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Centro studi sulla storia del pensiero biomedico, Università degli Studi di Milano-Bicocca, Milano

Medicina Historica 2020; Vol. 4, Suppl 1: 84-88 © Mattioli 1885

S t o r i a d e l f a r m a c o

Il lungo cammino che ha portato alla nascita dei farmaci che oggi utilizziamo è stato articolato e com- plesso, ricco di affascinanti conquiste e di cocenti de- lusioni. In questa prospettiva gli scenari del passato aiutano a comprendere i nodi del presente e a riflettere sulle prospettive future legate al mondo dei farmaci.

Dalle pratiche magiche ai farmaci vegetali

La ricerca di rimedi efficaci contro il dolore e le malattie è sempre stata una preoccupazione costante dell’uomo sin dall’epoca preistorica. Il riscontro casua- le delle proprietà benefiche di erbe, di acque sorgive, di cibi ne legittimava l’uso come rimedio curativo. L’a- zione terapeutica veniva poi potenziata con il ricorso a pratiche magico-religiose in grado di facilitare la gua- rigione scacciando dal corpo del malato lo “spirito cat- tivo” o eliminare il “male morale” ritenuto responsabile della malattia.

Questa visione venne superata successivamente dall’idea della malattia come evento naturale operata dal razionalismo greco-romano. Secondo la concezio- ne umorale di Ippocrate (460-377 a.C.), ripresa e am- pliata poi da Galeno (129-199 d.C.), la malattia era espressione di un difetto o di un eccesso della tetrade umorale (sangue, flegma, bile, atrabile) dell’organismo. In questo contesto l’approccio terapeutico si sviluppò nell’ambito della dietetica, attraverso un gioco com- plesso di rimandi tra “qualità” delle sostanze prescelte e “temperamenti” (sanguigno, flemmatico, bilioso, atra- biliare) dell’organismo malato, che consentiva di pre- parare medicamenti vegetali adatti alla cura: purganti, narcotici, diaforetici, diuretici, emetici.

La fine dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.) segnò l’inizio del Medio Evo, consegnando all’e- mergente civiltà araba il primato della conoscenza in ambito medico e farmacologico. La cura delle erbe co- stituiva uno dei cardini della medicina araba. Accanto a questo sapere d’importazione orientale, una preziosa opera d’approfondimento delle proprietà medicamen- tose delle piante medicinali si svolgeva nel silenzio dei conventi, dove la medicina monastica tramandava le conoscenze dell’antica farmacologia vegetale, e nelle animate aule delle nascenti università, dove la medi- cina rinascimentale catalogava e descriveva in eleganti erbari le piante medicinali coltivate negli orti botanici. Il Rinascimento rivoluzionò non solo la cultura – anche medica –, ma pure la farmacologia. Paracelso (1493-1541) contrappose alla concezione terapeutica ippocratico-galenica “contraria contrariis curantur” l’aforisma “similia similibus curantur”, col quale giusti- ficava l’uso generoso del laudano (tintura d’oppio) per il dolore o del mercurio per la sifilide. Egli proponeva una terapia protochimica, basata sulla trasformazione alchemica dei metalli, piuttosto che la semplice cura centrata sui rimedi vegetali: una farmacologia di rottu- ra e di contestazione del passato.

La farmacologia clinica e la nascita dell’industria farmaceutica

Analogo radicale cambiamento caratterizzò, nei due secoli successivi, la concezione puramente “mecca- nica” degli eventi morbosi, aprendo le porte ad una vi- sione più “chimica” dei fenomeni patologici, premessa fondamentale per la nascita di una farmacologia razio-

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nale (chimica e non più solo alchemica) e sperimentale (verificata e non più solo empirica) dei rimedi curativi. Una farmacologia che, come la medicina, fu profon- damente rinnovata nell’Ottocento grazie soprattutto alle concezioni di tre geniali scienziati: la medicina sperimentale di Claude Bernard (1813-1878), la teoria dei germi di Louis Pasteur (1822-1895) e la patologia cellulare di Rudolf Virchow (1821-1902).

La prima evidenziava l’importanza di correlare sperimentalmente cause ed effetti sia in ambito patolo- gico che terapeutico; la seconda dimostrava l’esistenza di organismi viventi invisibili a occhio nudo (micro- bi) all’origine di eventi fisiologici e patologici; la terza poneva l’accento sul ruolo delle modificazioni cellulari nei processi patologici, indicando la cellula quale ber- saglio principale sul quale dovevano agire i farmaci.

La chimica farmaceutica riuscì nei primi decen- ni dell’Ottocento a isolare da alcune piante medicinali (china, oppio, tabacco, caffè) il “principio attivo” re- sponsabile dell’effetto curativo (chinina, morfina, ni- cotina, caffeina), purificandolo e iniziandone la produ- zione in grande quantità per renderlo disponibile per le indagini sperimentali e per l’uso terapeutico.

In ambito farmacologica, oltre a questa, la vera no- vità dell’Ottocento fu la nascita dei farmaci sinetici: non più estratti di sostanze vegetali, animali o minerali pre- senti in natura, ma composti “costruiti” artificialmente in laboratorio per sintesi chimica, in grado di svolgere un’azione farmacologica selettiva ed efficace per l’or- ganismo (come aveva teorizzato Virchow), verificabile sperimentalmente (come aveva suggerito Bernard).

Questa “rivoluzione farmacologica” avviò il pro- cesso di industrializzazione della produzione farma- ceutica, facendo del farmaco un rimedio innovativo per le sue capacità terapeutiche e per la sua ampia dispo- nibilità, ma anche un prodotto in grado di determinare un rilevante profitto economico e, come tale, sottopo- sto alle rigide regole del mercato commerciale.

Una trasformazione che produsse diversi modelli di sviluppo industriale. I paesi di cultura e lingua tede- sca furono quelli dove, per il concorrere di molteplici fattori (importante tradizione chimica, disponibilità economica di grandi capitali, forte capacità imprendi- toriale), l’industria farmaceutica si sviluppò soprattutto come continuazione o filiazione di quella chimica dei coloranti: Bayer e Hoechst (1863), Basf (1865) e Sche-

ring (1871) in Germania, Ciba-Geigy (1884), Sandoz (1866) e Hoffman-La Roche (1894) in Svizzera furo- no le prime e principali industrie di farmaci a nascere nella seconda metà dell’Ottocento.

La ricerca di sostanze capaci di alleviare il dolore o esplicare un’efficace azione antifebbrile rappresenta- va allora il principale obiettivo da raggiungere. Fenace- tina (Bayer 1888) e Piramidone (Hoechst 1883) furo- no i primi veri farmaci sintetici clinicamente utilizzati prodotti dall’industria farmaceutica. Nel 1899, sempre la Bayer, metteva in commercio un altro composto contro dolori, febbri e reumatismi destinato a diventa- re famoso, l’Aspirina.

Nei paesi di lingua e cultura latina (Italia e Fran- cia in particolare), invece, l’industria farmaceutica pre- se avvio dalla trasformazione dei laboratori che affian- cavano le botteghe degli speziali, i più intraprendenti dei quali (a Torino Giovan Battista Schiapparelli nel 1823, a Milano Carlo Erba nel 1853, Lodovico Zam- beletti nel 1864 e Roberto Giorgio Lepetit nel 1868) diedero vita a importanti stabilimenti.

Nei paesi di lingua inglese (Gran Bretagna e Stati Uniti) questa industria nacque dalla predisposizione a brevettare le innovazioni tecniche legate alla produ- zione e alla commercializzazione dei farmaci (come la macchina a ruota per la fabbricazione delle compresse di William Allen nel 1874 o l’invenzione del neolo- gismo tabloid [tablet+alkaloid] da parte di Burroughs Wellcome nel 1903 per identificare in modo esclusivo i farmaci prodotti dalla sua azienda).

Dai farmaci di sintesi ai farmaci biotecnologici

Agli inizi del Novecento, se i nuovi farmaci sin- tetici risultava efficaci nel combattere la febbre e seda- re il dolore, non erano però ancora riusciti a incidere su quell’autentico flagello dell’umanità rappresentato dalle infezioni, la cui eziologia microbiologica era sta- ta inequivocabilmente dimostrata nel 1882 da Robert Koch (1843-1910). L’impiego di sieri e vaccini (so- prattutto per la difterite) e il ricorso al chinino (per la malaria) avevano fornito un contributo importante ma non risolutivo.

Nel 1910 un nuovo farmaco della Hoechst, il Sal- varsan, per combattere la sifilide (un’infezione sessuale

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a elevata diffusibilità), sembrò suscitare grandi spe- ranze e dischiudere nuovi orizzonti. Era il frutto delle ricerche di un geniale scienziato, Paul Ehrlich (1854- 1915), convinto assertore dell’importanza della “che- mioterapia” nella lotta contro le malattie: la possibilità cioè che una sostanza sintetica – il farmaco – introdot- ta dall’esterno nell’organismo malato potesse agire, per affinità chimica, come una “pallottola magica” in grado di colpire selettivamente la causa del morbo e debellare il male. Il Salvarsan non si dimostrò all’altezza delle aspettative nella cura della sifilide, ma l’idea del suo inventore era corretta. Alcuni anni dopo, nel 1932, la scoperta della prima vera classe di farmaci efficaci con- tro le infezioni, i sulfamidici, nasceva proprio grazie all’intuizione di Ehrlich.

La lotta contro le malattie infettive ottenne la sua vittoria definitiva durante gli anni della Seconda guer- ra mondiale, allorché nel 1942 s’iniziò la produzione e l’impiego medico della penicillina, una sostanza pro- dotta da una muffa, le cui proprietà antimicrobiche erano state casualmente scoperte nel 1929 da Alexan- der Fleming (1881-1955). Da allora l’impiego degli antibiotici (di cui la penicillina fu il primo rappresen- tante) ha salvato milioni di vite e ha cambiato il desti- no dell’umanità.

Grazie alla “chimica biologica” – che nel Nove- cento ha integrato le conoscenze della chimica inor- ganica e organica del secolo precedente permettendo di scoprire ormoni (1905) e vitamine (1911) – anche gravi malattie provocate da carenza vitaminica (come scorbuto e pellagra) o patologie endocrine (come dia- bete mellito e distiroidismi) hanno potuto curate.

La scoperta nel 1942 da parte di Daniel Bovet (1907-1992) dell’istamina e del suo ruolo nelle rea- zioni biologiche dell’organismo permise, nel secondo dopoguerra, di utilizzare farmaci con azione antista- minica, come le fenotiazine, quali sedativi centrali. L’impiego in alcune forme di psicosi della clorproma- zina (Largactil, 1952) ha segnato l’inizio ufficiale della “psicofarmacologia”, destinata a continuare con anti- depressivi e antipsicotici. L’introduzione del cortisone (1949) per la cura delle forme di artrite, la scoperta e l’impiego di nuovi antibiotici (1950-1957), l’uso in alternativa all’insulina di antidiabetici orali (1955), la nascita della “pillola contraccettiva” (1956) diedero inizio a un’“esplosione farmacoterapica” destinata a

proseguire con l’impiego crescente di farmaci cardio- vascolari e di diuretici, con la nascita di farmaci attivi contro il morbo di Parkinson (1960) e di tranquillanti minori come le benzodiazepine (Librium, 1960; Va- lium, 1963).

La tragedia del Talidomide (un farmaco per vin- cere l’insonnia, apparentemente sicuro, ma che, se as- sunto da donne in gravidanza, provocava gravissime malformazioni al feto nascituro) impose agli inizi degli anni Sessanta una pausa di riflessione sul potere dell’in- dustria farmaceutica e sulla sicurezza dei farmaci: utili ma allo stesso tempo potenzialmente pericolosi.

Una condizione, quest’ultima, che vale anche per i prodotti messi in commerci in questi ultimi decenni: nuovi potenti cardioprotettori e antipertensivi, antiul- cera, antivirali, farmaci contro il colesterolo e per ri- durre l’ipertrofia prostatica. Una situazione destinata a persistere, seppure mitigata, anche adesso che ai “far- maci sintetici” si stanno iniziando a sostituire i “farma- ci biologici”, legati alle conoscenze del genoma umano e prodotti dalle moderne biotecnologie.

I nodi del presente e le prospettive future

In questi ultimi anni infatti lo studio delle varia- zioni genetiche individuali ha consentito di compren- dere i fattori che influenzano la risposta di ogni pa- ziente ai farmaci. Gli studi di genomica, di proteomica, di trascrittomica, di lipidomica (il cosiddetto mondo degli “omics”) hanno aperto orizzonti di conoscenza strabilianti. Oggi la farmacogenomica si propone l’am- biziosa prospettiva di poter predire (grazie a tecnologie basate su microchips che consentono rapide indagini molecolari su specifici genotipi) la risposta individua- le di un paziente a un farmaco, in modo da valutarne l’eventuale resistenza o l’insorgenza di effetti collate- rali significativi, arrivando a ipotizzare l’impiego di un farmaco “su misura” per quel particolare soggetto. Ac- canto a queste nuove modalità di ricerca, anche la na- nofarmacologia gioca un ruolo sempre più importante. Questa nuova farmacologia sta cambiando anche le regole dell’industria farmaceutica e del suo mercato.

Nel giro di pochi decenni gli investimenti che un’industria deve affrontare per sviluppare un nuovo farmaco sono passati da 80 a 800 milioni di dollari,

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mentre il tempo che si deve attendere prima che un nuovo prodotto venga messo in commercio è slittato da 10 a quasi 15 anni. Questa è stata la principale ragione che, negli ultimi trent’anni, ha provocato la scomparsa – per assorbimento da parte di altre o per mancanza di competitività – di molte industrie del settore e ha fa- vorito la fusione fra aziende (merger), generando veri e propri giganti farmaceutici i quali, anche se in piccolo numero, sono in grado di controllare e condizionare ricerca e mercato a livello mondiale (big pharma). Dal- la fusione di industrie che già in precedenza si erano accorpate sono così nate, solo per citarne alcune, No- vartis da Ciba-Geigy e Sandoz, Aventis da Hoechst e Roussel-Rhone Poulenc-Rorer, Gsk da Glaxo Well- come e SmithKline. Si tratta di un processo ancora in atto, destinato a ridurre sempre più, su scala globale, il numero delle industrie farmaceutiche.

Accanto a queste maxindustrie, lo sviluppo del fenomeno biotecnologico ha favorito la creazione e la proliferazione, inizialmente negli Stati Uniti, sede di origine del fenomeno, poi anche in Europa, di migliaia (circa 200 attualmente in Italia) di laboratori di ricerca di piccole dimensioni e di microaziende basate su pochi progetti promettenti dal punto di vista biofarmacolo- gico, in grado di attrarre capitali privati per consentir- ne la realizzazione (biotech companies). Sono aziende che sono nate separandosi da un’industria più grande o dall’università (spin-off), oppure società fondate da un gruppo di ricercatori-imprenditori per elaborare un progetto nuovo (start-up).

I nuovi farmaci nasceranno quindi sia nei vasti la- boratori nati dalla concentrazione delle medie e grandi industrie farmaceutiche tradizionali, sia nei più esigui studi delle piccole e dinamiche aziende biotecnologi- che che hanno beneficiato del successo del loro proget- to e del fallimento delle concorrenti in un mercato che non ammette errori.

Nonostante queste nuove strategie farmaceutiche, in questi ultimi anni un’emergenza globale, paragona- bile o forse ancora più grave rispetto a quella del clima che tanto preoccupa l’umanità, incombe minacciosa sulle nostre società. Si tratta della “resistenza batterica” (antibioticoresistenza), espressione con la quale si in- dica il fatto che molti germi patogeni che provocano infezioni nell’uomo non sono più sensibili ai farmaci antimicrobici oggi disponibili, trasformandosi così in

“superbatteri”, microrganismi potenzialmente morta- li per i malati, come accadeva prima della scoperta e dell’impiego degli antibiotici

Infatti l’assenza di nuovi antimicrobici (da diversi decenni non vengono immesse sul mercato nuove mo- lecole) preoccupa globalmente le istituzioni sanitarie. Il venire meno di interesse da parte dell’industria far- maceutica alla produzione di questi farmaci è legata in buona parte a ragioni economiche. Sono prodotti che “non pagano” in termini di mercato. Dalla fine degli anni 80 infatti non sono state più inventate nuove clas- si di antibiotici.

In questi ultimi anni (Assemblea Generale del- le Nazioni Unite del 21 settembre 2017) diverse tra le maggiori industrie farmaceutiche hanno ribadito la promessa di contribuire attivamente a ridurre il feno- meno dell’antibioticoresistenza. Accendere l’interesse dell’industria per la produzione di nuovi antibiotici, insieme a un uso sostenibile da parte degli operato- ri sanitari di quelli ora disponibili, è certamente una delle vie da percorrere. Così come utilizzare metodi- che biotecnologiche per evidenziare i punti deboli dei “superbatteri” può darci nuove armi per riconoscerli e combatterli.

Riflessione finale

L’ambiguità semantica che ha sempre accompa- gnato la parola farmaco (in greco pharmacon significa sia pozione benefica che veleno, in inglese drug indica sia il medicamento che la droga) sembra essere uno specchio della sua ambivalenza farmacologica e del re- ale contenuto curativo: una sostanza la cui azione be- nefica non è mai disgiunta da un possibile effetto dan- noso e per la quale solo il rapporto rischio/beneficio ne giustifica l’uso in determinate circostanze patologiche. A questa dicotomia lessicale si aggiunge, dall’Otto- cento in poi, anche un’ambiguità costituitiva: esso è un rimedio sanitario efficace e selettivo, ma è anche un prodotto commerciale sottoposto alle rigide regole del mercato e del profitto economico.

Sul piano sanitario i farmaci sono un bene pre- zioso da usare in modo intelligente e moderato, per ottenere il massimo dei vantaggi col minimo dei dan- ni. Sul piano industriale occorre che chi li produce

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e li commercializza abbia un comportamento etico, dettato dalla consapevolezza che si tratta di prodotti particolari e diversi da altre produzioni commerciali. Una sana competitività industriale e una sostenibilità economica equilibrata potranno evitare squilibri sani- tari a livello sociale e scandalose speculazioni commer- ciali globali come purtroppo la cronaca di questi ultimi decenni ha drammaticamente più volte documentato.

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Corrispondenza: Vittorio A. Sironi

Centro studi sulla storia del pensiero biomedico Università degli Studi di Milano-Bicocca, Milano E-mail: vittorio.sironi@unimib.it

L’alchimia prima e dopo Paracelso: il contributo della ricerca

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