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1 Azienda Socio Sanitaria Territoriale Papa Giovanni XIII, Bergamo; 2 Fondazione IRCCS Istituto dei Tumori, Milano; 3 Scienze

infermieristiche, Università degli Studi di Milano, Milano

Medicina Historica 2020; Vol. 4, Suppl 1: 175-177 © Mattioli 1885

S t o r i a d e l l a M e d i c i n a d e l L a v o r o

«Individui che con occhi vacui fissavano il vuo- to, muti, spaventati da tutto e da tutti». Cosi scrive un’infermiera inglese a proposito di una malattia, for- se già vista, ma mai così diffusa e con sintomatologia così marcata, un’infermità nata sui campi di battaglia e nelle trincee della Prima guerra mondiale che solo nel tempo fu nominata con il termine anglosassone di shell

shock, la sindrome da granata (1).

Le origini della patologia furono da subito og- getto di numerosi dibattiti. Inizialmente pensata come malattia dall’insorgenza postuma a danni cerebrali, divenne presto considerata la conseguenza di traumi psicologici derivanti dalla guerra stessa. La maggior parte dei soldati affetti da tale sindrome, infatti, non presentava ferite fisiche, ma si era trovata molto vici- no ad un’esplosione o aveva vissuto in prima persona esperienze traumatiche. I malati, con il proseguire del conflitto, furono individuati pressoché in tutti gli eser- citi, ognuno dei quali li definì ed approcciò in modo diverso (2).

Le vittime di tale morbo seguivano l’iter sanitario bellico, venivano condotti dalle trincee ai punti di pri- mo soccorso, ove erano medicati e spesso reindirizzati al fronte con scarso successo.

Se la sintomatologia non regrediva con il semplice riposo, i soldati venivano condotti nei centri di seconda e terza linea che potevano essere sia ospedali da cam- po che strutture in muratura recuperate. Già nel 1916, furono istituiti reparti appositi per la nevrosi da guerra e nell’estate del 1917, ogni armata era dotata di primi centri neurologici. Nell’esercito italiano, tra il 1917 e il 1918, il servizio psichiatrico della 1ª Armata esaminò 3174 casi di soldati che lamentavano malattie mentali,

dei quali 864 convulsionari: di questi ultimi solo l’1,3% fu ritenuto malato e tradotto in manicomio, mentre il 74,8% venne ritenuto simulatore e rispedito ai reparti incondizionatamente ed un altro 9,8% avviato anch’es- so ai reparti, ma temporaneamente, a causa di affezioni fisiche concomitanti. Da notare inoltre come l’avvio al manicomio non costituisse una certezza di evitare la guerra. Spesso ai primi segni di ripresa dai disturbi, i militari ricoverati venivano rimessi in servizio, a dimo- strazione di come la volontà dei medici di rigettare il soldato in battaglia fosse forte quanto il disturbo (3).

I metodi di cura applicati erano dei più disparati, per la maggior parte assolutamente sperimentali: dalla somministrazione di rum ad alte dosi, terapia appli- cata in particolare nei primi soccorsi vicino al fronte, alla terapia occupazionale, utilizzata in quasi tutti gli eserciti in contesti protetti. Il lavoro manuale, me- diante l’utilizzo di strumenti appositi, era finalizzato a migliorare il coordinamento motorio ed a dare un reinserimento sociale a questi malati che spesso si ver- gognavano di questa patologia. Era credenza comune che solo i fragili e i deboli ne soffrissero, mentre i veri soldati combattevano in qualsiasi condizione. Altra te- rapia era il Torpillage che consisteva in elettrizzazioni a 35 milliampere, 70 volt, erogate alle parti del corpo che si rifiutavano di funzionare (4).

Un medico inglese, William Rivers, neurologo ed antropologo, adottò una versione rimodellata di freu- dismo. Osservò come spesso reprimere i ricordi della guerra e non lasciarne libero sfogo producesse effetti devastanti. In particolare, nel 1917, durante una pre- sentazione alla Royal Society of Medicine, che pubblicò sul The Lancet nel 1918, afferma che: «Il processo di

V. Chiccoli, M.L. Pancheri, A. La Torre

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repressione mantiene i ricordi dolorosi o pensieri sot- to una sorta di pressione, accumulando tale energia i sentimenti esplodono e corrono attraverso la mente con velocità anormale. Manifestano violenza quando il paziente è sveglio, o prendono le forme più vivide e dolorose nell’immaginario dei sogni» (5). L’ospedale di Craiglockhart, ad Ediburgo, si specializzò esclusi- vamente per i malati di shell shock e nel 1916 Rivers introdusse la talking cure o cura della parola. Secondo questo trattamento, il ricordare e l’incoraggiare i ma- lati ad esprimere le proprie memorie era un modo per liberarsi da ciò che poi si ripresentava sotto forma di incubi notturni.

Nonostante la presenza di analfabetismo diffusa tra i soldati, la terapia fu applicata anche attraverso la parola scritta. Fu creata, infatti, una rivista dedicata alle creazioni dei ricoverati: The Hydra, il mostro a più te- ste sconfitto da Ercole, un’analogia con i soldati malati, ove ogni volta che si tentava di tagliare un ricordo, ne affioravano altri due alla loro mente. La rivista era un mezzo per poter condividere le proprie esperienze vis- sute attraverso scritti o disegni.

In questa rivista scrissero anche alcuni tra i più importanti poeti di guerra della letteratura inglese, quali Wilfred Owen e Siegfried Sassoon (6).

Le infermiere che lavoravano presso questo isti- tuto erano di sesso femminile ed avevano la specializ- zazione in infermieristica psichiatrica. In Inghilterra il primo manuale di formazione infermieristica in questo campo apparve già nel 1885 e la specializzazione nac- que agli inizia del Novecento ad Edimburgo. Non vi sono prove certe che realmente vi fossero delle diffe- renze nella formazione tra loro e le infermiere genera- liste, infatti la grande svolta avvenne solo nel 1923 con la creazione di corsi appositi universitari riconosciuti (7).

Per quanto riguarda l’organico infermieristico, non vi fu un numero stabile per tutto il periodo di apertura del nosocomio, potevano variare da 40 a 300 a seconda del periodo. Le infermiere provenivano per quasi il 70% dal Galles, mentre le restanti dalla Scozia e dall’Irlanda. La loro età era compresa tra i 16 e i 40 anni. La costante presenza delle infermiere accanto ai malati di shell shock aveva lo scopo di farli sentire al sicuro, la scelta sul genere femminile doveva aumentare il senso materno di protezione e di un clima famiglia-

re. Le infermiere dovevano favorire il giusto riposo ai soldati, aiutato anche attraverso l’uso di terapia farma- cologica, e garantire un ambiente pulito e rilassante. Le corsie venivano pulite con meticolosità e decorate sempre con fiori freschi e addobbi, soprattutto durante le festività.

Vi erano momenti di condivisione di danze e mu- sica suonata dal vivo.

Le infermiere seguivano anche dei momenti isti- tuzionali di attività fisica in palestra o negli spazi aper- ti. Stavano accanto al malato, ascoltandolo, aiutandolo a raccontare attraverso una presenza silenziosa ma co- stante e raccogliendo i ricordi dei soldati (8).

Nonostante fossero lontane dalla battaglia, la vita per queste infermiere non fu facile. I diari e gli scritti che ci hanno lasciato evidenziano come vivessero gli echi di quello che ascoltavano.

L’infermeria Claire Tisdall descrive il momento in cui accoglievano i malati: «Mi ero abbastanza abi- tuata a trasportare i malati di shell shock. Era una cosa orribile, in quanto solitamente avevano questi attac- chi, diventavano inconsci con violenti tremori e scosse. Ovviamente questi erano denominati casi lievi, non trattavamo più quelli pericolosi. Erano decisamente fuori di testa. Io non volevo vederli, perché a volte non c’era niente che tu potessi fare, era terribile» (4).

Il Craiglockhart Hospital ebbe vita breve e rimase aperto solamente per 17 mesi, accusato da alcuni ispet- tori del dipartimento della guerra di antimilitarismo. L’istituto curò 1560 pazienti dall’ottobre del 1916 a febbraio 1919, periodo durante il quale, le infermiere dell’ospedale si occuparono dei pazienti garantendogli nutrizione, riposo e riabilitazione fisica, ma non solo: esse furono le protagoniste della talking cure, metten- dosi in ascolto dei soldati desiderosi di esprimere i pro- pri vissuti per liberarsi da un peso che risultava troppo grande per essere sopportato da un solo animo umano.

Bibliografia

1. Warner A. Nurse at the Trenches: Letters Home from a WWI Nurse. POD: Diggory Press; 2005.

2. Jones E, Wessely S. Shell Shock to PTSD: Military Psychia- try from 1900 to the Gulf War. New York: Psychology Press; 2005.

La Sindrome da Granata e la Talking cure 177

sformazioni del mondo mentale. Torino: Bollati Boringhieri; 2014.

4. Reid F. Medicine in First World War Europe: Soldiers, Me- dics, Pacifists. New Delhi: Bloomsbury Publishing; 2017. 5. Grogan S. Shell Shocked Britain: The First World War’s Le-

gacy for Britain’s Mental Health. Barnsley: Pen and Sword; 2014.

6. Durst Johnson C, Meredith JH. Understanding the Litera- ture of World War I: A Student Casebook to Issues, Sources, and Historical Documents. Santa Barbara: Greenwood Pu- blishing Group; 2004.

7. Owen W. The Hydra: Journal of the Craiglockhart War Ho- spital. Oxford: Oxford University Press; 1998.

8. Borsay A, Dale P. Mental health nursing: The working lives of paid carers, 1800s-1900s. Oxford: Oxford University Press; 2015.

9. Hallet EC. Containing Trauma: Nursing Work in the First World War. Manchester: Manchester University Press; 2011. Corrispondenza:

Anna La Torre

Scienze infermieristiche

Università degli Studi di Milano, Milano E-mail: latorretintori@gmail.com

Sinergie tra pubblico e privato nella evoluzione della

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