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Dipartimento di Scienze politiche e sociali, Università degli Studi di Salerno, Salerno

Medicina Historica 2020; Vol. 4, Suppl 1: 43-44 © Mattioli 1885

S t o r i a d e l l a s a n i t à p u b b l i c a

Gli studi sulla peste di Napoli hanno solo di recen- te riguardato la medicina, ovvero, sia i modi con cui si è cercato di limitare i danni della peste durante i mesi dell’epidemia (febbraio 1656-novembre dello stesso anno) sia le teorie mediche elaborate post eventum da chi, oltre ad essere già un medico, ebbe modo di osser- vare da vicino la dinamica del morbo. Così solo da poco è iniziato un percorso che potrà portare ad elaborare proficui confronti con i vari contesti della penisola in cui è dilagata la peste ed in particolare quello romano, su cui già vari anni fa si è realizzata una felice esperienza di studio che ha visto la partecipazione di studiosi sia di ambito storico sia di ambito storico-medico (1, 2). I ri- sultati cui ha portato quell’esperienza facevano indivi- duare alcuni tratti generali della considerevole trattati- stica medica che uscì a stampa dopo l’ondata epidemica. Come ha osservato Maria Pia Donati nel suo saggio, “La peste dopo la peste. Economia di un discorso roma- no (1656-1720)” – in I. Fosi (a cura di). La città assedia- ta. La peste a Roma (1656-1657), «Roma moderna e contemporanea», 1 (2006) – la virulenza del male e i rischi connessi alla perdita di popolazione fecero sì che pratiche e discipline fino ad allora viste con sospetto o avversate guadagnassero spazio e credibilità, ovvero, la chirurgia e la chimica. Per quel che riguarda la teoria medica invece la studiosa notava come le spiegazioni del morbo che si rintracciano nella trattatistica medica non siano né nette né decisamente innovative poiché in essa convivono sia la spiegazione miasmatica di ascendenza galenica, che induceva a spiegare l’origine del male con la corruzione dell’aria, dei cibi, delle acque, sia la spiega- zione ‘atomistica’ o se si vuole ‘ontologica’, che ricondu- ceva la peste a corpuscoli che si sarebbero trasmessi at- traverso la saliva ed altre sostanze organiche. Accanto a ciò, vari medici continuarono a credere che la peste fos-

se trasmissibile mediante miscele preparate allo scopo, una convinzione che – attestata ampiamente tra Cinque e Seicento – si era diffusa durante la peste milanese del 1630 e soprattutto con la confessione degli stessi untori (per quanto, come Manzoni avrebbe sottolineato, estor- ta con la forza). Lo sbandamento provocato dai fatti milanesi è evidente anche nel contesto napoletano. Come è stato notato, non in tutti i contesti in cui si diffuse la peste si diede spazio alla teoria della “peste manufatta”. Nel caso di Napoli, invece, le difficoltà con- nesse alla gestione dell’evento fecero sì che il viceré fo- mentasse la credenza negli untori. Secondo il padre Florio (autore di “Cladis epidemiae florentissimam Neapolitanam urbem devastantis”, Verona, 1661) furo- no proprio i deputati della salute – per coprire ritardi e insufficienze nel tentare di arginare il diffondersi del male – a mettere in giro la voce secondo cui appunto tutto fosse stato causato da untori, ovviamente, «nemici della Corona». L’esecuzione di un certo Vittorio Ange- lucci (originario della campagna romana) doveva ap- punto inoculare insieme ad un po’ di sollievo la certezza che il viceré punisse appunto gli untori e che – giustizia- ti tutti – si sarebbe tornati alla quiete. Le esecuzioni di uomini giudicati solo untori furono però pochissime (un altro caso, oltre a quello di Angelucci, è quello di un certo Antonio Battaglia, giustiziato il 12 giugno) perché il viceré si rese ben conto che il rimedio estremo poteva provocare altri mali; nello stesso tempo, si avviarono ri- cerche sulle cause più certe del male. La tesi della tra- smissione della peste mediante polveri e misture fu sventolata soprattutto per punire chi – in quei mesi – cospirò contro il governo o per confondere chi era con- vinto che gli spagnoli o il viceré avessero lasciato che in città si diffondesse la peste. In effetti si era verificato che, nonostante un divieto proibisse ogni contatto con

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la Sardegna dove già imperversava la peste, dal luglio 1652, il viceré diede il permesso di far sbarcare dei sol- dati infetti da una nave giunta appunto dalla Sardegna. La tesi secondo cui gli spagnoli volessero punire la città per la rivolta del 1647 prese piede unitamente ad altre, alimentando risentimenti, paure ed innescando dinami- che forse inattese (si videro infatti degli uomini che re- almente sparsero della polvere nelle fontane pubbliche). Se nel trattato del medico originario di Sala (nel Vallo di Diano), Geronimo Gatta, la spiegazione delle polve- ri è completamente rigettata (Di una gravissima peste […], Napoli, 1659), questo non accade nel breve tratta- to di un altro medico, anzi, dell’altro medico che diede alle stampe un proprio contributo sulla peste nel conte- sto napoletano: il Torchio delle osservationi della peste di Napoli (Napoli, 1659). L’autore, il filosofo e medico Carlo Morexano, era originario di Messina ma era a Napoli durante la peste e molto probabilmente vi risie- deva già da prima, poiché si professa allievo del grande scienziato Marco Aurelio Severino; il modo in cui lo cita non lascia dubbi sulla sua ammirazione e nostalgia per il maestro, morto di peste nel luglio del 1656 («il mio amatissimo Precettore, il dottissimo …»). Morexa- no aveva lavorato con lui nelle settimane precedenti la sua morte poiché, tra i rimedi, cita l’applicazione sui bubboni di lana di capra imbevuta di olio caldo, che ave- va sperimentato (come egli stesso racconta) il chirurgo calabrese. La sua testimonianza è quindi preziosa per chi voglia tentare di conoscere il modo in cui Severino affrontò la peste. Inoltre, la stessa biblioteca che mobili- ta rinvia ad un contesto aperto ed interessato alle novità scientifiche prodottesi di recente nella «respublica lite- raria» europea, quale era il milieu intellettuale napoleta- no di quegli anni. Morexano cita vari autori cari a Seve- rino come van Helmont e vari seguaci di Paracelso tra cui Oswald Croll e Johannes Hartmann, letti e citati anche da altri medici a Napoli in quegli anni. Da un punto di vista eziologico, siamo di fronte ad una teoria ancora in bilico tra vecchio e nuovo; Morexano nega gli influssi astrali, citando dal Tumulus Pestis di van Hel- mont («Coeli non ad Causam, sed ad signa futurorum»), ma nello stesso tempo accoglie nozioni di teorie diverse (rigettate dall’altro medico, Gatta). Accoglie le nozioni galeniche, secondo cui il male attecchisce in un soggetto che ha già una predisposizione a riceverlo (p. 9) e si ge- nera dalla putrefazione dei «tre corpi semplici elemen-

tari»: aria, terra e acqua. Tuttavia Morexano parla anche di «atomi pestiferi» e, pur non chiarendo quale fosse la loro origine (ma verosimilmente la attribuiva proprio alla corruzione), invita ad evitare i luoghi affollati in quanto ritiene che anche un sano potesse essere porta- tore di peste. In sintesi, Morexano sembra accettare il paradigma fracastoriano, secondo cui appunto i corpu- scoli giungono dai cibi ed elementi corrotti. Oltre a ciò, ritiene possibile che la peste venisse introdotta con delle polveri. A confondere il medico era stato non solo, evi- dentemente, ciò che era accaduto a Napoli, ma anche una parte della stessa trattatistica che aveva letto; Quer- cetanus, ad esempio, nel suo Pestis Alexicacus (1608) afferma che la peste si potesse introdurre mediante «ar- tifici» e con lui era d’accordo anche Cellino Pinto (Compendioso trattato sopra ‘l Male della peste, 1631). La peste poteva essere «portata» da un luogo ad un altro, mediante «varie, e pessime compositioni, o misture, che alle volte si sono osservati formarsi, e adoprarsi da per- sone indegne». Morexano era certo che appunto in quel modo si fosse diffusa la peste a Milano («in memoria di che fu piantata in Milano una colonna di marmo, sulla base della quale sta inciso quanto sopra di questa mate- ria è succeduto»). Per quel che riguarda la terapeutica, nega che il salasso sia utile mentre accoglie rimedi chi- mici come il «croco di metalli» di Croll, la pietra filoso- fale di Leonardo Fioravanti, una sorta di sciroppo di Johannes Hartmann. La sua terapeutica rivela quindi la stessa fiducia nella medicina chimica dell’Accademia degli Investiganti, non a caso detta anche Accademia chimica, di cui dopo la peste Severino sarà l’indiscusso nume tutelare.

Bibliografia

1. D’Alessio S. On the Plague in Naples, 1656. In: De Caprio C, Cecere D Gianfrancesco L, Palmieri P (eds.) Disaster narra- tives in Early Modern Naples. Politics, Communication and Culture. Roma: Viella; 2018:187-204.

2. D’Alessio S. L’aria innocente. Geronimo Gatta e le sue fonti. Mediterranea-ricerche storiche 2018; 15:587-612.

Corrispondenza: Silvana D’Alessio

Dipartimento di Scienze politiche e sociali Università degli Studi di Salerno, Salerno E-mail: sdalessio@unisa.it

L’igiene delle classi sociali “deboli” in età tardoantica

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