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Dipartimento di Scienze Mediche, Università degli Studi di Torino, Torino; Ospedale Amedeo di Savoia, Torino

Medicina Historica 2020; Vol. 4, Suppl 1: 34-35 © Mattioli 1885

S t o r i a d e l l a s a n i t à p u b b l i c a

La filologia classica, nella sua definizione più con- divisa, è la disciplina teorica che si propone “mediante la critica testuale di ricostruire ed interpretare corretta- mente testi e documenti letterari; studia inoltre l’origi- ne e la struttura di una lingua (linguistica) (1)”.

Attualmente la filologia classica si basa sulla me- todica di Karl Lachmann, successivamente riveduta e corretta iuxta propria principia con gli importanti contributi della scuola italiana da Giorgio Pasquali a Sebastiano Timpanaro (2-3).

La storiografia tucididea si colloca nel panorama della letteratura greca in una posizione di originalità e rilievo rispetto ai suoi predecessori (Erodoto), con- temporanei (Senofonte) e successori (Polibio, Arria- no) in quanto nella storiografia di Tucidide si passa dal concetto erodoteo di ʽλόγοςʼ, con una narrazione degli avvenimenti senza filtri e senza selezione del- le fonti, all’utilizzo della metodologia denominata ʽἀκριβείαʼ, che indica appunto l’attenta analisi cri- tica e selettiva delle fonti, anche se, come obiettarono molti critici anche contemporanei di Tucidide, non è ben chiaro quali siano i criteri con cui l’autore di- scrimina le fonti scegliendo di fatto in modo autocra- tico cosa riportare e cosa omettere. Gli avvenimenti inoltre vengono narrati come ʽσυγγραφήʼ, cioè come accadimenti contemporanei o accaduti da poco e av- venuti in un periodo di tempo limitato, mentre nel ʽλόγοςʼ erodoteo o nella ʽἱστορίαʼ di Polibio gli av- venimenti descritti sono relativi ad un arco temporale molto ampio e lontano nel tempo rispetto al narrato- re (4). Il racconto della pestilenza che occupa la nar- razione del secondo libro (La guerra del Peloponneso

II, 47-54) offre spunti interessanti per un’analisi filo- logica applicata allo studio della storia della medicina con particolare attenzione verso l’epidemiologia e le malattie infettive, pur escludendo tuttavia da questo studio la vexata quaestio sulle origini eziopatologiche (microbiologiche e virologiche) della causa infettiva scatenante che sconvolse Atene nel secondo anno della guerra del Peloponneso, nel 429 a.C.

La contemporaneità del racconto tucidideo della pestilenza è risaputa e riportata dallo stesso autore che da ammalato poi guarito fornisce una descrizione sog- gettiva e oggettiva allo stesso tempo degli aspetti sin- tomatici del morbo, soffermandosi poi su implicazioni più strettamente sociali ed epidemiologiche inerenti le modalità di trasmissione e diffusione del contagio. Il ʽξυνέγραψεʼ che apre il racconto della guerra (I,1) rende bene l’idea di una scrittura che segue di poco in senso temporale gli accadimenti, “cominciando subito al suo sorgere”. In questo senso è notevole l’intuizione prospettica di ʽἀξιολογώτατονʼ come ‘degno di essere riportato’. Nella descrizione della pestilenza, è interes- sante notare come in Tucidide coesistano nella stessa descrizione ma con differenti accezioni termini comu- nemente traducibili come “malattia” quali ʽνόσοςʼ, di derivazione dallo ionico ʽνόσϝοςʼ (languido, fiacco, consumato), molto utilizzato nel corpus ippocratico come accezione generica e teorica di “malattia” nel suo senso più astratto, ʽνόσημαʼ derivato neutro dal femminile ʽνόσοςʼ ma con un’accezione più “stati- ca” e generica di “stato di male” o “malessere”, e infi- ne ʻλοιμόςʼ di chiara derivazione letteraria dall’epica omerica e dalla tragedia (Eschilo) dove indica lo stato

Lo studio filologico applicato alla descrizione della “pestilenza” di Atene di Tucidide 35

“dinamico” e “negativo” di pestilenza, morbo, calamità, flagello con chiaro riferimento a condizioni belliche, di morte e distruzione (vedi l’associazione enfatica con ʻφθοράʼ in II,47 nel significato di “corruzione del cor- po, rovina, deterioramento”, già in Eschilo, Ag. 406 e Sofocle, Ant.1224). Particolarmente degna di nota è la descrizione che Tucidide fa in prima persona della mo- dalità del contagio, con singolare attenzione agli effetti sociali e sull’umore complessivo della collettività. In II, 51, 4 la descrizione delle persone nell’intento di aiutar- si l’un l’altra viene rappresentata con ʻθεραπείαςʼ che qui ha l’accezione di “essere vicino, aiutarsi, assister- si” con l’immagine visiva del “contatto” interpersonale stretto, e di conseguenza legato al concetto di “conta- gio, diffusione”, mentre nella medicina ippocratica e nei testi galenici il verbo ʻθεραπεύωʼ assume il signi- ficato più astratto e generico di “curare, dare terapia”, in senso strettamente medico o farmacologico. Il suc- cessivo utilizzo di ʻἀναπίμπλημιʼ ha qui un significato molto diverso da quello documentabile in precedenza; letteralmente “riempire fino all’orlo” riferito ad azioni legate al riempimento meccanico di vasi o altri conte- nitori di liquidi (acqua, olio), oppure, in senso traslato, col significato negativo di “colmare la misura” (Erodo- to, V,4) o “compiere il proprio destino” (Omero, Iliade, IV, 170). In questo caso l’utilizzo del verbo mantiene una vicinanza col significato letterale originario di “ri- empirsi”, con una maggiore enfasi sul “saturarsi” inteso come contatto prolungato con i malati e la malattia e il diffondersi del contagio. Possiamo definire in questo caso un hápax legómenon l’utilizzo di ʻἀναπίμπλημιʼ in Tucidide in quanto in nessun altro passo della lette- ratura greca compare con questa particolare accezione. Il significato visivo e fisico del “contatto” che Tucidide vuole indicare con questo verbo è ancora più marcato se si considera che in altri passi per indicare il concet- to più generico di “stare vicino, vicinanza” è utilizzato invece il ben più approssimativo ʻπρόσειμιʼ. La rile- vanza di questo utilizzo nella descrizione della modali- tà del contagio è riscontrabile nella citazione che Tito Livio fa nella descrizione della pestilenza di Siracusa del 212 a.C. in cui il periodo tucidideo è perfettamente traslato nel latino “curantesque eadem vi morbi reple- tos secum traherent” (ab Urbe condita, XXV, 26, 8). In questo caso ‘repletos’ ripete esattamente l’accezio- ne figurale di ʻἀναπίμπλημιʼ, anche qui per la pri-

ma volta con significato loimologico non presente in nessun precedente della letteratura latina. Che la frase sia ricalcata sul testo tucidideo probabilmente come omaggio al modello storico greco lo possiamo dedurre dal fatto che lo stesso Livio altrove preferisca utilizzare ‘contagio pestifera’ per indicare la diffusione della pe- stilenza (XXVIII, 34,4).

La descrizione storica di Tucidide differisce pro- fondamente da quelle che lo hanno preceduto e segui- to; qui l’intento della descrizione puramente storica è superato dall’esperienza diretta che l’autore ha avuto della malattia “ἰατρὸς καὶ ἰδιώτης” e dall’insegna- mento che, partendo dall’osservazione delle modalità di contagio, egli può descrivere per suggerire come prevenire o intervenire in futuro in caso di nuovi epi- sodi di pestilenza; lo “κτῆμά τε ἐς αἰεὶ” che anima tutta la storia tucididea ha qui il particolare intento che potremmo definire ante litteram di sanità pubblica o medicina preventiva: osservare e conoscere le cau- se direttamente, senza filtri o pregiudizi o distorsioni religiose e irrazionali per guidare interventi risolutivi nell’intera comunità.

Bibliografia

1. Battaglia S. GRADIT. Torino: UTET; 1978.

2. Pasquali G. Storia della traduzione e critica del testo. Firenze: Le Monnier; 1952.

3. Timpanaro S. La genesi del metodo del Lachmann. Torino: UTET; 2004.

4. Canfora L. Storia della letteratura greca. Bari: Laterza; 2018. Corrispondenza:

Lucio Boglione

Dipartimento di Scienze Mediche Università degli studi di Torino Ospedale Amedeo di Savoia, Torino E-mail: [email protected]

Agostino Pagani

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