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CooRdinatoRe R. Brugnoli

la distorsione della realtà

R. Brugnoli

Fondazione Paolo Pancheri, Roma

Approccio dimensionale alla schizofrenia: uno degli

aspetti più problematici del disturbo schizofrenico è quello di sfuggire ad ogni tentativo di definizione univo- ca in termini “operativi”.

Ciascuna definizione sembra di volta in volta eccessi- vamente vaga e aspecifica oppure troppo vincolante e restrittiva per un disturbo nel quale l’evidenza di una realtà clinica unitaria si associa ad una proteiforme ma- nifestazione della sintomatologia.

D’altra parte, i tentativi di definizione del disturbo sulla base della descrizione di un’alterazione psicopatologi- ca “fondamentale” non hanno trovato riscontro in dati obiettivi, così come i suggerimenti circa l’esistenza di sintomi “patognomonici” tali da eliminare l’ambiguità descrittiva.

Il problema della omogeneità/eterogeneità sindromica del disturbo schizofrenico può essere affrontato in 2 pro- spettive: l’una che interpreta la malattia come una via comune di uscita a livello sintomatologico di processi morbosi differenti; l’altra che ipotizza un unico processo morboso sostenuto da vari meccanismi patofisiologici che interagiscono reciprocamente.

Da almeno 20 anni l’approccio operativo più utile alla schizofrenia non è più stato quello di tipo tradizionale realizzato attraverso i “sintomi” bensì quello di tipo “di- mensionale”.

Sul piano della conoscenza, infatti, l’approccio dimen- sionale permette di creare modelli psicopatologici basa- ti su un numero limitato di variabili e con ipotesi pato- genetiche più semplici da studiare.

In questo approccio la malattia schizofrenica viene rap- presentata da gruppi di sintomi caratterizzati da una comune alterazione di funzione alla quale sottende un meccanismo patofisiologico specifico.

L’analisi psicopatologica della schizofrenia attraverso un criterio “dimensionale” presenta sicuramente nume- rosi vantaggi.

Il primo è rappresentato dalla possibilità di poter usu-

fruire di un modello clinicamente validabile. Le analisi di statistica multivariata (analisi fattoriali) rappresentano un classico esempio di strumento di validazione.

Il secondo è costituito dalla opportunità di correlare in

maniera molto più precisa quadri psicopatologici speci- fici con alterazioni biologiche altrettanto specifiche.

Il terzo è legato ad una utilizzazione più selettiva dei

farmaci in funzione delle dimensioni alterate in un de- terminato quadro psicopatologico.

Vi è oggi comune consenso che nella schizofrenia siano coinvolti meccanismi patogenetici multipli e complessi. I vari meccanismi interagenti sono alla base di “clusters” sintomatologici che covariano in relazione al naturale decorso della malattia e dei differenti trattamenti. È quindi intuibile come gli studi basati sulla ricerca dei correlati biologici della schizofrenia intesa come un’en- tità categoriale globale producano risultati caratterizzati da un’elevata variabilità interindividuale e in genere da una bassa significatività statistica.

In conseguenza di ciò, frequentemente, i risultati di studi effettuati su pazienti con diagnosi categoriale di “schizo- frenia” non vengono confermati su pazienti con la stessa diagnosi ma con caratteristiche cliniche differenti. Le analisi dimensionali permettono di isolare gruppi di pazienti schizofrenici omogenei in quanto caratterizzati dalla presenza di una o più dimensioni dominanti e di analizzare in maniera più precisa l’eventuale correlato biologico che sottende alle dimensioni stesse.

Dal punto di vista della terapia farmacologica l’approc- cio dimensionale offre probabilmente i suoi massimi vantaggi.

Dopo l’introduzione dei primi neurolettici bloccanti D2 verso la metà degli anni ’50, i clinici avevano pre- so coscienza che alcuni sintomi (positivi) rispondevano meglio e più prontamente di altri (negativi) quando si utilizzavano queste molecole. Vi era una risposta di- mensionale “ante litteram” da parte di alcune molecole con uno specifico profilo recettoriale. Successivamente la ricerca ha provato a sintetizzare molecole selettive per altre dimensioni specifiche della patologia schizo- frenica (“negativa”, “disorganizzazione”, “affettiva”) con risultati contrastanti.

Al di là dell’efficacia di determinate molecole antipsico- tiche, esiste ogni comune accordo sul fatto che la terapia farmacologica della schizofrenia debba sistematicamente essere personalizzata sulla base delle caratteristiche di stato e di decorso di quel determinato quadro clinico. Il profilo recettoriale e di azione farmacodinamica di ogni molecola antipsicotica condiziona la sua speci- ficità d’azione ed è quindi responsabile dell’efficacia clinica in determinati quadri psicopatologici oltre che, ovviamente, di un particolare profilo di effetti secondari e collaterali.

Appare intuitivo che l’identificazione delle dimensio- ni psicopatologiche principali della schizofrenia e dei meccanismi patogenetici che ad esse sottendono per-

mette l’utilizzo di terapie mirate in funzione del quadro clinico.

L’approccio più moderno alla descrizione della sinto- matologia schizofrenica è di tipo pragmatico e si basa su alcuni postulati.

Il primo è che nell’ambito della patologia psichiatrica

esista un gruppo di pazienti con specifiche caratteri- stiche psicopatologiche definito come “schizofrenia”. Questo specifico raggruppamento sindromico è iden- tificato sulla base dei criteri diagnostici proposti a suo tempo da Kraepelin e successivamente accettati anche nei criteri diagnostici standardizzati (DSM).

Il secondo postulato è che nell’ambito di ogni raggrup-

pamento sindromico definito come schizofrenia sia pos- sibile identificare, con metodi clinici e/o statistici, dei sottogruppi (cluster) sintomatologici relativamente in- dipendenti senza stabilire rapporti gerarchici tra questi sottogruppi.

Il terzo è che questi cluster possano variare a seconda

delle condizioni di stato e di decorso caratterizzando un determinato quadro clinico.

Il quarto è che ai sottogruppi sintomatologici isolati con

approccio empirico possano corrispondere meccanismi patofisiologici relativamente indipendenti che possano rappresentare un bersaglio specifico per interventi tera- peutici.

L’approccio dimensionale alla sistematizzazione della sintomatologia schizofrenica è relativamente recente. A partire dagli anni ’80, sulla base dell’osservazione clini- ca di stato e di decorso, veniva proposta la nota dicoto- mia tra sintomi positivi e negativi della schizofrenia. I sintomi positivi venivano definiti come alterazioni o distorsioni di funzioni psichiche normali, i sintomi ne- gativi come perdita o riduzione di altre funzioni. Esem- pi di sintomi positivi erano i deliri e le allucinazioni, esempi di sintomi negativi erano l’impoverimento del pensiero e l’appiattimento affettivo.

La dicotomia sindrome positiva/sindrome negativa in- trodotta nel 1980 ha tuttavia mostrato di non poter spie- gare in modo completo tutta la variabilità della sintoma- tologia schizofrenica. In particolare, un’ampia serie di sintomi rappresentata dai disturbi formali del pensiero, dalla disorganizzazione del comportamento e da alcune alterazioni qualitative dell’affettività non potevano esse- re attribuite con certezza a nessuno dei due raggruppa- menti sindromici principali.

A partire dalla fine degli anni ’80, con l’ausilio di nuove tecniche di analisi è stata identificata in modo indipen- dente la terza dimensione sintomatologia rappresentata dalla disorganizzazione.

la dimensione negativa

L. Tarsitani

Clinica Psichiatrica, Sapienza Università di Roma I sintomi “negativi” come appiattimento dell’affettività, apatia, abulia, anedonia, afinalismo, alogia e asociali-

tà hanno assunto un’evidente ed indiscussa importan- za nella schizofrenia e il loro studio è reso difficile da numerose limitazioni concettuali e metodologiche. La dimensione negativa è un robusto fattore predittivo di disabilità e scarso funzionamento socio-lavorativo, ed è associato a cronicità ed alterazioni cognitive. Verrà presentata un’analisi della dimensione “negativa” dalle definizioni psicopatologiche che ne hanno delineato la storia nella nosografia psichiatrica, alle evidenze empiri- che più recenti che hanno validato l’esistenza di un fat- tore costituito da sintomi e segni sottesi da una generale alterazione della sfera affettiva, che tendono a covariare nella schizofrenia. Verranno discussi i dati riguardanti l’impatto clinico del costrutto negativo, le ipotesi più rilevanti sui correlati neurobiologici con le relative evi- denze empiriche (brain imaging, modelli farmacologici ecc.) e le tendenze attuali sulla farmacoterapia.

disorganizzazione

P. Rocca, T. Mongini, L. Pulvirenti

Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Psichiatria, Università di Torino

Introduzione: che la disorganizzazione rappresenti il

punto centrale, il “core” della patologia schizofrenica è ben evidenziato nel pensiero bleuleriano nella costruzio- ne teorica che l’Autore fa della malattia. Tale costruzione poggia infatti sulla distinzione fra sintomi primari, “sin- tomi diretti del processo morboso” e sintomi secondari, “reazioni della psiche malata” e il primo dei sintomi pri- mari è la “diminuzione e livellamento delle affinità as- sociative”, quell’indebolimento cui si deve l’incapacità “organizzativa” dello schizofrenico. La dimensione di- sorganizzazione è considerata nell’ambito dell’approccio categoriale sia nel DSM-IV-TR che nell’ICD-10. Nel pri- mo, tra i cinque sintomi necessari per porre diagnosi sono inclusi sia l’eloquio che il comportamento disorganizzato e nel secondo l’eloquio incoerente e risposte emozionali incongrue, anche se citate come sintomi negativi. Dal- l’approccio dimensionale, è risultato che il modello a tre-sindromi, distorsione della realtà, sintomi negativi e disorganizzazione, è la struttura fattoriale più valida della sintomatologia schizofrenica. L’approccio dimensionale ha portato luce all’intuizione di Bleuler secondo la quale la dimensione disorganizzazione è strettamente legata ai disturbi formali del pensiero e del linguaggio e ha reso possibile una definizione più precisa del disturbo del pensiero. Un metodo per fornire una descrizione più pre- cisa della disorganizzazione della schizofrenia è conside- rare le anomalie cognitive che sono alla base dei disturbi del pensiero e del linguaggio come guide per rileggere i sintomi clinici e indicare nuovi segni clinici. I modelli cognitivi proposti sono la compromissione del processa- mento delle informazioni, l’incapacità di discriminazio- ne e l’eccesso di stimolazione, il deficit dell’integrazione percezione-cognizione-emozione e l’alterazione di que- ste integrazioni.

Metodi: lo scopo della relazione è presentare i risultati

di una nostra ricerca sulla dimensione disorganizzazio- ne nella schizofrenia, facendo riferimento al modello teorico che prevede l’integrazione di percezione-cogni- zione-emozione. Sono stati reclutati 82 soggetti affetti da schizofrenia presso la SCDU Psichiatria 1 e il DSM Torino 1 Sud. I pazienti sono stati sottoposti ad un ampio assessment clinico (SCID, SANS, SAPS, CGI, CDSS, QLS, GAF), ad una approfondita batteria di test cognitivi (TIB, Stroop, CVLT, TMT, WCST) e al CATS (Comprehensive Affect Testing System – versione italiana realizzata dal nostro gruppo di ricerca) per esplorare differenti aspetti dell’espressività facciale e del tono di voce.

risultati: i risultati preliminari del nostro studio eviden-

ziano una correlazione tra la dimensione disorganizza- zione e la gravità di malattia, il funzionamento globale e la qualità di vita. I disturbi formali del pensiero e il comportamento bizzarro risultano associati al funziona- mento cognitivo (in particolare, attenzione, memoria, astrazione) e alla percezione emotiva.

conclusioni: i nostri risultati si allineano con il modello

di Hardy-Baylé et al. (2003), secondo il quale i mecca- nismi cognitivi responsabili delle alterazioni di pensiero e di linguaggio nella schizofrenia sono deficit dell’in- tegrazione dell’informazione contestuale e della cogni- zione sociale.

la dimensione aggressività

R. Delle Chiaie

Clinica Psichiatrica, Sapienza Università di Roma La dimensione aggressività ha tre componenti che ne condizionano le manifestazioni psicopatologiche: il vis- suto, il controllo e il comportamento. Vissuti di rabbia, di aggressività, di ostilità sono una normale risposta sog- gettiva alla frustrazione. Possono assumere una connota- zione psicopatologica quando sono persistenti, ricorren- ti, invasivi e poco motivati. Le modalità di controllo o di discontrollo di questi vissuti ne condizionano l’espressi- vità a livello comportamentale ed è usualmente a questo livello che assumono un carattere più netto di interesse psichiatrico. Nella schizofrenia, in concomitanza con le dimensioni disorganizzazione e trasformazione del- la realtà, l’aggressività si manifesta con comportamen- ti impulsivi molto spesso secondari di vissuti deliranti o allucinatori. Varie linee di evidenza depongono per una possibile azione specifica degli antagonisti 5HT2 > D2 in questa dimensione. Sia clozapina che olanzapina hanno dimostrato di controllare in modo significativo i comportamenti di discontrollo aggressivo nei malati schizofrenici, indipendentemente dall’azione sui sinto- mi “psicotici”. In particolare, clozapina ha mostrato di ridurre i comportamenti suicidari dove è presente una componente di discontrollo autoaggressivo. L’efficacia “antiaggressiva” dei farmaci di questa classe è stata at- tribuita al blocco selettivo dei recettori 5HT2 che è pre- sente anche nei trattamenti a dosaggi ridotti.

MercOledì 11 FebbraIO 2009 – Ore 15.30-17.30

Sala MaSaCCio

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