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Dipartimento di Biotecnologie e Scienze della Vita, Università degli Studi dell’Insubria, Varese

Medicina Historica 2020; Vol. 4, Suppl 1: 50-52 © Mattioli 1885

S t o r i a d e l l a s a n i t à p u b b l i c a

Francesco La Cava (1877-1958), calabrese di nascita, seppe coniugare la professione medica con la propria formazione religiosa, con la passione per l’arte e la letteratura, riportando fama anche a livello inter- nazionale per alcune sue ricerche in medicina tropicale (leshmaniosi umana autoctone nel continente euro- peo), nel mondo artistico (“Il volto di Michelangelo scoperto nel Giudizio Finale. Un dramma psicologico in un ritratto simbolico”, 1925) e in campo teologico (“Sulla Comunione Eucaristica attraverso la fistola ga- strica”, 1944) (1, 2).

Il suo incontro con Nicola Latronico lo introdusse nell’ambito della Storia della Medicina alla metà del secolo scorso; la storiografia medica milanese deve a La Cava il merito di essersi occupato negli anni Quaranta di storia sanitaria lombarda. Nel III volume della col- lana “Studi di Storia della Medicina” del 1946 affrontò l’“Igiene e Sanità negli Statuti di Milano nel sec. XIV”. Per l’autore lo studio delle “antiche norme igienico-sa- nitarie municipali” conduceva alla conoscenza del cli- ma, del commercio e del lavoro, del grado di benessere economico e sociale di una determinata popolazione in uno specifico luogo; si trattava di regole di profilas- si in caso di malattie, ma anche dei primi tentativi di istituire delle personalità giuridiche preposte alla sanità delle popolazioni. Prima del 1534 furono emanati degli editti per la tutela degli abitanti, che purtroppo sono andati dispersi; essi prevedevano un “Officio di Sani- tà” in cui operavano i “Ducales conservatores sanitatis Status Mediolani”. L’11 aprile del 1534 venne creata la figura del “Magistrato di Sanità”, che continuò ad esistere fino al 1786. Il duca Francesco Sforza raccol- se tutte le disposizioni emanate in precedenza per la tutela dell’igiene e della salute pubblica, le integrò e

coordinò in un unico “corpus”, i nuovi Statuti di Mi- lano, che rappresentarono il primo codice di polizia sanitaria municipale. Questi Statuti furono il frutto di elaborazione e trasformazione del “Codex Statutorum Veterum Mediolanensi” (3). Lo studio di La Cava si concentra proprio su questo codice milanese portando alla luce un tesoro della Storia della Medicina fino ad allora inedito. Egli utilizzò una copia cartacea del 1481, custodita presso l’archivio dell’Ospedale Maggiore, restaurata nel 1832, costituito da 297 fogli, scritta in corsivo su un’unica colonna, suddivisa in libri, capito- li e rubriche. Prima della sua intera trascrizione nella seconda parte del volume, l’autore riporta i suoi com- menti suddivisi in capitoli, di cui il primo si occupa di “Studenti, Medici, Chirurghi e loro Collegi”. L’impor- tanza di possedere una cultura medica veniva sottoline- ata dal valore dei libri di medicina, che non potevano essere trasportati fuori dalla città. Si costituì, salvaguar- dando la personalità giuridica, il Collegium medicorum

fisice al quale potevano accedere medici con tre anni di

frequenza ai corsi; anche per i chirurghi e gli spezia- li fu previsto un Collegio. Il “Vicario alle provvisioni” era incaricato di eleggere sex probi viri che girassero nella città per ricoverare negli ospedali gli infermi e i vagabondi. Determinante è il secondo capitolo, “Igiene del suolo, dell’abitato, delle acque; cloache, pozzi neri, carceri, sepolture”. Da esso apprendiamo che era vieta- to spargere per le strade deiezioni o immondizia, che non si poteva scuoiare o salassare il bestiame in città, che era proibito lavare nelle acque correnti pelli e carte oltre che far affluire i residui delle tintorie. Per evita- re miasmi nelle carceri era prevista un’accurata puli- zia, una fornitura di letti di paglia e pane ben cotto. La macellazione non doveva avvenire in luoghi pubblici e

Francesco La Cava e i suoi studi sulla storia dell’Igiene pubblica 51

le bestie pronte per la vendita dovevano venire appese in modo che gli officiales potessero controllare lo stato delle carni. Anche la vendita di pesce era disciplinata per evitare intossicazioni, come accadeva per i cereali e i legumi, il pane e il vino. La Cava conclude le sue os- servazioni sottolineando che le pene previste per le fro- di e le adulterazioni di medicinali, cibi e bevande erano severe, riflettendo la paura dell’autorità di infezioni in città; in casi di urgenza venivano emanate “gride” non permanenti, per cui non comprese nel Codice, “che co- stituiva, secondo lo spirito del tempo, il complesso di norme più salienti e permanenti per guidare la popola- zione di una città considerata fra le prime all’avanguar- dia del progresso” (3).

Nel II volume della collana, “La peste di S. Car- lo vista da un medico” del 1945, La Cava affrontò un capitolo di storia come medico e storico; si tratta di un saggio sulla peste del 1575-78, che portò alla mor- te 18.000 abitanti di Milano, cifra inferiore rispet- to a molte altre città grazie ai provvedimenti igienici adottati dall’autorità civile e da quella religiosa. L’in- tero volume rappresenta un ampio e dettagliato qua- dro dell’epidemia dove il racconto tecnico-scientifico, quello storico-umano e quello religioso si fondono come nella personalità dell’autore. Il primo capitolo tratta dell’eziopatogenesi della malattia, che a quell’e- poca non si conosceva ancora, ma era noto che “l’in- fezione era portata dall’Asia o dall’Europa Orientale, nelle quali sterminate regioni la peste serpeggiava con focolai endemici, specialmente nel XVI secolo” (4). Già da allora s’intuì che la derattizzazione e la se- gregazione degli infetti potevano essere dei mezzi di profilassi efficaci e che il contagio poteva avvenire tra le persone o tramite indumenti e coperte infette. Le prime misure disposte furono il divieto di impiantare risaie e allevamenti dei bachi da seta nei pressi della città, l’incitamento alla pulizia delle case e delle strade e il monito a vigilare sulla merce in vendita nei mercati, oltre al consiglio di accendere fuochi e usare profumi per purificare l’aria. Nel secondo capitolo La Cava si occupa della sintomatologia, dell’assistenza sanitaria e della terapia; ampio spazio viene dedicato al sistema di norme igieniche-profilattiche che le autorità misero in atto per contrastare la pestilenza. Tra i tanti provvedi- menti si ricordano “l’uso di fuochi aromatici”, quello di

erbe e decotti, la consuetudine di portare al collo sfere di canfora, di praticare salassi e di condurre una vita equilibrata. Per la disinfezione veniva usato l’aceto o venivano fatte passare le dita sopra alla fiamma di una candela; si consigliava di far bollire acqua e panni e di utilizzare “acqua di calce”, pece e incenso. I “monatti” avevano il compito di svuotare ogni casa ritenuta in- fetta e di procedere alla sua disinfezione; si costruirono lavanderie presso ogni porta della città dove avveniva la “purgazione” delle masserizie delle case malsane. Dai “purgatori brutti” tramite acqua corrente tutto passava alla “lavanderia netta” presso la quale veniva rilavato, profumato ed esposto al sole; solo allora i proprieta- ri potevano ritirare le proprie cose (4). Nel lazzaretto e nelle capanne l’assistenza veniva fornite da religiosi volontari, mentre i medici prescrivevano le loro ricet- te tramite le finestre dell’edificio. Per eseguire salassi, per la somministrazione delle cure e per le medicazioni venivano impiegati i “barbieri”. Il terzo capitolo del libro elenca i provvedimenti dell’autorità civile ema- nati dal Tribunale sanitario. Una novità fu l’istituzione delle “bollette di sanità” che garantivano alla perso- na che le deteneva di provenire da un territorio non contagiato; si bloccavano così le vie di comunicazione, il commercio e i pellegrinaggi, mentre i soldati mon- tavano di guardia alle porte della città. Dato l’aggra- vamento dell’epidemia l’unica norma di profilassi era considerata la quarantena, oggetto del quarto capitolo del volume. Questa rigida norma di prevenzione, che comportò non poca spesa per il rifornimento di cibo e vestiario, la disinfezione delle case e il pagamento del personale, portò da subito giovamento alla salute pub- blica; all’inizio del 1578 si poteva dire che la peste era stata sconfitta. Nella parte finale dell’opera il medico si sofferma invece nel descrivere i “provvedimenti e sol- lecitudini di san Carlo”, le sue istruzioni per la peste, la descrizione del lazzaretto e dell’opera del suo priore. Senza dubbio l’opera del religioso fu così imponente, che questa epidemia fu soprannominata “la peste di San Carlo”.

Con questo lavoro si è voluto porre l’attenzione sulla figura di Francesco La Cava, un collega che ri- schiava di perdersi nelle pieghe del tempo, nonostante sia stato un valido protagonista della storia scientifica e non solo.

B. Pezzoni

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Bibliografia

1. La Cava F. Francesco La Cava, un medico alla ricerca del- la verità. Dal Bottone d’Oriente al volto di Michelangelo e alle parabole del Vangelo. Torino: Edizioni Minerva Medica; 1977.

2. Italiano G. La forza della semplicità. Francesco La Cava tra scienza e fede. Ardore Marina: Arti Grafiche Edizioni; 2001.

3. La Cava F. Igiene e Sanità negli Statuti di Milano nel sec. XIV. Studi di Storia della Medicina. Milano: Editore Ulrico Hoepli; 1946; 3:19-22, 52.

4. La Cava F. La peste di S. Carlo vista da un medico. Studi di Storia della Medicina. Milano: Editore Ulrico Hoepli; 1945; 2:43, 72-77.

Corrispondenza: Barbara Pezzoni

Università degli Studi dell’Insubria, Varese E-mail: barbara.pezzoni@uninsubria.it

L’Istituto Superiore di Sanità del Nord: ottobre

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