap. III, nota 2. 4_R. De Fusco, Mille anni d’architettura in Europa, Laterza, Napoli 2007, p. 139. 5_Ph. De l’Orme, Premier tome de l’archi- tecture, Paris 1567.

Napoli è, come è noto, luogo profondamente stratificato il che implica che l’interazione con l’an- tico divenga, molto di frequente, ineludibile conditio sine qua non

laddove si progetti e si operi nel e sul costruito.

Come ogni attività complessa, il cantiere del restauro architetto- nico coinvolge numerose figure e, più in generale, competenze che concorrono al raggiungimento del risultato finale. Ma, in rela- zione a ciò, si può affermare che esista un ‘sistema’ napoletano di competenze in ambito restaura- tivo? E che esistano nessi tra gli attori coinvolti? E’ ravvisabile una chiara identificazione di ruoli e di competenze? Ovvero una visibi- lità del fare restaurativo entro il panorama edilizio partenopeo?

Ciascuno di tali quesiti non am- mette risposte univoche quando ci si sposti dal piano teorico a quel- lo del pratico operare. Dovreb- be, in primo luogo, identificarsi un preciso ambito di competen- ze, specialisticamente avvezzo al confronto con la materia storica: un ambito che, dalla formazione universitaria in campo architetto- nico e ingegneristico si estenda a quella postlaurea − attraverso, in particolare, la Scuola di Specializ- zazione in Beni architettonici e del Paesaggio dell’Ateneo Fridericia- no nonché attraverso il dottorato di ricerca − intesa quale luogo di Il cantiere di restauro e la città Valentina Russo

affinamento di un mestiere pro- gettuale complesso e rischioso, anche per l’irreversibilità che ogni scelta contiene nel suo calarsi sull’antico. Un tale background formativo trova esito, nonostante la non facile congiuntura econo- mica, sia in campo privato − stu- di professionali e imprese dalla qualificazione ad hoc (OG2), ad

esempio − sia in campo pubbli- co, con particolare riguardo al personale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Direzione Regionale per i Beni Culturali del- la Campania, Soprintendenze di settore).

Difficile, seppur presente, è il dialogo tra i due ‘poli’, soprattut- to laddove tenda a generarsi una (non rara) tensione tra lo slancio ideativo del progettista e la cauta prudenza di colui che verifica la compatibilità di scelte rispetto ad obiettivi conservativi e, non ulti- mo, parametri normativi.

I nessi, dunque, esistono ma andrebbero rafforzati in una dia- lettica disponibile ad ascoltare le ragioni dell’altro e, talvolta, a mi- surare princípi considerati come acquisiti rispetto all’estrema va- riabilità delle situazioni contin- genti.

Entro tale spettro di proble- matiche, si inseriscono quelle proprie di una città il cui centro storico − vastissimo nei suoi 720 ettari di estensione nella Varian-

te al PRG − vanta l’etichetta di “patrimonio mondiale dell’Uma- nità”, conferita in sede UNESCO; un sigillo di qualità, quest’ultimo, che implica il coinvolgimento di strutture municipali − ad esem- pio, Direzione centrale pianifi- cazione e gestione del territorio sito UNESCO − aventi un ruolo primario nell’indirizzare le scelte e, di conseguenza, la distribuzio- ne delle risorse finanziarie. Se il patrimonio architettonico privato, pur nella frammentazione degli interventi nell’assenza di un co- ordinamento complessivo delle metodologie, è stato oggetto di un vivace fiorire di interventi in anni recenti anche in virtù del co- siddetto Progetto S.I.Re.Na., nel caso delle architetture di proprie- tà pubblica si evidenzia un mino- re impatto dell’operatività entro il “sistema-progetto” cittadino.

Una parte fondamentale è rappresentata, in tal caso, dal patrimonio ecclesiastico, pro- porzionalmente molto rilevante nel centro storico partenopeo: proprietà della Curia, nonché comunali, di arciconfraternite, universitarie...si susseguono con il conseguente moltiplicarsi di

stakeholders e, dunque, finali-

tà nell’azione. Pur tuttavia, se si escludono i ‘monumenti’ di mag- gior richiamo e notorietà, una gran messe di architetture e pic- coli − sovente, preziosi − spazi

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religiosi appare destinato ad una progressiva obsolescenza.

Napoli è luogo privilegiato, dunque, nell’esercizio del proget- to e del cantiere di restauro ar- chitettonico anche in virtù di un consumo di suolo che, oltre alle fondative ragioni culturali, impo-

ne la necessità di lavorare sull’e- sistente. Ma trattasi di un esercizio ancora troppo poco ‘permeabile’ visivamente e formativamente in rapporto alla collettività: l’educa- zione alla salvaguardia si eserci- ta, come visto in apertura, soprat- tutto in sede accademica mentre

il confronto quotidiano con l’e- sperienza della conservazione − attraverso quanto si effettua nei cantieri di restauro archeologico, su manufatti d’arte e d’architet- tura − appare oggi ancora poco diffuso entro la densa trama della città.

A partire dal 2003, anno in cui Richard Florida1 ha pubblicato

“L’ascesa della nuova classe cre- ativa”, gli studi di natura econo- mica hanno iniziato a porre una particolare attenzione sul tasso di creatività che i vari sistemi terri- toriali riescono ad esprimere. Si tratta di un approccio che assi- mila la creatività non ad un atto istintivo ed immotivato, quanto ad una forma di sapere codifi- cato e diffuso coincidente con la cosiddetta economia della cono- scenza.

Essa si identifica con la presen- za di un capitale umano fatto di figure professionali evolute che spaziano dalla matematica all’in- formatica, dall’architettura all’in- gegneria, dalle scienze alle arti espressive.

Una delle specificità dell’anali- si di Florida è la sua capacità di associare il concetto di creatività a quello di luogo, ponendo l’at- tenzione su quelle aggregazioni sociali e produttive che rappre- sentano il tratto più evidente di una qualunque organizzazione sistemica strutturata intorno all’e- conomia della creatività.

Non a caso una delle più ri- correnti lamentazioni circa le ina- dempienze ed i ritardi del Meri- dione, di cui Napoli rappresenta il simbolico concentrato, è proprio sulla sua incapacità di strutturar- si come sistema e, certamente, il

Napoli tra produzione e creatività Alfonso Morone

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